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Harem
Il nostro harem di Fez era circondato da alte mura e, a eccezione del piccolo ritaglio quadrato di cielo visibile dal cortile, la natura non esisteva. Certo, se una donna correva su in terrazza, poteva accorgersi che il cielo era più grande della casa…
Fatema Mernissi, La terrazza proibita
Pochi giorni dopo il mio arrivo, dopo essere stata accompagnata da un’amica in un grande magazzino per comprarmi una nuova abaya e un hijab, sono stata invitata con mio marito nella villa fuori città del proprietario di una catena di supermarket, insieme a un ristretto gruppo di coppie straniere che vivevano nella capitale. Era venerdì, festività per eccellenza in Arabia Saudita, il giorno in cui, secondo l’islam, fu creato Adamo e in cui avrà luogo il Giudizio universale. Il venerdì tutti gli uomini devono recarsi in moschea per la preghiera pubblica di mezzogiorno e per ascoltare il sermone dell’imam. Le donne non hanno lo stesso obbligo ma, in caso decidano di recarsi nel luogo di culto, sono confinate in una zona separata.
Mi avevano spiegato che molti sauditi facoltosi posseggono ville nel deserto, che amano chiamare “ranch” oppure “fattorie”, dove trascorrono i fine settimana insieme alla famiglia allargata. Grandi complessi circondati da mura color sabbia, spesso arricchite di merlature, che corrono lungo il deserto per centinaia di metri prima di rivelare i portoni di ingresso, le fattorie sono dotate di parchi, fontane, prati all’inglese, piscine e, in alcuni casi, zoo di animali esotici. Costruite sulla sabbia e sulle rocce del deserto, richiedono quantità enormi di acqua per l’irrigazione. L’Arabia Saudita, dotata in passato di una ricchissima riserva di acqua fossile nel sottosuolo, ormai depauperata per avveniristici e fallimentari esperimenti di agricoltura nel deserto, ricorre oggi in maniera massiccia all’acqua marina desalinizzata, i cui costi proibitivi sono coperti da sovvenzioni governative senza troppe preoccupazioni, grazie ai privilegi di un’economia basata sui proventi dell’industria petrolifera.
Era la prima volta che varcavo la soglia di una casa saudita. Quando il grande portone di legno si è aperto su un cortile alberato, nel cui centro zampillava una fontana, a riceverci c’era il padrone di casa in tenuta sportiva di stile americano, bermuda, maglietta e cappellino da baseball, insieme a un gruppo di parenti e amici vestiti in modo più formale. Tutti indossavano il tradizionale vestito lungo bianco, il thobe e portavano sul capo il grande foulard quadrato di stoffa a scacchi bianchi e rossi (smagh), oppure totalmente bianco (ghutra), tenuto fermo dal tipico cordone nero di forma circolare (agal). Intorno a loro, gruppi di bambini di sesso maschile giocavano su quadricicli fuoristrada, girando all’impazzata intorno alla fontana, oppure sedevano vicino ai padri giocando con i loro tablet. Non era presente alcuna donna. Il padrone di casa mi ha stretto la mano e ha presentato me e mio marito agli altri ospiti, che aspettavano all’ingresso di uno dei padiglioni che si aprivano sul cortile. Tutti hanno dato la mano a mio marito, ma pochi di loro l’hanno stretta anche a me, preferendo ritrarsi e appoggiando la mano destra sul petto, per evitare il contatto fisico con un’esponente del sesso femminile. Subito dopo l’ospite, scusandosi con la domanda retorica «Non le spiace vero?», mi ha affidato a un domestico indiano per farmi accompagnare nei padiglioni femminili. Da quel momento non ho più visto mio marito e gli altri uomini fino al momento di lasciare il ranch a fine pomeriggio.
Il domestico mi ha accompagnata lungo un portico laterale fino a raggiungere un gruppo di edifici, circondati da un impeccabile prato all’inglese, e mi ha lasciata sola vicino a una piacevole cascata di spruzzi impalpabili di acqua vaporizzata che scendevano dal soffitto per rinfrescare l’atmosfera torrida dell’estate saudita. Pochi minuti dopo mi è venuta incontro Sofia, l’esuberante giovane moglie marocchina del padrone di casa, la consorte numero tre, così mi avevano detto, essendo quattro il numero di mogli consentito dalla legge islamica e permesso in Arabia Saudita, a differenza della maggior parte degli altri paesi musulmani dove il codice civile, integrando la lettera della Sharia, vieta la poligamia. A lei il compito di fare gli onori di casa.
