Perché il patriarcato persiste
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Perché il patriarcato persiste

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Perché il patriarcato persiste

Informazioni su questo libro

Nonostante decenni di attivismo sulle disuguaglianze di genere e sull'uguaglianza dei diritti, perché la discriminazione rimane endogena al sistema sociale e politico? Cos'è che rende il patriarcato così resiliente e resistente al cambiamento? Senza dubbio uno dei fattori che lo tengono in piedi è il fatto che alcune persone traggono beneficio dai vantaggi iniqui che il patriarcato conferisce loro. Ma basta questo a spiegarne l'ostinata persistenza?In questo libro davvero originale e molto ben argomentato, Carol Gilligan e Naomi Snider propongono una visione diversa, sostenendo che il patriarcato persiste perché ha una funzione psicologica. Imponendoci di sacrificare l'amore a vantaggio della gerarchia, il patriarcato ci protegge dalla vulnerabilità in cui l'amare ci pone e diviene paradossalmente un baluardo difensivo rispetto al rischio della perdita e dell'abbandono insito nell'amore.Guidandoci alla scoperta dei potenti meccanismi psicologici alla base del patriarcato, le autrici mostrano quali spinte irrazionali sottostanno e guidano un sistema e una politica altrimenti incomprensibili

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Informazioni

Anno
2021
eBook ISBN
9788868994129
Argomento
Letteratura
Prima parte
Il puzzle
Carol: Il nostro punto di partenza è stato La nascita del piacere, un libro scritto nel 2002 nel quale traggo le conclusioni di un progetto di ricerca sullo sviluppo delle ragazze durato dieci anni.1 Sono stati i racconti delle ragazze sulle loro esperienze nel diventare adulte che mi hanno portata a domandarmi se le separazioni ritenute desiderabili o naturali, parte del normale processo di sviluppo (la separazione della mente dal corpo, del pensiero dall’emozione e del sé dalle relazioni), non fossero da vedere con più correttezza come risposte a una iniziazione. A orientarmi in tal senso è stato il rendermi conto che le ragazze reagivano a una forza che proveniva da fuori di loro stesse. Ascoltando alcune ragazze parlare della crisi di connessione che avevano affrontato quando si erano sentite spinte a scegliere tra l’avere una voce e l’avere relazioni, ho percepito la perdita di relazione che stavano registrando. Ciò che era sembrato loro perfettamente normale – avere una voce e vivere in relazione – improvvisamente era diventato straordinario. La resistenza di alcune a fare una scelta che riconoscevano come un cattivo affare, peraltro psicologicamente incoerente, mi ha spinta a chiedere da dove venisse questa scelta e a chi servisse.
Iris, una studentessa all’ultimo anno di liceo, definiva il dilemma in maniera succinta: «Se avessi detto che cosa provavo e pensavo nessuno avrebbe voluto stare con me, la mia voce sarebbe stata troppo forte», aggiungendo poi come spiegazione: «Ma tu devi avere delle relazioni». Qualcosa la obbligava a rinunciare alla relazione – l’esperienza di essere connessa con sé stessa e con le altre persone – come prezzo da pagare per avere “relazioni” – modi di relazionarsi configurati e prestabiliti che hanno una parvenza di connessione ma che, esigendo di disconoscere aspetti centrali di sé, impediscono la possibilità di una connessione effettiva. Le ho posto una domanda apparentemente ovvia: «Ma se non dici ciò che provi e pensi, allora dove sei tu in queste relazioni?», e vedendola adombrarsi ho avuto la certezza che anche lei era consapevole del paradosso.2 In entrambi i casi avrebbe subito una perdita relazionale, sia che avesse detto cosa provava e pensava, diventando perciò una con cui nessuno avrebbe voluto stare, sia che non lo avesse detto, diventando dunque un’altra rispetto a sé stessa. La perdita di connessione sembrava ineluttabile. Da qui la crisi.
Iris era la studentessa modello a cui spettava il compito di pronunciare il discorso finale alla cerimonia di diploma del suo liceo, era stata accettata nell’università prestigiosa che costituiva la sua prima scelta. Mentre tutti la celebravano, lei provava dolore per il patto che aveva stretto. Eppure ai suoi occhi questo era il prezzo da pagare per avere “relazioni” e farsi strada nel mondo.
