Introduzione
Queste parole sono state pubblicate da alcuni quotidiani italiani, La Stampa, il Corriere della Sera, l’Unità e la Repubblica…, con titoli giornalistici diversi, scelti dalle redazioni, e con alcuni tagli effettuati per necessità di spazio. Esse rappresentano solo una parte di un discorso politico che ho svolto in certe occasioni della nostra storia, accanto al mio lavoro di Teatro: migliaia di ore dedicate all’arte, all’insegnamento, a interventi di ordine estetico e culturale in varie sedi pubbliche, al lavoro svolto nel Parlamento d’Europa e nel Senato della Repubblica Italiana. Mi pare di aver onorato il mio ruolo di artista e di cittadino senza infingimenti, senza giochi clandestini, con molta chiarezza e – mi sia permesso di dirlo – con un coraggio che sicuramente non è qualcosa che appartiene all’italico carattere.
Con una certa lungimiranza ho espresso timori e indicato, nei limiti delle mie possibilità, comportamenti più validi, più degni per tutti, nel nostro paese.
Rileggendo questi scritti e ripensando al mio cammino di questi anni, ci sono alcune affermazioni che non farei più, ci sono delle speranze che purtroppo non si sono avverate, ci sono delle scelte che non mi sentirei più di condividere. Ma nell’insieme, mi ritrovo quale io sono e come penso e agisco.
Vogliamo dire che mi trovo almeno coerente con me stesso? È già qualche cosa, nel momento dei voltagabbana, dei dico e non dico – o non dico assolutamente niente – sperando che il mio silenzio passi per saggezza e distacco dalle vanità terrene. Penso con pena all’intellighenzia italiana dagli elzeviri non compromettenti, ai politici immobili al loro posto, ai cittadini che, inermi, subiscono la storia e non hanno il coraggio di determinarla mai!
Questa raccolta di lettere agli italiani non ha nessuno scopo se non quello di far riflettere quei pochi che leggeranno sui casi dell’Italia in corsa verso la sua catastrofe ciclica, che questa volta ha il volto del disfacimento.
Mi ritorna alla memoria la fine di una poesia di Brecht: «Insomma per tutto questo – diciamo la verità – avevano ragione di cacciarmi via».
Giorgio Strehler, dicembre 1992
Combattere il fascismo occulto che è dentro di noi
30 aprile 1975
Noi, del Piccolo, abbiamo deciso – senza troppe consultazioni e discussioni, con molta semplicità, con molta spontaneità – di riunirci oggi, nella nostra platea, interrompendo solo metodologicamente il nostro lavoro ma continuandolo nello spirito, nelle ragioni interiori, per parlare tra noi e con gli amici che hanno voluto venire qui di ciò che comunemente chiamiamo «Resistenza»: un nome che congloba un numero vastissimo di fatti e sentimenti, concezioni del divenire politico, modi di stare al mondo, vorrei dire, e non soltanto il fatto di essersi opposti ai nazisti tedeschi e ai fascisti italiani.
Voglio essere chiaro su due punti. Uno: la Resistenza, come io l’ho creduta e la credo, non è solo un fatto «contingente», un fatto storico, certo importante, pieno di memorie e di scelte, che ha richiesto azioni individuali e collettive, sacrifici e coraggio anche (coraggio non solo fisico, ma in gran parte morale), un fatto storico di cui si può e si deve parlare con tono talvolta unanimemente commemorativo. È qualcosa di più, di diverso, e soprattutto qualcosa di più permeante; la Resistenza, dicevo, è un modo di stare al mondo, un modo di essere, un comportamento quotidiano che parte da un certo punto della nostra storia e della nostra vita di singoli individui (per quelli che hanno partecipato personalmente al fatto storico), ma che li oltrepassa e continua e deve continuare nelle generazioni che questo fatto non hanno vissuto in prima persona.