Avevo già incontrato Sofia a un ricevimento misto a casa di amici stranieri. In tale occasione non indossava né abaya né hijab, portava i capelli neri sciolti sulle spalle, era vistosamente truccata e vestita in modo provocante, rivelando generosamente le sue forme prorompenti. Mi era stato confermato che il marito la “mostrava” senza problemi agli stranieri, violando le regole della segregazione, molto rigide nel caso di donne di nazionalità saudita, le quali possono mostrare il viso soltanto al consorte e ai parenti più stretti. Lo strappo alle consuetudini consentito a un ricevimento tra stranieri non si ripeteva alla fattoria, dove la separazione dei sessi era applicata con rigore. Sofia si adeguava. E così dovevo fare io, nonostante fossi una straniera e avessi ottenuto il privilegio di essere presentata agli ospiti di sesso maschile.
«Non posso farmi vedere nemmeno dai domestici uomini» mi ha spiegato in inglese Sofia sorridendo, per scusarsi di avermi fatto attendere da sola sotto il porticato. Poi mi ha fatto strada camminando a fatica, nel caldo opprimente, sui tacchi altissimi. Indossava leggins aderenti e una maglietta scollata con decorazioni animalier. Procedendo lungo il portico, mi ha mostrato, al di là di una vetrata, la piscina coperta riservata alle donne, dove bambini di entrambi i sessi, ancora troppo giovani per essere separati, imparavano a nuotare sotto la sorveglianza di domestiche filippine avvolte nell’abaya e con il velo nero stretto intorno al capo, un abbigliamento opprimente dato che in piscina temperatura e umidità erano certamente molto elevate.
Le domestiche, per lo più asiatiche, sono una presenza costante nelle case saudite, e si incontrano anche nei luoghi pubblici, accompagnatrici silenziose delle donne benestanti quando si recano in visita alle amiche, ai ricevimenti, nei centri commerciali o nei saloni dei parrucchieri. Il loro compito è portare la borsa, i pacchi, occuparsi dei bambini, oppure custodire abaya e velo quando la loro datrice di lavoro se ne può liberare per entrare in ambienti esclusivamente femminili.
«La piscina degli uomini è all’aperto, è più grande della nostra ed è bellissima, ma non te la posso mostrare» mi ha detto Sofia. E ha aggiunto, con civetteria, che quando viaggiava all’estero con il marito per le vacanze non era un problema per lei nuotare in bikini nelle piscine miste degli alberghi dove soggiornavano.
Finalmente siamo arrivate in un ampio padiglione. Mi sono tolta l’abaya che ancora indossavo e ho raggiunto il gruppo delle donne, una cinquantina. Tutte sedevano su divani sistemati uno di seguito all’altro lungo le pareti nel tipico stile arabo, una disposizione che rende possibile la conversazione soltanto con la propria vicina di destra e di sinistra e con nessun’altra delle presenti, a meno di non alzarsi e cambiare posto. Di fronte ai divani erano apparecchiati tavolini con vassoi colmi di cioccolatini e datteri; due cameriere vestite con tuniche scure offrivano il galwa, il tipico caffè al cardamomo, servito in chicchere piccolissime che tenevano impilate con una mano offrendole alle ospiti, mentre con l’altra servivano la bevanda dalla caffettiera.
In un angolo del salone sedevano, immobili e in silenzio, le donne più anziane. Molte erano sovrappeso. Tutte indossavano semplici jallabie di colore scuro e portavano i capelli raccolti all’indietro e divisi in due bande da una scriminatura in mezzo al capo, secondo la tradizione del Najd, la regione centrale del paese dove sorge Riad. Le altre parenti che arrivavano via via erano abbigliate nei modi più svariati e più o meno formali. Sgargianti abiti lunghi da sera, jallabie coloratissime, oppure abiti di foggia occidentale, quasi sempre lunghi e a maniche lunghe. Molte portavano borse dei più noti stilisti occidentali, alcune indossavano gioielli preziosi. Quasi tutte avevano in mano il cellulare. Sofia era la meno vestita, la più disinvolta ed estroversa, l’unica del gruppo delle mie immediate vicine che cercava di intrattenere noi straniere. Mi sono domandata se fossero presenti le altre mogli del marito.
