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La trappola della maternità1
Quando iniziai le mie ricerche ero una giovane madre poco più che ventenne e subito capii che vi era qualcosa di profondamente sbagliato nella maternità. Mi convinsi che aveva a che fare con un accesso inappropriato alla capacità di procreazione. Il modo in cui la prole era regolamentata – due figli per donna –, il modo in cui la gravidanza e il parto venivano gestiti e gli sforzi profusi dai tecnici della riproduzione per sostituire la madre erano profondamente inquietanti. Cominciai a mettere in discussione l’immagine dominante della madre.
In questo capitolo illustrerò il dibattito pubblico, quindi affronterò la questione sul perché le madri siano in trappola e quale ruolo gioca il femminismo in questo dibattito. La Teoria critica del patriarcato dimostrerà la sconfitta epocale della “madre patriarcale”, che ancora accudisce la prole in condizioni estreme. Nel frattempo, l’eliminazione del suo corpo è l’obiettivo di esperimenti tecnologici per creare la vita senza madre. L’analisi dimostrerà anche come si sia potuta affermare l’idea che ciò sia per il suo bene.
Il dibattito pubblico
Il dibattito pubblico è improntato su due temi: uno è la compatibilità tra famiglia e lavoro, ossia il lato economico; l’altro riguarda la riproduzione, il tasso di natalità e le sue implicazioni politiche.
Una serie di pubblicazioni su donne attive professionalmente esamina attentamente e in modo critico il dilagare di madri che lavorano. Che le donne “possano avere tutto” (cfr. Sandberg 2013) viene ormai contestato (Slaughter 2016). Da parte liberale femminista si propone di rinunciare alla maternità: “Essere madre. No grazie” è il titolo di un numero di Emma della primavera 2016.2 Solo l’assenza di figli la salverebbe dalla discriminazione, dalle eccessive richieste o dal cinismo: anziché la “supermadre” (Übermutter), Emma difende a spada tratta la “madre snaturata” (Rabenmutter). Tuttavia, si ammette che anche questo atteggiamento non preserva dalla coercizione politica e popolare che ogni donna debba essere madre.
In Europa la visione socialdemocratica, rappresentata negli USA dal femminismo liberale, è che lavoro e carriera contribuiscano alla liberazione della donna. I programmi di gender-mainstreaming dell’Unione Europea dovrebbero servire a instaurare la “gender equality”; in pratica, le donne vengono sottomesse così alle convenzioni europee,3 utili unicamente alla crescita economica dell’UE e alla sua “competitività”, in particolare verso Stati Uniti e Cina. Una tale concezione del femminismo vuol dire parità agli uomini a tutti i costi, senza analizzare criticamente l’agenda economica del neoliberismo, le sue regole e le sue pratiche (vedi cap. 3).
Della “riproduzione”, cioè maternità e procreazione, se ne parla in tre modi: in primo luogo, i dibattiti sull’interruzione della gravidanza sono degenerati in campi di battaglia, dove donne incinte vengono minacciate, e donne e uomini medici e infermieri assassinati. Negli USA ha preso piede un lobbismo senza scrupoli per impedire a tutti i costi l’aborto. In sempre più stati americani e dell’Europa dell’Est vengono presentati numerosi decreti: per esempio, nel 2015 l’Americans United for Life ha dato corso a più di 300 decreti in 45 stati americani solo nei primi cinque mesi.4 Il governo USA sta addirittura pianificano l’abolizione dell’impunità.
Il dibattito sull’aborto, iniziato negli anni Settanta, ha portato a una legislazione liberalizzata in tutta l’Europa occidentale (Tazi-Preve e Roloff 2002), senza però porre termine alla discussione, come le donne avevano allora sperato; al contrario, presto ci fu un contraccolpo e, da vent’anni, all’opposizione le organizzazioni militanti (Human Life International e altri) si sono sostituite ai gruppi cristiani. E dal 1989 anche nell’Europa dell’Est l’aborto, già legalizzato negli anni Cinquanta, viene combattuto con accanimento.
Il secondo dibattito riguarda il basso tasso di natalità in Europa dagli anni Ottanta. Nell’Europa meridionale e occidentale si è particolarmente ridotto, fino a un figlio per donna; i paesi di lingua tedesca da un po’ di tempo si trovano quasi allo stesso livello, circa 1,4 figli per donna. Da allora alle madri si raccomanda di adempiere ai propri “doveri”. Lo sviluppo ha portato a una nuova politica demografica, che però non viene chiamata così.5 Politica, media ed economia insistono sulla norma della famiglia con due figli; una produzione più alta di “materiale umano” dovrebbe rafforzare lo Stato e l’economia.
