Il nodo ligneo
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Il nodo ligneo

Sul rapporto fede e ragione

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Il nodo ligneo

Sul rapporto fede e ragione

Informazioni su questo libro

In un periodo come il nostro, caratterizzato da una profonda crisi di senso, dalla frammentarietà del sapere, dalla cultura digitale, è necessario che fede e ragione tornino di nuovo a parlarsi, senza la pretesa di dominare l'una sull'altra. È in gioco, infatti, la conoscenza della verità, senza la quale la libertà dell'uomo è pura illusione. In che modo però fede e ragione devono tornare a dialogare? È la questione fondamentale – il nodo ligneo – affrontata nel volume. Nel lungo percorso storico che ha segnato il rapporto fede e ragione, e che l'autore ripercorre nel testo, una tappa fondamentale è stata raggiunta con la pubblicazione dell'enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II nel 1998. Questo importante documento del Magistero, come ben dimostra il volume, ha voluto sostenere il cammino nella ricerca dell'unità del sapere, così caro alla tradizione antica e medievale, alla luce della rivelazione di Dio. Aprendosi alla verità della rivelazione, la ragione non è esclusa dalla fede e questa, se vuole corrispondere alla sua natura, non può prescindere dalla ragione. Fede e ragione devono camminare insieme se vogliono portare luce su quell'unica verità che segna l'appassionata ricerca di senso propria di ogni persona.

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Informazioni

CAPITOLO IX

LA RIVELAZIONE
UN’OPPORTUNITÀ PER LA RAGIONE

Una metafora

«Cingendo i fianchi della vostra mente» (1Pt 1,13). È con questa espressione di Pietro che ci si può inserire in una ulteriore serie di considerazioni sul rapporto fede e ragione. L’apostolo utilizza un’immagine metaforica presa dalla quotidianità del popolo d’Israele. Come si sa, per gli antichi era usuale nei giorni di festa e nei momenti di riposo avere una veste lunga che giungeva fino ai piedi. Durante il lavoro, il cammino e i momenti decisivi in cui era richiesta agilità, la veste veniva cinta intorno ai fianchi per consentire di muoversi con destrezza. L’invito a cingersi la veste ai fianchi richiama ad almeno due fatti significativi. Anzitutto, la storia del popolo ebraico nel suo cammino di liberazione dalla schiavitù dell’Egitto verso la terra promessa (cfr. Es 12,11). Inoltre, l’invito pressante di Gesù a essere vigilanti nell’attesa del suo ritorno: «Siate sempre pronti con i fianchi cinti» (Lc 12,35). Pietro, comunque, in questo versetto forza ulteriormente l’immagine e la applica alla diànoia, cioè al «pensiero», alla «mente», all’«intelletto», insomma a tutto ciò che esprime una capacità di intendere, perché questa attività peculiare della persona possa rimanere sempre attenta, vigile e dinamicamente aperta alla novità. È necessario, quindi, superare ogni ostacolo che impedisca una coerente comprensione del mistero a cui il credente offre il proprio assenso.
È interessante osservare, infine, che l’apostolo pone questo comando234 subito dopo la congiunzione consequenziale «perciò» (
greco
), per indicare che «cingere la mente» non è un’esortazione dell’apostolo, ma nasce primariamente e direttamente dall’annuncio che è stato fatto in precedenza della vita nuova che Dio ha offerto in Gesù Cristo ai credenti (cfr. 1Pt 1,3-12). La sottolineatura ovviamente ha delle conseguenze anche per la riflessione teologica che stiamo sviluppando, dove l’obiettivo è sempre quello di far emergere il primato della rivelazione di Dio come archè dell’azione che il credente compie nella sua intelligenza del mistero. In altri termini, l’esigenza della ragione nell’intelligenza del mistero rivelato non è data in primo luogo dalla ragione che interroga, ma dal contenuto stesso del mistero che chiede di essere compreso, perché il credente possa giungere a una decisione di vita. Il fatto che la ragione di sua iniziativa interroghi non contraddice la tesi, anzi. Conferma la legittima autonomia della ragione, ma non la sua eventuale pretesa di primato sulla rivelazione. Questa per il teologo ha necessariamente bisogno di rimanere libera nel suo esprimersi e nel rinvenire le forme più idonee e coerenti per la sua comunicazione nella storia.
La metafora, dunque, ha un suo significato specifico proprio quando l’apostolo chiede che la mente sia attiva e dinamica, non pigra o peggio sottoposta all’ignavia e alla paura. Nel momento in cui il credente si trova nella storia, nell’attesa del ritorno del Signore, ed è chiamato a compiere la sua scelta fondamentale di fede che gli permette di rileggere la sua esistenza in modo nuovo, allora ha bisogno di tenere la mente aperta e in grado di entrare sempre più in profondità nel mistero che crede e nella testimonianza di carità e speranza che deve offrire al mondo.

