Dopo la violenza
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Dopo la violenza

Lo stupro e la ricostruzione del sé

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Dopo la violenza

Lo stupro e la ricostruzione del sé

Informazioni su questo libro

Susan J. Brison, filosofa, propone un saggio dove esamina la distruzione e il rifacimento di un sé all'indomani della sua violenza, esplora, da una prospettiva interdisciplinare, memoria e verità, identità e sé, autonomia e comunità. Un percorso di guarigione e un'esplorazione filosofica del trauma. La mattina del 4 luglio 1990, durante una passeggiata nel sud della Francia, Susan J. Brison viene aggredita senza preavviso, massacrata di botte, stuprata, strangolata fino a perdere conoscenza e, creduta morta, abbandonata nel bosco teatro della violenza. Sopravvissuta e curata, il suo mondo è però stato distrutto. Filosofa per formazione si accorge che la sua specializzazione non poteva aiutarla a dare un senso a ciò che le era accaduto, e che molti dei presupposti fondamentali sulla natura del sé e sull'ambiente che la circonda devono essere ripensati daccapo. Al tempo stesso memoir di un percorso di guarigione e un'esplorazione filosofica del trauma, questo saggio esamina la distruzione e il rifacimento di un sé all'indomani della violenza. Esplora, da una prospettiva interdisciplinare, memoria e verità, identità e sé, autonomia e comunità. Offre un accesso all'esperienza di una sopravvissuta a uno stupro, nonché riflessioni critiche riguardanti una società in cui le donne abitualmente temono e subiscono violenza sessuale. Se il trauma sconvolge la memoria, separa il passato dal presente e rende incapaci di immaginare un futuro, l'atto di testimoniare, sostiene Brison, facilita il recupero integrando l'esperienza nella storia della vita del sopravvissuto.

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Informazioni

1.