Due: il fascismo, quella «cosa» alla quale la Resistenza si oppose e si oppone o dovrebbe opporsi sempre, con i suoi diversi nomi, i diversi accenti, le diverse nazionalità persino, anch’esso non è soltanto un «fatto storico» verificatosi in un certo tempo e in un certo modo univoco, quasi irripetibile. È invece un «altro» modo di essere, è un altro comportamento interiore, è un costume, è un «fatto ideologico» che ha assunto solo alcune «rappresentazioni» a un certo tornante della storia, ma che permane nella sua sostanza nel tempo con altre rappresentazioni, altri rituali, ma con l’identicità nelle sue premesse, nella sua visione del mondo, nel suo costume morale e nelle sue conclusioni finali. Sempre oppressive, sempre mortali per l’uomo e la sua libertà.
Con tutta la tenerezza, la lacerazione per gli amici perduti, quel tanto di lancinante dolcezza di un passato che sento rinnovato a ogni anno, a ogni data di primavera, con quella valanga di ricordi così netti, con tutto l’orgoglio, il rimpianto e l’amarezza, non mi importa tanto, qui insieme, rammemorare i fatti di un tempo lontano, quanto verificare questo presente, questo oggi, constatare oggi quanto ciascuno di noi abbia saputo e sappia essere ancora quotidianamente in questo tipo di «resistenza» e quanto no, richiedere a noi tutti un impegno più fondo, più coerente, più concreto nella Resistenza di ogni momento, oggi e non ieri.
Mi importa non tanto esecrare ciò che fu bruttura, assassinio, crimine, quanto riuscire a definire insieme ad altri il profilo, il disegno ugualmente colmo di brutture, assassinio e crimine, di una viltà ossequiente, di una compromessa miserabilità del sentire quotidiano di tanta parte del nostro convivere troppo poco civile, di troppi che ci circondano, in una scena di cui noi facciamo parte e in cui noi, talvolta, finiamo per rappresentare un ruolo che non dovrebbe essere il nostro. Importa anche essere critici, quando occorre, del nostro cedere a un certo comportamento sociale, dei nostri peccati di omissione, di qualche nostro piccolo tradire giornaliero, di quel «fascismo» che sta (e talvolta inconsapevolmente) dentro di noi, e riaffermarci che così non deve essere, che la nostra lotta «resistente» al fascismo è qualcosa di continuo e di difficile, proprio perché non così poco eroicamente palese.
Il Piccolo Teatro di cui molti di noi fanno parte dall’inizio (sempre meno ormai), altri da tempi più vicini, altri da ieri e certo altri da domani, nato da quel sentimento profondo della Resistenza, intesa anche come resistere alla lusinga quotidiana del facile, del compromettente, del più comodo, dell’accomodante, e anche, vorrei aggiungere, del preclusivo, del cieco irrispettoso non volgersi verso gli altri, verso coloro che in altro modo pensano, pur sempre nel versante di alcune premesse imprescindibili, insostituibili e non transabili, questo Piccolo Teatro (nei limiti dell’umano e, ripeto e ancora ripeto, nei limiti degli errori che sono sempre il segno dell’umano e della dialettica quando si è capaci di identificarli, superarli, non ripeterli per farne «altri» diversi, mai gli stessi) è ancora intatto, ancora precisamente attivamente ancorato alle premesse e alle volontà che lo vollero far nascere, e sempre «presente» nella storia di oggi, con una voce, un suo tono inequivocabili.
Io sento di potere affermare con sicurezza e nello stesso tempo con umiltà (nella coscienza del limite) che il Piccolo Teatro della nostra città di Milano, in questo trentennale della Resistenza, come ieri nel ventennale, possiede questa ineluttabilità dalla sua coerenza e questa sua fedeltà attiva non solo teorica, non solo commemorativa o sentimentale. Qui, cioè, io sento di poter parlare oggi con occhio limpido, con mano pulita, di ciò che fu ed è la Resistenza, proprio in questa casa che un giorno Paolo Grassi e io scoprimmo semidistrutta nella polvere, con le sue vecchie poltrone consunte (e che oggi sono nuovamente consunte), con i suoi muri con vecchie tappezzerie (che di nuovo si scrostano), coi suoi camerini su fino agli ultimi piccolissimi, lassù, che aprimmo in silenzio quel giorno e che scorgemmo, in un raggio miracoloso di sole, spruzzati di sangue umano. Sangue che era dei nostri compagni qui torturati, proprio dai fascisti. E che dunque era sangue nostro.
