Cos’è la maternità patriarcale?
Le madri creano cultura materna. Non esiste neppure una parola per descrivere il loro “costante tessere una rete”, servizio che le donne forniscono su base quotidiana. Rete che racchiude il mondo di emozioni in cui madre e figlio/a sono immersi dalla nascita; la rete è condivisione del tempo, il processo del cucinare e condividere i pasti, è il network femminile che comprende madri e amiche. La cultura materna si manifesta nell’intera sfera di attività artigianali e manuali tramite i cerchi di condivisione e la creazione di spazi attraverso i suoi atti di produzione.
Vista dalla prospettiva della Teoria critica del patriarcato (TCP), storicamente la maternità è stata ripartita nelle sue funzioni fisiche (l’utero) e di cura, che sono state oppresse, ridicolizzate e sfruttate. Nello sviluppare la TCP abbiamo inoltre scoperto l’esistenza di uno scopo ultimo molto specifico: sbarazzarsi della madre una volta per tutte. Il suo corpo e la sua potenza creatrice devono essere eliminati perché al loro posto possa installarsi la creazione maschile che capovolge completamente la creatività femminile. La sua vivacità deve essere estirpata e la gravidanza trasformata, da atto apparentemente incontrollato, selvaggio e imprevedibile a una tecnologia moderna, controllabile e misurabile come tante altre. Si tratta di un processo di sostituzione graduale nel quale le madri rimangono fisicamente necessarie e “funzionano” come procreatrici e addette alla cura.
Capire il patriarcato come teoria complessiva della civiltà significa vedere lo scopo della modernità con occhi nuovi. Questo scopo consiste nel creare un mondo nuovo, presumibilmente migliore, attraverso un processo di trasformazione patriarcale. Tale metodo non è però basato sul “miglioramento” o sull’assimilazione “mimetica” delle condizioni naturali esistenti (come avviene invece in un’ottica nativa), bensì sulla distruzione10 completa della madre (incarnata) e della cultura della maternità. Per questo “la madre deve andare perduta”, per citare il titolo di una serie di articoli sul “Giorno della Mamma”,11 deve essere letteralmente uccisa, cancellata. Le madri di oggi non sono che una sorta di passaggio intermedio nel percorso verso la loro eliminazione completa, verso un «mondo privo di madri» (von Werlhof 2011).
La maternità patriarcale deve essere concepita come un’istituzione in cui il corpo della madre, il suo lavoro e la sua potenza creativa sono trasformati in una specie di unità amministrativa. Fornendo cibo, alloggio e cure, la donna madre e casalinga incarna il senso più autentico dell’economia, il suo vero significato. È questa l’economia ombra su cui quella ufficiale si basa in “modo parassitario”. Fin dall’inizio dell’era moderna12 la madre istituzionalizzata è stata sorvegliata e irreggimentata dalla pedagogia, dalla medicina, dalla psicologia e dalla legge. Per esempio, le norme e le raccomandazioni sull’allattamento al seno hanno subito un cambiamento costante negli ultimi decenni in base allo stato della ricerca o dell’opinione pubblica del tempo.13
La vita materna è permessa all’interno della cornice della famiglia nucleare,14 concetto creato all’inizio dell’era patriarcale per impedire la libera sessualità delle donne e gravidanze incuranti dei padri. La procreazione all’interno del matrimonio è stata trasformata in un dovere controllato e sorvegliato. Da quel momento la madre nubile è stata considerata un’onta, quella sposata una benedizione. In tutta Europa la sottrazione di bambine e bambini “illegittimi”15 alla madre è stata prassi diffusa fino agli anni Settanta. Nel corso del tempo e dello spazio la famiglia è stata normativamente definita in moltissimi modi, ma il suo obiettivo di mantenere il controllo sul processo riproduttivo non è mai mutato.
Inoltre, i concetti europei/nordamericani di maternità e famiglia nucleare rappresentano una merce da esportare nelle società non occidentali, dove vengono propagandati o imposti con violenza attraverso la religione (i missionari), l’economia (la proprietà privata, la creazione di nuova forza lavoro), o misure politiche (l’introduzione del cognome paterno) a società rimaste non patriarcali fino a oggi, come i Khasi dell’Assam, in India, o i Moso della Cina meridionale.
L’immagine popolare della madre è lontana dalla realtà. In particolare, l’immagine della madre tedesca è un prodotto dell’immaginazione maschile elaborato per secoli da chierici, giuristi, psicologi e politologi. In Germania e in Austria il nazionalsocialismo ha dato origine a una specifica forma di maternità che è stata implementata con meticolosità a tutti i livelli dell’essere madre (Weyrather 1993): il matrimonio con un ariano, il numero di figli prescritto, il modo in cui crescerli, la loro partecipazione alla Hitler-Jugend (Gioventù hitleriana), la scelta di nomi ariani, l’ammontare di cure e di regole nella loro educazione, il modo in cui punirli e “non viziarli”, tutta l’istruzione fascista e infine il sacrificio dei figli sui campi di battaglia, nel caso dei maschi, e su quello dei servizi alla guerra, nel caso delle femmine (infermiere ecc.). Dal culto ariano della madre è scaturito il cosiddetto Lebensborn (Progetto sorgente di vita), attraverso cui erano concepiti e venivano alla luce bambini tedeschi dai capelli biondi e gli occhi azzurri. Le madri tedesche erano insignite di Croci d’Onore d’oro, d’argento o di bronzo per aver partorito molti figli/e. Ancora oggi dobbiamo fare i conti con una vita familiare rigidamente disciplinata che regolamenta in termini precisi l’intero processo riproduttivo, dal concepimento fino al diploma dei figli e delle figlie. Il tempo che le madri dovrebbero passare con i loro piccoli è in special modo sotto costante scrutinio. Lieselotte Ahnert (2006) ha dedicato il suo saggio (“Quanto una madre ha bisogno di un figlio?”) a questo dibattito, sempre in corso in Germania e in Austria.
Viviamo sotto la pressione di...