Un richiamo storico

Per entrare nel merito della questione circa l’apertura che la rivelazione compie nei confronti della ragione, è opportuno ritornare all’enciclica di Giovanni Paolo II per verificare se fin dall’inizio vengono fornite quelle coordinate che permettono di cogliere questa istanza. Fides et ratio: il titolo è prospettico e sembra già delineare la tesi secondo cui ci si muove nel dualismo classico del rapporto fede e ragione, senza permettere molti altri spazi di azione interpretativa. Quel «et» posto tra i due termini è una congiunzione con il solo scopo di tenere insieme due realtà. Non si dice tuttavia come stanno insieme. Si specifica solo che sono «come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità» (FR 1). Se così fosse rimarrebbe poco margine per dimostrare l’originalità dell’insegnamento magisteriale, soprattutto in riferimento all’esigenza di comprendere la rivelazione come provocatrice di senso e quindi di intellegibilità che sembra trovare riscontro in molti passaggi dell’enciclica.
Una breve parentesi storica potrebbe aiutare a comprendere la difficoltà che si pone con questo incipit che per molti versi preclude proprio la tesi che sembra emergere dal testo come si è dimostrato nei capitoli precedenti. L’ultima bozza consegnata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede a Giovanni Paolo II aveva un altro incipit. Dai documenti di archivio è possibile verificare che iniziava così: «Dio ha posto nel cuore dell’uomo il desiderio di poterlo vedere perché, conoscendolo e amandolo, ognuno potesse giungere alla piena verità su di sé». L’espressione in effetti ritorna modificata subito dopo l’immagine delle due ali: «È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso» (FR 1).
Come si può osservare, la redazione precedente non partiva dalla problematica del rapporto tra le due istanze e tanto meno la prospettava in termini dualistici. Ho avuto la possibilità di verificare anche le due redazioni precedenti e l’incipit, tranne alcune piccole modifiche, permaneva sempre identico235. Devo dedurre che l’intenzionalità fosse quella di far emergere il «desiderio di verità» che spinge ogni persona a scoprire se stessa nell’immenso orizzonte della conoscenza e soprattutto di fronte al grande mistero di Dio. La cosa non è priva di significato perché alla luce di quanto si trova nel testo ufficiale si dovrebbe essere portati a ritenere che l’intenzionalità era proprio quella di non porre in primo piano il dualismo di fede e ragione, ma consentire l’approccio alla problematica piuttosto nella luce di un desiderio della verità. Se così fosse, ci si trova dinanzi a un orizzonte più ampio in cui la fede e la ragione si possono muovere secondo considerazioni che trovano poi spazio nello sviluppo dell’enciclica.
Probabilmente, l’aggiunta fu opera della mano stessa di Giovanni Paolo II che giustamente volle apporre alla sua tredicesima enciclica un segno della sua personale attività redazionale. Il richiamo al «desiderio di conoscere la verità» è conservato nel Prologo, ma con la nuova collocazione non poteva più essere colto come il possibile filo d’Arianna nell’intero testo. Uno studio critico delle varie redazioni potrà mostrare come fino alla fine l’enciclica abbia subito alcune aggiunte non sempre migliorative del testo236.