Iris rinuncia dunque alla relazione per le “relazioni”. È importante sottolineare la distinzione tra relazione e “relazioni”, tra l’esperienza dell’essere in connessione e l’apparenza di una connessione. Altrettanto importante è comprendere che il sacrificio della relazione è adattivo, sancito culturalmente e premiato socialmente. Eppure Iris registra la perdita.
La ricerca condotta con le ragazze ha dato origine a due domande, se anche i ragazzi sperimentano una perdita di relazione simile e se la crisi avviene in un momento precedente nel corso del loro sviluppo. Quest’ultima domanda si basa su oltre un secolo di ricerche che indicano come l’adolescenza per le ragazze sia caratterizzata da un’elevata e improvvisa incidenza di segnali di disagio psicologico, mentre per i ragazzi un rischio analogo alla loro resilienza si verifica nella transizione tra la prima e la fase centrale dell’infanzia, più o meno tra i quattro e i sette anni.3 Che queste differenze di genere circa i tempi in cui la resilienza di ragazze e ragazzi è maggiormente minacciata siano ancora evidenti al giorno d’oggi possono essere considerate una prova della persistenza del patriarcato: trattandosi di un ordine di vita fondato su un’organizzazione binaria di genere e gerarchica, colpisce e condiziona bambine e bambini in modo diverso.
In uno studio pregevole per la precisione delle osservazioni, Judy Chu documenta l’acutezza relazionale dei bambini a quattro e cinque anni di età.4 La loro intelligenza e sensibilità emotiva erano manifeste nella loro attenzione premurosa, nella loro capacità di esprimersi, nell’autenticità e nella franchezza nei confronti gli uni degli altri e con la ricercatrice. Questa astuzia relazionale era evidente fin dal primo momento. Un giorno, Judy è seduta sul pavimento vicino a tre bambini che giocano tranquilli in un angolo e, dopo aver detto, in risposta a una domanda dell’insegnante, che sta cercando di imparare qualcosa sui bambini, Jake, uno dei tre, le chiede: «Cos’è esattamente che vorresti imparare?». Quando Judy risponde che vuole imparare com’è essere un maschietto, Jake si gira a consultarsi con Mike, il quale dice: «Pensi che dovremmo fidarci di lei?». Scrive Judy: «Jake lancia uno sguardo verso di me, poi si gira verso Mike e con un sorriso scuote la testa lentamente da una parte all’altra a significare no». Perché dovrebbero fidarsi di lei? A malapena la conoscono. Un’altra volta la sua presenza attira l’attenzione dei bambini – è la prima volta che lei porta con sé un registratore portatile a nastro – e uno di loro le chiede: «Perché hai quella cosa?», Judy glielo spiega e poi registra quanto segue: Dan si rende conto che il suo amico è ancora a disagio e cerca di fare qualcosa per rimediare alla situazione «venendo verso di me, mettendomi delicatamente sulla testa uno scialle di pizzo (che ha recuperato dalla casetta) e informandomi con noncuranza che “facciamo solo finta che tu non sia qui”».5
Seguendo questo gruppo di bambini dalla scuola materna al termine del primo anno di elementari, Chu ha assistito al loro diventare gradualmente sempre più distratti, disarticolati, meno autentici e meno diretti tra di loro e con lei. Stavano diventando “ragazzi” o quel che spesso si dice siano i ragazzi. Nel suo libro su “come si diventa ragazzi” Chu racconta il processo di iniziazione attraverso cui i ragazzi apprendono i codici di una mascolinità subordinata alla soppressione dell’empatia e a nascondere la propria vulnerabilità, necessari per affermare la propria superiorità e per evitare anche di essere respinti. Senza alcuna istruzione o cerimonia formale, quasi rispondessero a una presenza spettrale, i ragazzini manifestavano nel loro gioco la struttura binaria e le gerarchie di un ordine patriarcale in cui la mascolinità è definita in opposizione a e come l’opposto di qualunque cosa sia femminile, per cui essere un ragazzo significa non essere una ragazza o come una ragazza e occupare una posizione superiore, avere cioè privilegi e potere.