Infine, nel contesto delle tecnologie riproduttive, il dibattito sul corpo della madre e sulla sua capacità riproduttiva è drammaticamente cambiato negli ultimi decenni. L’approccio neoliberista, per il quale tutto è merce, è divenuto d’interesse comune e ha portato anche le donne a concepire il proprio corpo come merce, applicando a sé stesse il linguaggio delle tecnologie riproduttive. Poi si parla di “diritti” (di avere un figlio) e di “scelte” (di prenderne uno in possesso): «usando il linguaggio riproduttivo liberale» (R. Klein 2015, p. 163) è stata spianata la strada per fare delle donne dei “body shops”. Inoltre, la tecnologia della maternità ha portato a una concezione completamente nuova del corpo materno, con l’obiettivo di sostituirlo attraverso il concepimento artificiale (fecondazione in vitro) e il compimento indipendente della gravidanza (maternità surrogata ecc.).
La mia tesi e la ricerca femminista sulla maternità
La mia tesi è che la maternità odierna, che io chiamo “maternità patriarcale” (Tazi-Preve 2004), basata sullo storico omicidio della madre (Tazi-Preve 1992), è un prodotto artificiale e ha come obiettivo l’eliminazione tecnologica della madre. Nei miei lavori precedenti ho dimostrato che la madre viene eliminata nella mitologia, nella religione, nella psicologia, così come attraverso istanze e rappresentanti (maschili e femminili) della medicina, della giurisprudenza e della politica, e che il padre si sostituisce a lei come presunto creatore. È importante comprendere che la madre (patriarcale) è (ancora) viva, perché serve come gestante, come badante e lavoratrice. Le condizioni e i vincoli a cui sottostà sono però l’esito di un processo storico di trasformazione. La madre patriarcale è nella “trappola della maternità”, in cui ogni opzione si rivela essere soltanto ipotetica.
Più mi occupo dell’approccio patriarcale alla maternità, più mi è chiaro che gli studi di genere non sono parte della soluzione bensì del problema. Molti trend hanno prodotto l’attuale immagine della madre. Uno è il corso che ha preso il femminismo nella teoria. Quando il concetto postmoderno, con Michel Foucault in testa, entrò nella teoria femminista, la scienza sociale femminista venne completamente rimossa. Judith Butler (1990) ha sviluppato la teoria della performatività di genere, che nega qualsiasi capacità naturale del corpo femminile, rendendo così impossibile la comprensione collettiva della donna. Per quanto ne so, non esiste alcuno sviluppo parallelo che abbia il medesimo obiettivo di abolire gli uomini. Da allora, la ricerca accademica tende a personalizzare il “problema femminile”, a bloccare l’ottica sistemica e a non porre più domande sullo squilibrio di potere, ovvero sulle condizioni sociali, politiche ed economiche. In un mondo neutrale rispetto al genere, l’attivismo politico contro l’ingiustizia strutturale e la violenza diventa impossibile, la “questione femminile” diventa un problema retorico e il femminismo perde la sua forza trasformante.
Il discorso pratico-politico, cioè la politica nazionale sulle donne dei singoli paesi, è a sua volta dominato da femministe liberali e socialdemocratiche. In entrambi gli approcci l’attività lavorativa viene promossa come garanzia di libertà e la maternità rimane una questione privata. Che le donne si sforzino da quarant’anni non è servito a nulla: non dispongono né dello stesso reddito né delle stesse posizioni degli uomini, e sono quindi penalizzate come prima in termini di finanza, potere e reddito. A poco a poco ciò sta diventando chiaro anche a qualche sostenitore della parità. In un articolo del Time, Kristin van Ogtrop, citando Anne-Marie Slaughter (2016), scrive: «Penso che sia il sistema stesso a essere antiquato e che il suo tempo sia ormai finito», e arriva alla consapevolezza che dev’esserci qualcos’altro oltre alla «combriccola serale degli uomini e sul campo da golf».6 Tali conclusioni non pongono però fine alle politiche di gender-mainstreaming dell’Unione Europea. Al contrario.
