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Perché il gioco d’azzardo rovina l’Italia
Informazioni su questo libro
Tra il 2014 e il 2019, il fatturato del gioco d'azzardo in Italia è passato da 84,5 a 110,5 miliardi di euro. Una crescita del 30%, che ha visto complice uno Stato ambiguo: da un lato, acquirente di slot machine e promotore di nuovi casinò e, dall'altro, finanziatore di campagne per curare i giocatori patologici.
In quest'inchiesta di forte denuncia si snocciolano dati sulle proporzioni gigantesche di un fenomeno di cui nessuno osa parlare: diventato il terzo comparto industriale italiano, l'azzardo abbassa di oltre 2 punti il nostro Pil.
E dietro i dati tante storie drammatiche – personali e familiari – che parlano di rovina, di criminalità, di vergogna, ma anche della progressiva quanto subdola instillazione della "cultura del gioco d'azzardo" in atto da decenni nel nostro Paese. Solo con un'ardua resistenza civica sarà possibile uscire da questa deriva deleteria, causa di un'enorme sofferenza sommersa e di un danno sociale per tutti.
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Informazioni
Argomento
PsicologiaCategoria
Dipendenze in psicologiaPrefazione
di Maurizio Fiasco
Un giornalista impegnato, Umberto Folena, che dà conto di come si è via via presentato – sulla scena quotidiana delle città, nei luoghi dello svago, del lavoro e delle abitudini più semplici – quel comportamento di massa che è il versare denaro per ricevere la ricompensa dal caso. È il gioco d’azzardo, in Italia un’abitudine pesante per non meno di 5 milioni e 200 mila persone, delle quali oltre un milione e mezzo in stato di dipendenza patologica. Sono uomini, donne, ragazzi della porta accanto, colleghi di lavoro, pensionati, colf...
Si sceglie un assortimento di episodi che appaiono inspiegabili, se non si passa a rivelare il “sottostante”, per l’appunto il gioco d’azzardo. Un piccolo artigiano, con moglie e figli, che ruba quel che trova al primo passante che lascia incustodito un borsello: deve “rifarsi” della slot machine che gli ha appena succhiato ciò che aveva in tasca. O un lavoratore avventizio che reagisce alla frustrazione di perdere soldi e compie violenze estreme sulla donna che gestisce il locale. Eccezioni? Non pare davvero, se si prosegue nella lettura. S’incontrano persone che prestano servizio nei corpi militari e di polizia; disoccupati che picchiano i familiari; atleti frustrati che si danno all’aggressione; pensionati finiti in miseria; minorenni impossibili da far ragionare; coppie di genitori irresponsabili: tutti autori di reati che creano sconcerto per lo sfondo che rivelano e per la “situazione”. Uccisioni, rapine, furti, violenze, abbandoni di familiari, addirittura casi di figli lasciati rinchiusi nell’autovettura al gelo della notte o al sole cocente per consentire al genitore di restare incollato alla slot.
Episodi che hanno un tratto in comune: la dipendenza patologica dal gioco d’azzardo, acquisita nei locali che si affacciano sulle strade di ogni giorno. O, per dirla meglio, incappando nelle trappole disseminate ovunque, anche all’interno delle mura domestiche grazie al monitor del computer o allo schermo dello smartphone.
Di tutto questo, in Italia, fino a 20 anni fa nelle cronache non c’era quasi traccia. Ma la previsione che nel caso di un lancio del mercato della Fortuna si provocherebbero gravi effetti criminogeni è riportata meticolosamente nella letteratura sociologica d’Oltreoceano. Negli Stati Uniti, in Canada e persino nell’emisfero sud, in Australia, dalla metà del Novecento vi sono interi scaffali pieni di libri e riviste che spiegano nel dettaglio l’impatto del gioco d’azzardo sulla questione “crimine”. A tali elaborazioni, dedicate alla difesa sociale e alla prevenzione della devianza, fanno anche da contraltare una miriade di esperienze di associazioni di auto aiuto di famiglie rovinate dalle scommesse e dai casinò, di gruppi di terapia, di programmi di assistenza. Tutto questo, sottolineiamo ancora, ben prima che l’Italia seguisse le orme degli States, per poi sorpassare – e di molto – le performance del gambling nel Nuovo Mondo.
Ci si potrebbe giovare di tale esperienza internazionale? Sì, sospettando che anche il Belpaese possa incrociare un rischio analogo. E un gesuita di Napoli, padre Massimo Rastrelli, insieme a un parroco di Bari, don Alberto D’Urso, hanno questo sospetto già nel 1998. Si stanno occupando di fronteggiare quel debito avvilente e distruttivo – l’usura – che prospera tra le famiglie e le piccole imprese nei periodi di crisi economica. I due sacerdoti vi rinvengono casi, spesso ripetuti, di ricorso ai prestiti di strozzinaggio anche per motivi di gioco d’azzardo. Li osservano tra le famiglie povere. E poi vengono a sapere, girando per le varie località italiane, che si formano comitati promotori di casinò da attivare in Puglia, in Campania, in Sicilia, in Toscana, nei comuni con stabilimenti termali. Comitati che prospettano grandi benefici per l’economia del turismo!