Giovanni Paolo II, d’altronde, non si discostava dalla visione classica del rapporto fede-ragione che aveva trovato in Dei Filius del Vaticano I la sua formulazione canonica. Certamente Dei Filius aveva avuto il merito di indicare la strada percorribile nel costante dualismo delle prospettive precedenti: la fede non è una scientia rationalis né un motus animi coecus. Non avevano ragione quanti intendevano salvaguardare la fede riducendola alle verità evidenti alla ragione né quanti la rinchiudevano nell’esperienza interiore umiliando la forza della ragione. Uno sguardo alla storia dell’apologetica su questa problematica permette di verificare come le due tendenze avevano avuto ininterrottamente i loro rispettivi rappresentanti nei duemila anni di storia del cristianesimo. Giustino e Tertulliano, Tommaso e Bonaventura, Hermes e Bautain non fanno altro che riportare alla mente secoli di diatribe. Sullo sfondo si trova sempre il problema circa l’uso della ragione nel suo rapporto con la fede. Tutti erano mossi dal sincero desiderio di difendere la fede, ma non sempre l’equilibrio ha avuto la meglio. Il Vaticano I con la rationabilitas fidei in qualche modo apriva la strada alla libertà di scelta del credente, ma il percorso era ancora lungo perché prioritarie non erano ancora la rivelazione e la sua verità, ma sempre e soltanto la fede e la ragione.
Se a questo si aggiunge l’opera di Leone XIII con la sua Aeterni Patris che codificava per il pensiero cristiano l’uso privilegiato – se non esclusivo – della filosofia di Tommaso d’Aquino, allora il cerchio si chiude facilmente. Come si è visto nella parte storica, i nomi di fede e ragione erano riletti e utilizzati in riferimento alla problematica suscitata dal razionalismo e dal fideismo a cui il Magistero voleva dare risposta dimostrando la razionalità della fede perché atto di assenso al Deo revelanti qui nec falli nec fallere potest. Lo stesso ordo cognitionis era formulato in maniera dualista: da una parte, si presentava la conoscenza naturale; dall’altra, quella soprannaturale che proveniva dalla rivelazione. Il rimando alla rivelazione, tuttavia, era in termini di puro riferimento secondario e non intaccava l’orizzonte proprio della rivelazione perché pensata essenzialmente nelle categorie gnoseologiche.
La prospettiva che emerge da questi documenti magisteriali rende probabilmente più chiaro e comprensibile l’incipit dell’enciclica che risente di questa impostazione classica e che trova riscontro proprio nella spiegazione che Fides et ratio offre dell’insegnamento conciliare: «Il Concilio Vaticano I, dunque, insegna che la verità raggiunta per via di riflessione filosofica e la verità della Rivelazione non si confondono, né l’una rende superflua l’altra: “Esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto: per il loro principio, perché nell’uno conosciamo con la ragione naturale, nell’altro con la fede divina; per l’oggetto, perché oltre le verità che la ragione naturale può capire, ci è proposto di vedere i misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono rivelati dall’alto”» (FR 9).

Oltre il dualismo

Dei Verbum giunge tuttavia a un concetto di rivelazione molto più dinamico se confrontato con la costituzione Dei Filius. La sua presa di coscienza del dato biblico e patristico, con la trasposizione in chiave personalistica, viene ad adombrare la visione precedente creando uno sviluppo dogmatico non indifferente. La cosa non è indolore perché un modificato concetto di rivelazione di conseguenza determina e modifica la presentazione della fede, della ragione e del loro rapporto. Bastino questi frammenti di alcune citazioni dell’enciclica per comprendere lo sviluppo sottostante: «La rivelazione di Dio […] si inserisce nel tempo e nella storia. L’incarnazione di Gesù Cristo, anzi, avviene nella “pienezza del tem...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta
  3. Autore
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. Indice
  7. Sigle
  8. V. IL DRAMMA DELLA DIVISIONE
  9. IX. LA RIVELAZIONE UN’OPPORTUNITÀ PER LA RAGIONE
  10. X. LA DIACONIA ALLA VERITÀ