Se io dovessi definire, riguardando il lavoro fatto, sulla scena (perché è lì che conta e che si verifica il nostro lavoro personale di tutti, attori, tecnici, collaboratori, impiegati, tutti), …qui, su questa scena, spettacolo per spettacolo, sera per sera, troverei pertinente questa definizione: il Piccolo Teatro, un teatro che ha sempre parlato dell’uomo e dei suoi grandi problemi civili, che ha sempre posto le grandi domande che stanno alla base dell’uomo, la libertà e la sua difficile conquista, la rivolta e la sua difficile attuazione, le sue vittorie e fallimenti, la dialettica dell’esistenza e della storia, la grande domanda o le grandi domande sulle strutture sociali, quelle di ieri e di oggi, la domanda sulla struttura di un domani per un uomo migliore e più felice, la sicura insicurezza su alcune tesi e proposte di soluzione ai problemi, il teatro di un grande dubbio fecondo, una demistificazione degli aspetti falsi dell’esistenza su ogni nostra azione.
E, iscritto in questa grande problematica che è poi «un teatro della storia nella storia e per la storia», l’uomo in prima persona che è nella storia, che è fatto dalla storia, che la subisce la storia, ma nello stesso tempo la fa la storia, la sua e quella degli altri, la modifica, la porta avanti o cerca di arrestarla o arretrarla. L’uomo che pensa e agisce sempre politicamente ma che vive anche «umanamente», lui così come è, lui solo, come domanda continua alla vita.
Teatro di uomini e donne che si amano e non si amano, si interrogano e non si interrogano, che sono amici o nemici, che si capiscono o non si capiscono, teatro di esseri umani e non di emblemi, teatro di esseri veri e non di larve simboliche, teatro di contraddizioni umane, non solo storiche, ma anche di esseri umani, piccoli, poveri, contraddetti, incerti e certi, eroici, sicuri, identificabili, riconoscibili per tutti o almeno per molti.
Il Piccolo Teatro: come un teatro «comprensibile» (bene o male, a certi livelli o meno), praticabile, toccabile con mano, non enigmatico, il più possibile chiaro, non equivoco anche quando parla dell’equivoco, non assurdo anche quando parla dell’assurdo.
E infine un teatro, mi pare, non «mi pare», ne sono sicuro, un teatro identificabile in una fiducia nella vita, in una credibilità di una felicità futura possibile per l’uomo e talvolta anche di una felicità attuale, credibile nella bontà e nella solidarietà; un teatro che non crede e non ha creduto mai nel buio dell’esistenza umana, nella sua inutilità, nella sua disperazione, anche se ben conosce il buio, l’angoscia e la disperazione del limite di questo passaggio sulla Terra così precario, così breve, talvolta così illusorio, ma mai vano, mai inutile.
E ancora teatro che sa rifiutare, che sa scegliere la sua parte, che è una e non altre, senza però ciecamente rinnegare la possibilità di altre scelte; teatro appunto che ha sempre rifiutato alcune cose come cardine del proprio esistere: ha rifiutato, ecco, prima di tutto proprio quel fascismo, quel modo di concepire la vita dell’uomo, quella irrazionalità, quella «distruzione della ragione» che è all’origine dell’esistenza del fascismo.
Piccolo Teatro: teatro umano, umanistico, ideologicamente orientato come deve avere il coraggio ognuno di noi, ma non preclusivo, non rinchiuso in una cupa non dialettica visione del mondo. Il dogma è sempre cupo, oscuro.
La nostra vita è difficile, è stata sempre difficile, ma noi dobbiamo sapere che se lo è stata e lo sarà ancora certamente domani è perché, proprio perché noi non siamo mai venuti meno a quelle ragioni della nostra nascita, a quelle nostre premesse ideali. È proprio perché, anno per anno, giorno per giorno, noi ci scontriamo con tanto fascismo, con tanti tipi di fasc...