È allora che i due antesignani dell’impegno contro l’usura mi chiedono di studiare la questione. E così raccolgo i dati, esamino la letteratura, scavo negli atti parlamentari. E trovo i testi di ben 104 progetti di legge, depositati tra il 1994 e il 1998, per istituire nuovi casinò in Italia. Mi stupisce il crescendo di dichiarazioni, di pseudo ricerche socioeconomiche, di improbabili reportage giornalistici che magnificano l’opportunità tanto per lo Stato (sotto forma di incassi fiscali) quanto per l’industria turistica e per l’occupazione. È palese che si tratta del lancio di un’operazione che mira a influenzare le istituzioni, attivare il consenso dell’opinione pubblica e creare un senso comune che spinga a deliberare per cogliere l’opportunità.
Mentre svolgo questo lavoro per l’Antiusura, incontro l’altra autrice del libro, Daniela Capitanucci: con preveggenza, già studia e opera in materia di dipendenza patologica da gioco d’azzardo. Una forma di sofferenza che ha ancora la dimensione di una nicchia, per quegli anni, nel campo della grande questione delle addiction. A fronte di 12 milioni di tabagisti, di 3 milioni e mezzo di consumatori di droga (dei quali 250 mila tossicodipendenti), di 4 milioni di bevitori a rischio (un milione con disturbo alcol-correlato, cioè con dipendenza patologica) il gioco d’azzardo sembrerebbe un tema trascurabile. Eppure si è iniziata la marcia a tappe forzate che porterà l’Italia a divenire, in rapporto alla popolazione, il primo mercato mondiale, passando da un consumo lordo di gioco pari ai 10 miliardi di euro (sul finire degli anni Novanta del secolo scorso) agli oltre 110 nell’anno 2019, quello che precede la pandemia del Covid-19. Non è un caso che il principale trust planetario sia oggi governato da una compagnia nostrana: nel 2014 ha persino assorbito il colosso statunitense del gambling e versato 6,4 miliardi di dollari1. Nel libro la progressione è dunque descritta con cura.
Mentre procede la colonizzazione della Penisola, distribuendo 240 mila punti vendita di una (o più) delle 51 tipologie autorizzate di giochi con denaro, per denaro e a scopo di lucro, lentamente si viene componendo anche un ambiente di studiosi, di operatori delle dipendenze, di associazioni di aiuto che si sforzano di “riparare” alle conseguenze sulla persona di tale aggressione. E alle istituzioni indicano in piena coscienza come prevenire un ben prevedibile naufragio personale, sociale, economico e morale del Paese. Daniela Capitanucci fa parte dei pionieri in Italia di tale mobilitazione professionale.
Si tratta di un gruppo di persone – non più di una trentina – che con totale disinteresse personale hanno compiuto per anni un lungo percorso, a un tempo scientifico e di servizio, così da compendiare nelle loro biografie professionali un sapere che – occorre rimarcare – non era affatto disponibile in Italia. Un sapere sincero, rigoroso, onesto: che adesso però rischia di venire ostracizzato dalla marea montante di proposte “condizionate” di terapie ad usum Delphini, basate su assiomi molto graditi alle compagnie dell’azzardo in concessione statale.
Le società partner dei Monopoli, avvertendo il rischio di una critica indipendente al loro business spregiudicato, infatti, hanno versato imponenti finanziamenti a 14 tra università e centri di ricerca: ricevendone in cambio attestati di rispettabilità dell’affare dell’azzardo e in diversi casi ottenendo “perizie tecniche”. Le hanno usate per smontare, nei tribunali amministrativi, regolamenti e ordinanze dei Comuni finalizzate a tutelare la popolazione dal marketing aggressivo dell’azzardo.
Com’è noto – ahimè da sempre – quando poi si attiva una fonte di finanziamenti, ben presto si forma l’ambiente degli investitori per ottenere denaro pubblico. Nel caso dell’azzardo, il budget aggiuntivo è di 50 milioni di euro all’anno. Nella corsa a offrire prestazioni al Servizio sanitario nazionale e alle Regioni confluisce di tutto: da “campagne di prevenzione” senza senso (ma molto costose) a offerte di apparecchi che stimolino il cranio dei “ludopatici” per espungerne il contagio della dipendenza; da insegnamenti agli alunni su forme di gioco (d’azzardo) controllato, a setting terapeutici gestiti senza le professionalità acquisite in anni e anni di duro lavoro, e altro ancora.
Per dirla con papa Francesco: «Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!»2.
Al di là dei dubbi circa l’impiego appropriato del denaro pubblico, il danno maggiore che può venire da siffatte iniziative consiste nella banalizzazione di un problema molto serio, con il conseguente ostracismo alle visioni rigorose, competenti e verificabili quanto a metodiche e a risultati. Per citare un’analogia, come la moneta cattiva (quella dell’evasione fiscale e delle attività illecite) scaccia la moneta buona (circolante nell’economia legale) così le terapie (e le stesse campagne di prevenzi...
Indice dei contenuti
- Prefazione