Sopravvivere alla violenza sessuale

Il 4 luglio del 1990, alle 10:30 del mattino, sono uscita a fare una passeggiata lungo quella che sembrava una tranquilla strada di campagna fuori Grenoble, in Francia. Era una giornata meravigliosa e non invidiavo mio marito Tom, che doveva restare in casa per lavorare a un manoscritto con un collega francese. Mi sono avviata canticchiando e, lungo la strada, mi sono fermata ad accarezzare una capretta e a raccogliere qualche fragolina di bosco. Circa un’ora e mezza dopo, ero riversa in un ruscello fangoso in fondo a un burrone, e lottavo tra la vita e la morte. Ero stata afferrata da dietro, trascinata nei cespugli, picchiata e aggredita sessualmente. Sentendomi inerme e totalmente alla mercé del mio assalitore, gli ho parlato, chiamandolo «signore». Ho cercato di fare appello alla sua umanità e, fallendo nel mio intento, ho provato con l’egocentrismo. Mi ha chiamata puttana e mi ha detto di stare zitta.
Pur avendogli detto che avrei fatto tutto quello che voleva, quando è cominciata la violenza sessuale ho istintivamente reagito, cosa che lo ha fatto infuriare al punto che mi ha strangolata finché non ho perso conoscenza. Quando mi sono risvegliata, mi stava trascinando per i piedi fin giù nel burrone. Spesso, in sogno, ho pensato di essere sveglia, ma in quel momento ero sveglia ed ero convinta che stessi avendo un incubo. Ma non stavo sognando. Dopo avermi intimato, con voce roca e in tono da Gestapo, di mettermi carponi, il mio aggressore mi ha strangolata di nuovo. Vorrei essere in grado di esprimere l’orrore del perdere conoscenza mentre i tuoi istinti animali lottano disperatamente contro gli effetti dello strangolamento. Questa volta ero sicura che stavo morendo. Ma sono rinvenuta, giusto in tempo per vederlo lanciarsi verso di me con un masso. Me lo ha fracassato sulla fronte, facendomi perdere i sensi e, alla fine, dopo aver tentato di nuovo di strangolarmi, mi ha data per morta e se n’è andato.
Dopo ciò, sono riuscita ad arrampicarmi fuori dal burrone e sono stata soccorsa da un agricoltore, che ha chiamato la polizia, un dottore e un’ambulanza. Mi hanno portata al pronto soccorso dell’ospedale di Grenoble, dove sono stata sottoposta a esami neurologici, radiografie, esami del sangue e visita ginecologica. Hanno preso le foglie e i ramoscelli che avevo tra i capelli per usarli come prove, mi hanno raschiato le unghie e mi hanno prelevato dei campioni dalla bocca con un tampone. Avevo ferite multiple alla testa, gli occhi chiusi per il gonfiore e una lesione alla trachea, cosa che mi rendeva difficile respirare. Non mi era consentito bere né mangiare nulla per le prime trenta ore, ma Tom, che mi è stato sempre accanto, aveva il permesso di tamponarmi le labbra incrostate di sangue con un asciugamano bagnato. Il giorno successivo mi hanno trasferita dal pronto soccorso a una camera privata, ma non mi si poteva lasciare sola, nemmeno per pochi minuti. Avevo il terrore che il mio aggressore mi trovasse e completasse l’opera. Quando più tardi mi hanno portato il giornale locale dove si parlava della mia aggressione, ho provato un grande sollievo nel vedere che l’articolo si riferiva a me come Mlle M. R. e non diceva che ero americana. Anche al momento delle mie dimissioni dall’ospedale, undici giorni dopo, ero così preoccupata di essere rintracciata dal mio aggressore che nei documenti dell’ospedale ho fatto figurare solo l’indirizzo del mio avvocato.
Anche se il timore per la mia incolumità inizialmente poteva giustificare la mia volontà di restare anonima, ormai il mio aggressore era stato arrestato, condannato per stupro e tentato omicidio, e messo in carcere senza possibilità di libertà provvisoria. Eppure non volevo che la gente sapesse che avevo subito un’aggressione sessuale. Non so se fosse perché io stessa stentavo ancora a crederci, o perché mantenere il riserbo su questa informazione era uno dei pochi modi per sentire che avevo il controllo sulla mia vita, o ancora perché, nonostante la convinzione di non aver fatto niente di sbagliato, mi vergognavo.
Quando ho cominciato a parlare con gli altri dell’aggressione, dicevo semplicemente che ero stata vittima di un tentato omicidio. La reazione tipica era quella di chiedere con orrore: «E con quale movente? Ti hanno rapinata?» e quando rispondevo: «No, è partita come un’aggressione sessuale», la maggior parte lo reputava sufficiente a spiegare il fatto che un uomo avesse voluto ammazzarmi. Avrei detto che un tentato omicidio unito a un’aggressione sessuale richiedesse maggiori, non minori spiegazioni rispetto a un tentato omicidio e basta (dopotutto, gli atti criminosi da spiegare sono due).
Uno dei motivi per cui la violenza carnale è data per scontata da molti è perché è estremamente diffusa. L’FBI, tristemente nota per sottostimare la frequenza dei reati a sfondo sessuale, rileva che negli Stati Uniti si verifica uno stupro ogni sei minuti (Federal Bureau of Investigation, 1986, p. 6). Questo dato, però, riguarda solo i casi denunciati, e alcuni studi indicano che solo per il 10% circa del totale degli stupri viene sporta denuncia.1 Ogni 15 secondi una donna viene picchiata.2 La quotidianità della violenza sessuale, evidenziata da questi scioccanti dati statistici, porta molti a pensare che la violenza maschile contro le donne sia naturale, un dato di fatto, qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato e non è suscettibile di cambiamento. E tuttavia, se da un lato molte persone danno per assunta la violenza carnale, nello stesso tempo, attraverso una serie di formidabili acrobazie mentali, riescono a negare che esista davvero; o, per meglio dire, che possa accadere a loro. Continuiamo a pensare che noi — e le donne che amiamo — ne siamo immuni, purché, certo, non facciamo nulla di «stupido». Quante di noi si sono bevute la menzogna, potenzialmente letale, secondo cui se non fai niente di sbagliato, sei stai abbastanza attenta, non corri pericolo? Quanti di noi hanno creduto al suo dannoso corollario di colpevolizzazione della vittima: se ti aggrediscono è perché hai fatto qualcosa di sbagliato? Queste sono bugie, e raccontando la mia storia spero di smascherarle, oltre che di colmare le distanze tra chi è stato vittimizzato e chi no.