Lo studio di Chu coglie in che modo in cui, come prezzo per diventare ragazzi come gli altri, alcuni ragazzi sostituiscano la loro presenza relazionale (attenzione premurosa, autenticità, capacità di esprimersi e sincerità) con una finzione relazionale e una postura. La studiosa nota che, paradossalmente, nel desiderio di diventare “come gli altri”, questi ragazzi sollevano una sorta di scudo a copertura dei loro desideri relazionali e della loro sensibilità, sacrificando la relazione per avere “relazioni”.6 In sostanza, si trovano di fronte allo stesso dilemma di Iris: se dovessero dire quello che provano e pensano, rivelando la loro sensibilità emotiva e vulnerabilità, gli altri ragazzi non vorrebbero stare con loro perché non li percepirebbero come veri ragazzi. Tuttavia, nascondendo questi aspetti di sé per essere visti come gli altri e non effeminati o gay, rendono irraggiungibile proprio quella vicinanza con gli altri ragazzi che adesso cercano. In entrambi i casi non c’è modo di evitare la perdita. Chu sottolinea però anche la resistenza dei ragazzi quando mostra come i bambini di quattro e cinque anni riescano a essere strategici nella loro risposta ai codici di mascolinità e ricordandoci che, in generale, «i ragazzi sanno più di quello che fanno vedere».7
In Deep Secrets: Boys’ Friendships and the Crisis of Connection, Niobe Way attinge ai suoi studi sui ragazzi adolescenti per rivelare il «paesaggio nascosto delle amicizie tra ragazzi»,8 confutando il mito che soltanto le ragazze desiderino e siano capaci di intimità emotiva. Come evidenziano abbondantemente le testimonianze da lei riportate, i desideri di relazione e la sensibilità osservati da Chu nei bambini di quattro e cinque anni fioriscono durante l’adolescenza, unendosi a quel punto a una maggiore soggettività e capacità di riflettere su ciò che stanno sperimentando e a cui vanno incontro. All’inizio delle superiori i ragazzi, indipendentemente dalla cultura di appartenenza, parlano con entusiasmo delle loro migliori amicizie con altri ragazzi, amici con cui condividono profondi segreti. Come dice Justin, un quindicenne di una scuola pubblica urbana: «[Io e il mio migliore amico] ci vogliamo bene … tutto qua … abbiamo questa cosa che è profonda, molto profonda, è dentro di noi … a volte due persone possono davvero capirsi e fidarsi sul serio, rispettarsi, provare affetto l’uno per l’altro. Succede e basta, è la natura umana».9
L’affetto per i migliori amici viene sentito dai ragazzi come buono e naturale. Tuttavia entro la fine del liceo la maggioranza dei ragazzi delle ricerche di Way non ha più un migliore amico. Parlano di tradimento, non confidano più ad altri i propri segreti e si mostrano sprezzanti verso il bisogno di intimità emotiva. Fernando spiega che sta imparando «come essere più uomo»10 in un mondo in cui essere un uomo significa essere autosufficiente, emotivamente stoico e indipendente.
In questo modo, attraverso un’iniziazione che per i giovani maschi comincia intorno al momento del loro ingresso a scuola, che per le ragazze continua quando raggiungono l’adolescenza e stanno diventando giovani donne, e che nei ragazzi si ripete durante l’adolescenza quando stanno imparando a essere uomini, la femminilità si trova a essere associata a pseudo-relazioni (e al silenzio di sé) e la mascolinità alla pseudo-indipendenza (e alla schermatura difensiva dei desideri relazionali e della sensibilità) – due facce della stessa medaglia, dato che entrambi sono sottrazioni del sé dalla relazione con il paradossale obiettivo di facilitare la possibilità di avere “relazioni”. È questo ciò che intendiamo per perdita di relazione: una perdita di intimità e di connessione, più che una vera e propria separazione fisica permanente. Come nel caso della bambina del video, la perdita di relazione è segnalata da una perdita di piacere e da un cambiamento della voce. Lo si può vedere, lo si può percepire, lo si può ascoltare quando si osservano i bambini, nei setting clinici come nella vita di tutti i giorni.