L’attesa del pranzo era una pausa che sembrava infinita, vuota di ogni attività, interrotta soltanto dall’arrivo di altre invitate, accompagnate da qualche bambino. «Molte si svegliano tardissimo» mi spiegava Sofia. «Non c’è molto da fare qui. Io quando posso faccio ginnastica, nel mio paese insegnavo aerobica. Altre si distraggono mangiando e visitando i centri commerciali.» Soltanto il rito del caffè, servito a ripetizione, spezzava la monotonia. Per rifiutare l’ennesima dose, bastava agitare la chicchera vuota e riconsegnarla alla cameriera, che la piazzava con un movimento veloce in fondo alla pila delle tazzine con un secco tintinnio. Dopo il caffè sono arrivati succhi di frutta multicolori, tè nero e verde alla menta e al ginger e ancora tartine e cioccolatini. Le saudite più giovani controllavano i messaggi sull’iPhone, le anziane guardavano le straniere con diffidenza o indifferenza, senza l’accenno di un sorriso.
Mangiare, aspettare, stare sedute al chiuso senza possibilità di uscire o passeggiare nel parco. Pigramente, con rassegnazione. Ero intrappolata in un harem contemporaneo.
Finalmente, nel primo pomeriggio, Sofia mi ha annunciato che il pranzo era pronto, e mi ha guidato insieme alle altre verso un’altra ala della sezione femminile. Si è arrestata davanti a una porta scorrevole socchiusa e ha parlato con i camerieri che finivano di preparare la sala, attentissima a non farsi scorgere. Quando è stata certa che l’ultimo domestico si era ritirato, ha spalancato la porta per farci entrare.
Ci aspettava un ricchissimo buffet di specialità locali, a celebrare la tradizione dell’ospitalità araba che si rinnova come un rito solenne e quasi sacro dai tempi dei grandi pranzi a base di riso e agnello, gustati seduti a terra nelle tende beduine, menzionati dal colonnello Thomas E. Lawrence (noto come Lawrence d’Arabia) nel libro I sette pilastri della saggezza, che avevo appena letto. Ci siamo sedute senza formalità ai tavoli rotondi. Al mio sedevano, insieme ad altre straniere, alcune saudite di mezza età vestite di scuro, silenziose e visibilmente a disagio, e due giovani sulla trentina che parlavano un inglese perfetto. La prima, Nahed (Nuvola bianca), indossava una lunga tunica a fiori marrone con intarsi ricamati e portava i capelli nerissimi raccolti. Evidentemente felice di parlare con una straniera, mi ha raccontato di essere sposata di avere cinque figli e di avere creato in casa un piccolo atelier per la confezione e la vendita di abaye. Mi ha consegnato il suo biglietto da visita invitandomi a vedere la nuova collezione e si è offerta di organizzare in mio onore un tè con altre amiche, che si dedicavano ad analoghe attività creative o gestivano imprese domestiche di catering. Felice che apprezzassi i piatti locali, mi ha descritto gli ingredienti dello jarish – una crema bianca di cereali cotta nel brodo come un risotto, annegata nel laban, una variante liquida dello yogurt, e insaporita con cumino e cipolle arrostite – che avevo particolarmente apprezzato, offrendosi di inviarmi via email la ricetta.
La seconda giovane donna, Nadira (Preziosa), indossava jeans con una camicia bianca, e i suoi capelli neri, sciolti sulle spalle, avevano un accenno di colpi di sole. Aveva un’aria annoiata, ed era meno estroversa di Nahed, anche se disposta a fare un po’ di conversazione. Ha raccontato di avere studiato alla London School of Economics e di avere un impiego in una banca di Riad. «Da noi molte donne lavorano, anche se in Occidente pensate che le saudite non facciano niente tutto il giorno. Io sono molto occupata. Oltre al lavoro, mi occupo di mio figlio e viaggio molto con mio marito», e poi ci ha sorpreso dichiarando di «odiare» le riunioni familiari del venerdì, a cui spesso si rifiutava di partecipare.
Quando le è stato chiesto cosa pensasse della segregazione sessuale, si è irrigidita e, mettendosi sulla difensiva, ha risposto: «La segregazione ci permette di lavorare meglio, senza problemi, rimanendo tra donne. Nel mio ufficio siamo in quattro e possiamo rilassarci senza abaya e velo. Incontro i colleghi uomini durante le riunioni e in quel caso mi copro il viso con il niqab. Sono le nostre usanze, vanno rispettate». E poi si è alzata dicendo che doveva proprio andare. L’ho vista dalla vetrata attraversare veloce la sala, raggiungere un patio laterale, infilarsi abaya e niqab con gesti sicuri e poi, ormai irriconoscibile, comporre un numero con il cellulare. Certamente stava chiamando l’autista, mi ha spiegato una vicina. Ha lasciato l’edificio da una porta laterale.
Segregazione, rispetto delle consuetudini, doppio binario morale a seconda del contesto in cui ci si trova, calda ospitalità, ma anche diffidenza, persi...