La violenza sessuale e le sue conseguenze sollevano numerose questioni filosofiche in diversi settori della nostra disciplina. La disintegrazione del sé vissuta dalle vittime di violenza mette in discussione la nostra concezione dell’identità personale attraverso il tempo, un tema centrale della metafisica. Lo scetticismo apparentemente giustificato della vittima riguardo a tutti e tutto pertiene all’epistemologia, specialmente se l’obiettivo di questa disciplina è, nella visione di Wilfrid Sellars, sentirsi a proprio agio nel mondo. Nell’estetica, come pure nella filosofia del diritto, l’analisi della violenza carnale nell’arte o come arte può giovarsi dei lumi offerti dal punto di vista della vittima. Forse le questioni più importanti poste dalla violenza sessuale si collocano nell’area della filosofia sociale, politica e legale e anche un approfondimento da tale angolazione richiede una comprensione di che cosa significhi essere vittime di una violenza di questo tipo.
Uno dei pochissimi articoli scritti da filosofi sulla violenza contro le donne è Rape: A case study in political philosophy3 di Ross Harrison. Nel suo scritto, Harrison sostiene che non è solo necessario che gli utilitaristi valutino la dannosità dello stupro per poter stabilire se il danno inflitto alla vittima superi il beneficio ottenuto dallo stupratore, ma che, anche in un approccio alla giustizia penale che si basi sui diritti, dobbiamo essere in grado di valutare i benefici e i danni comportati dalla criminalizzazione e punizione di atti violenti come lo stupro. In quest’ottica, non è sempre vero, contrariamente a quanto afferma Ronald Dworkin, che i diritti vincano sulle considerazioni in ordine all’utilità, perciò, persino in una concezione della giustizia fondata sui diritti, dobbiamo dar conto del perché, nel caso dello stupro, il piacere tratto dall’autore (o dagli autori, nel caso di stupri di gruppo) sia sempre superato dal danno inflitto alla vittima. Harrison evidenzia la peculiare difficoltà che molti di noi incontrano nell’immaginare il piacere che lo stupratore trae dall’aggressione, ma, asserisce con decisione: «Non è difficile immaginare come ci si senta da vittime» (Harrison, 1986, p. 51). Harrison ha certamente il merito di riconoscere l’importanza, per la filosofia politica, di cercare di immaginare l’esperienza altrui, perché altrimenti non sarebbe possibile fare un confronto tra danni e benefici, operazione che sostiene sia necessaria anche nei casi di conflitto di diritti, per poter decidere quale dei diritti in concorrenza debba avere la priorità. Ma immaginare come si senta la vittima di uno stupro non è una questione semplice, poiché ciò che vive una vittima è in gran parte inimmaginabile. Tuttavia, è fondamentale cercare di descriverlo.
Nei miei tentativi di raccontare la storia della vittima — la mia storia, la nostra storia — mi sono ispirata e documentata attingendo non solo alla filosofia femminista che ha rifiutato di accettare la dicotomia tra personale e politico, ma anche a esponenti della teoria critica della razza come Patricia Williams, Mari Matsuda e Charles Lawrence, che hanno introdotto il resoconto narrativo in prima persona nella loro trattazione del diritto. Scrivendo sui discorsi d’odio, hanno sostenuto in modo convincente che non è possibile rendere giustizia alle questioni implicate nei dibattiti sull’applicazione di limiti alla libertà di parola senza aver ascoltato le storie delle vittime.4 Nel descrivere gli effetti delle molestie a sfondo razziale, si sono discostati dalla convenzione accademica di esprimersi con voce impersonale, «universale», e hanno riferito episodi vissuti in prima persona. Nel suo pioneristico The alchemy of race and rights (1991), Williams descrive come si è sentita al venire a conoscenza della storia della sua trisavola, comprata come schiava a 11 anni da un uomo che l’anno successivo la violentò e la ingravidò. E descrivendo episodi di razzismo quotidiano che lei stessa ha vissuto, ci offre un mezzo per immaginare che cosa significhi essere vittime di discriminazione razziale. Qualcuno potrebbe pensare che questo tipo di racconti in prima persona siano libertà da non concedersi nella scrittura accademica, ma a mio vedere rappresentano un gradito antidoto alla tendenza che ha l’accademia a ridurre al silenzio coloro che hanno più bisogno di essere ascoltati, nascondendosi dietro la maschera dell’universalità.
I filosofi sono molto indietro rispetto ai teorici del diritto nel riconoscere il bisogno di una varietà di voci. Veniamo istruiti a scrivere in una voce astratta, universale, e a evitare la narrazione in prima persona perché parziale e inappropriata al discorso accademico. Alcuni argomenti, tuttavia, come l’impatto della violenza a sfondo razziale e sessuale sulle vittime, non possono neppure essere accostati a meno che non venga dato alle persone colpite da questi crimini la possibilità di raccontare la loro esperienza con parole proprie.