Si tratta di schemi vecchi quanto il mondo, tanto da avere un mito, simile a quello di Edipo, una storia tramandata nel tempo e attraverso le culture, ma che invece di mostrarci la strada che conduce alla tragedia ci indica la via d’uscita da questi schemi: un percorso di resistenza. Al posto del triangolo edipico – padre, madre e figlio – ci sono una figlia, il suo amante e la madre di lui: Psiche, Eros e Venere.11 Con questa riconfigurazione degli attori principali del dramma si apre un percorso alternativo, che prende avvio dalla protesta di Psiche per essere trattata come un oggetto, prosegue con la sua resistenza alle pseudo-relazioni per concludersi con la protesta di Eros contro la perdita di relazione e la sua resistenza alla pseudo-indipendenza.
Questi miti mostrano che in realtà conosciamo sia la strada verso il patriarcato sia quella per uscirne. C’è una parte che viene spesso dimenticata o tralasciata quando si racconta la storia di Edipo, o la si colloca come pietra angolare del normale sviluppo, come hanno fatto gli psicoanalisti, ed è che il mito di Edipo affonda le sue radici nel trauma. Il re Laio aveva compiuto un abuso sessuale su un ragazzo; l’oracolo di Apollo gli aveva predetto che il castigo sarebbe giunto alla generazione successiva per mano del suo stesso figlio. La nascita di Edipo, figlio di Laio, mette dunque in moto una serie di eventi che si concludono in tragedia: un padre pronto a sacrificare il proprio figlio per salvare sé stesso, una madre complice nell’atto di ferire e abbandonare il proprio figlio. Quindi Edipo cammina ciecamente incontro al suo fato, uccide il proprio padre, giace e si sposa con la propria madre, un’epidemia scoppia in città e Edipo, dopo essersi letteralmente accecato, convoca le figlie perché lo accompagnino nella sua cecità. Giocasta, la madre edipica, rimane in silenzio fino alla fine. Il coro commenta: «Come poté la regina che Laio vinse […] restare in silenzio mentre l’atto si compiva?». Quando la verità di quello che era stato fatto a Edipo emerge Giocasta implora: «Per amor di Dio, non fate più domande», e s’impicca.
Quella di Edipo è una storia di trauma e perdita, di abuso e violenza, cecità e silenzio. È l’interpretazione mitica di una tragedia che è inerente al patriarcato. Nel trattare questo mito quale modello della condizione umana, come Freud e altri hanno fatto, insistendo sul nome di Edipo e dimenticando l’origine della sua storia nel trauma, si corre il rischio di considerare l’assassinio e l’incesto come impulsi naturali anziché come impulsi nati sulla scia dell’abuso e dell’abbandono. Si rischia di confondere per natura la cultura della violenza maschile e il silenzio femminile.
Psiche, la fanciulla adolescente, si oppone a recitare la sua parte in questo dramma edipico. Rifiuta di diventare la “nuova Venere”, una replica della madre idealizzata di Eros. Infrange il divieto di Eros di vederlo e di parlargli del loro amore, rompe il patto che sigilla la loro relazione, la loro intimità e la sua vulnerabilità nella cecità e nel silenzio. Perché alla luce del giorno, nella sua veste pubblica, Eros è Cupido, il ragazzo impertinente che scocca le sue frecce, mentre al buio, nel quale Psiche lo conosce, è un amante tenero e attento. E quando sfida il divieto e decide di vedere con i propri occhi, quando prende la lampada e scopre che, contrariamente a quanto le avevano detto le sorelle, non sta in realtà vivendo con un mostro, Psiche vede quello che aveva sempre saputo nell’oscurità e nel silenzio: Eros, il suo amante, colui che l’aveva obbligata alla cecità e al silenzio come condizione del suo amore, non è altro che un giovane uomo vulnerabile.
Ecco il punto. Se una giovane donna resiste al divieto di vedere e di parlare di ciò che sa per esperienza sull’amore, su di sé e sugli uomini, e se un giovane uomo, alla fine, smette di nascondere il proprio amore – come fa Eros nel corso del mito – allora una storia che rischiava di finire in tragedia si trasforma in un viaggio di resistenza e di lotta che può finire, come il mito di Eros e Psiche, con un matrimonio tra pari e con la nascita di una figlia chiamata Piacere. Ovvero con l’inizio di una nuova storia.
Sapere che il patriarcato, oltre a non essere naturale, non ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Presentazione
  3. Le autrici
  4. Frontespizio
  5. Copyright
  6. Sommario
  7. Prefazione all’edizione italiana
  8. Introduzione
  9. Prima parte
  10. Seconda parte
  11. Postfazione