In un’alleanza scellerata di approcci liberali, socialdemocratici e gender-teorici, i temi di “intersezionalità” e “teoria dell’identità” dominano il dibattito accademico e politico. Gli studi sulle donne sono stati sostituiti dagli studi di genere e di recente dagli “studi sulla sessualità”, che si concentrano sull’orientamento sessuale. Con questo cambiamento il movimento femminista si disinnesca e si frammenta. I soldi confluiscono ora nella ricerca apolitica sulle “questioni di genere” e sui temi dell’identità sessuale. I dibattiti in corso sul matrimonio per le coppie omosessuali fungono da diversivo dai reali sviluppi, inaspritisi, per le donne nel patriarcato.
L’immagine della madre è sempre stata storicamente legata all’ordine economico dominante. Quando si crea un mondo in cui si perde ogni responsabilità sociale, reciprocità e solidarietà, si esercitano pressioni anche sulle aree in cui le donne sono al centro di una rete di relazioni sociali. Questa cultura materna si crea dal giorno della nascita del figlio, passando tempo insieme, cucinando e mangiando insieme, tramite lavori manuali e artigianali, formando circoli e spazi. Tutto ciò deve cedere il passo alla concezione di un mondo di massimizzazione del profitto, dove la madre viene ridotta alla sua funzione di produzione di individui e alla loro cura. Come vedremo, nel mondo neoliberale la madre rappresenta la parte essenziale del mondo privato trasformato in macchina-famiglia.
Madri in trappola
Intendere il patriarcato come teoria di civiltà onnicomprensiva significa vedere la modernità con altri occhi, cioè come “assassina” (Werlhof). Il progresso, generalmente connotato in modo positivo, si rivela essere una creazione omicida di un mondo artificiale senza madre e natura. Quindi non si tratta proprio di un miglioramento o di un adattamento dell’essere umano ai rapporti naturali esistenti, come per esempio nella visione del mondo delle società indigene, bensì di distruggere il corpo della madre e la cultura materna. Ciò vuol dire che la “madre deve sparire” (come titolava un articolo sulla Festa della Mamma):7 dev’essere letteralmente eliminata. La madre (ancora) esistente significa solo un passo intermedio fino alla sua completa “mortificazione”.
Che ne è delle cure della madre?
Dunque la madre è ancora necessaria, perciò viene trattata come un’istituzione. Il corpo materno, il suo lavoro e il suo potenziale creativo sono stati tramutati in una sorta di unità amministrativa. Fornendo cibo, dimora e assistenza, «incarna l’economia nel vero senso della parola» (Werlhof). È l’economia sommersa su cui si regge quella ufficiale «in modo parassitario» (Vaughan 2015b). La madre sperimenta il programma “sorvegliare e punire” (Foucault) in tutti i settori della vita e nella forma più sofisticata. Dall’inizio dell’età moderna, cioè dal XV o dal XVI secolo, la madre istituzionalizzata viene controllata e il suo comportamento regolamentato da istanze della giurisprudenza, della medicina, della psicologia e della pedagogia. Per esempio, i consigli sull’allattamento al seno sono continuamente cambiati dal dopoguerra.8
La politica sociale europea viene elogiata negli Stati Uniti, dove non esiste neppure il congedo di maternità prima e dopo il parto, per compensare almeno in parte le madri del mancato reddito. In Austria e in Germania le madri si assentano dal posto di lavoro dopo il parto molto più a lungo che in altri paesi europei. Nella logica della cultura del lavoro, che si fonda esclusivamente sulla durata dell’attività lavorativa, le assenze prolungate comportano tuttavia una notevole perdita di reddito e di contributi pensionistici. Il welfare europeo funge da sostituto del padre – spesso assente9 – fornendo assegni familiari, anticipi sugli alimenti e strutture di assistenza per l’infanzia.
Dagli anni Novanta, il carattere “assistenziale” dello Stato cambia. La legislazione neoliberale, che elude tutte le regolamentazioni, tocca ora anche le ultime enclave della politica sociale. Istruzione, sanità e società – dove rientrano tutte le prestazioni finanziarie e istituzionali di sostegno alle madri – sono ora “privatizzate”. Ciò significa che queste divengono vittime di “tagli” supposti necessari, o sono rilevate dalle imprese – cosa che viene anche chiamata politica del risparmio (Kailo 2015). Il ridimensionamento dello Stato sociale è accompagnato da accuse verso coloro i quali presumibilmente “abusano” dei benefici, in particolare le madri e i cosiddetti “scansafatiche”, mentre i veri responsabili della povertà dello Stato, come le multinazionali, che praticamente non pagano le tasse, la fanno franca (cfr. cap. 3). Che proprio l’aspettativa di vita delle donne sia strettamente correlat...