Dimostrando ulteriormente, e senza volerlo, il bisogno di considerare la prospettiva della vittima, in un altro punto del suo articolo sulla violenza carnale Harrison scrive: «Ciò che più di tutto distingue lo stupro dalla normale attività sessuale è il consenso della donna stuprata» (Harrison, 1986, p. 52). Non si dice nulla di analogo in riferimento ad altri crimini, come il furto o l’omicidio. Ad esempio, provate a dire: «Ciò che più di tutto distingue il furto da un normale regalo è il consenso della persona derubata». Non pensiamo al furto come a un «regalo forzato». Non pensiamo all’omicidio come «suicidio assistito, ma senza consenso». Perché no? Nel secondo caso, forse perché il suicidio assistito è relativamente raro (persino in rapporto agli omicidi) e risulta perciò strano usarlo come riferimento più familiare per la nostra analogia. Ma nel primo caso, il regalo è presumibilmente più diffuso rispetto al furto (almeno nei circoli accademici) eppure sembra bizzarro spiegare il furto in termini di regalo, ma senza consenso (o di filantropia forzata). Nel caso sia del furto sia dell’omicidio, l’idea di violazione sembra insita nella nostra concezione degli atti concreti che costituiscono il crimine ed è perciò inconcepibile per noi che qualcuno possa acconsentire all’atto in questione. Perché è così facile per un filosofo come Harrison, pensare che lo stupro sia, in ogni caso, «nomale attività sessuale, ma senza consenso»? Forse perché la natura della violazione, nel caso dello stupro, non è poi così evidente. Prova ne siano le barzellette sullo stupro, la diffusione della pornografia che lo celebra, la comune mentalità secondo cui, nel caso delle donne, «no» significhi «sì», vale a dire, che in realtà lo vogliano.5
Poiché sono stata aggredita da uno sconosciuto, in un luogo «sicuro», e avevo ferite molto evidenti quando ho incontrato la polizia e il personale medico, nel corso sia del mio ricovero sia dei rapporti con la polizia mi è stato risparmiato l’insulto, subito da tantissime vittime di stupro, di non essere creduta o di sentirmi dire di essermela cercata. Comunque sia, mi è diventato chiaro, mentre rendevo la mia deposizione dal letto dell’ospedale, che la questione si sarebbe ripresentata con il processo al mio aggressore. Durante la deposizione, mi è tornato in mente com’ero stata sul punto di rinunciare a lottare per vivere quando all’improvviso mi aveva folgorata una straziante immagine del futuro dolore di Tom che trovava il mio cadavere in quel burrone. A quel punto della deposizione mi sono fermata, ho guardato il poliziotto che la stava trascrivendo e ho chiesto se fosse opportuno includere questa immagine di mio marito nel mio racconto dei fatti. Il gendarme mi ha risposto che lo era nel modo più assoluto, e che menzionare mio marito era un’ottima cosa, poiché il mio aggressore, che aveva confessato l’aggressione sessuale, sosteneva che l’avessi provocata io. Nonostante la serietà delle circostanze, e per quanto fosse doloroso mettersi a ridere, non sono riuscita a trattenermi dal farlo di fronte all’assurdità di quell’idea. Forse erano stati i jeans Gap sformati che indossavo quella mattina? O la felpa pesante? Le mie scarpe da ginnastica irresistibilmente seducenti? O era stato semplicemente il mio passargli accanto pensando ai fatti miei che aveva suscitato la sua furia assassina?
Terminata la deposizione, dopo otto ore, il poliziotto mi ha chiesto di leggere e firmare la trascrizione che aveva redatto per certificarne l’accuratezza. Sono rimasta sorpresa nel leggere che cominciava con le parole «Comme je suis sportive…» («Siccome sono un tipo sportivo…»), aggiunte dal poliziotto per giustificare che cosa mi fosse preso per andare a fare una passeggiata da sola quella bella mattina di sole. Ero troppo esausta a quel punto per obiettare: «No, non sono una sportiva, sono una docente di filosofia» e ho immaginato che l’agente sapesse quello che stava facendo, perciò non ho cancellato la frase. Quella sera, il mio aggressore è stato formalmente incriminato. Ho ingaggiato un avvocato, che ho incontrato insieme al giudice istruttore quando ho rilasciato la mia seconda deposizione verso la fine della mia permanenza in ospedale. Anche se il fatto era ufficialmente un reato contro lo Stato, non contro di me, mi è stato consigliato di intentare una causa civile per recuperare le spese mediche non rimborsate e, in ogni caso, avevo bisogno di un rappresentante che mi spiegasse il sistema giudiziario francese. Mi è stato detto che, siccome il mio era un caso «facile», entro un anno si sarebbe giunti a sentenza. E invece il processo si è concluso due anni e mezzo dopo, grazie alle tecniche dilatorie dell’avvocato del mio aggressore che stava cercando di far assolvere il suo assistito per infermità mentale. Secondo l’articolo 64 del codice penale francese, se si stabilisce l’infermità mentale dell’imputato all’epoca dei fatti, allora, legalmente non c’è «ni crime, ni délit»: né crimine né delitto. La corte, però, non l’ha riconosciuta e ha dichiarato il mio aggressore colpevole di stupro e tentato omicidio.
Per come alla...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione all’edizione italiana
  2. Prefazione
  3. 1. Sopravvivere alla violenza sessuale
  4. 2. Il personale come filosofico
  5. 3. Sopravvivere a sé stessi
  6. 4. Atti di memoria
  7. 5. La politica dell’oblio
  8. 6. Ri-raccontare
  9. Postfazione
  10. Ringraziamenti
  11. Bibliografia