
eBook - ePub
Il diritto e il dovere di cambiare il mondo
Per una pedagogia dell'indignazione
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Questo saggio ci invita a indignarci per cambiare il mondo. Un'indignazione che non è violenza, né rabbia che si esaurisce in se stessa, bensì un atto politico, in cui l'insofferenza per le crudeltà del presente non è che l'altra faccia dell'amore per la possibilità di un futuro migliore.
Affrontando le questioni scomode, le lotte sociali, l'alfabetizzazione degli adulti, le miserie del progresso, che hanno accompagnato la sua riflessione e la sua vita, in questi ultimi scritti Freire chiama in giudizio le contraddizioni e le ipocrisie che minano da secoli il colosso del benessere dei pochi. Lo fa, però, senza mai abbandonare la prospettiva pedagogica, e senza mai smettere di ricordarci che siamo soggetti e non oggetti della Storia: perché la constatazione dell'oppressione non si traduca in rassegnazione, ma diventi progetto di una realtà diversa.
Domande frequenti
Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
- Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
- Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Il diritto e il dovere di cambiare il mondo di Paulo Freire in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Didattica e Didattica generale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.
Informazioni
Argomento
DidatticaCategoria
Didattica generaleSeconda Parte
Altri scritti
La scoperta dell’America1
Provando a rispondere per la prima volta alle domande che mi sono state poste in merito al quinto centenario della cosiddetta «scoperta dell’America», la mia riflessione inaugurale, o meglio, la mia constatazione iniziale è che il passato non si cambia. Si comprende, si rifiuta, si accetta, ma non si cambia.
Cercherò di rispondere partendo da un’osservazione ovvia sull’arrivo dei colonizzatori: in realtà non hanno «scoperto» l’America, l’hanno conquistata.
Con questa breve introduzione in parte ho già risposto alla domanda. Non penso nulla della «scoperta» perché in realtà è stata una conquista. Per quanto riguarda la conquista, in definitiva la rifiuto. La presenza predatoria del colonizzatore, il suo incontenibile desiderio di sovrapporsi allo spazio fisico, storico e culturale degli individui, la volontà di comandare, il potere devastante su terre e popoli, l’irrefrenabile ambizione di distruggere l’identità culturale dei nativi, considerati inferiori, quasi animali: non possiamo dimenticare tutto ciò perché, a distanza di tempo, corriamo il rischio di edulcorare l’invasione e di considerarla una specie di dono di civiltà del cosiddetto Vecchio Mondo.
A cinquecento anni dalla conquista, se da un lato non mi lascio prendere dall’odio verso gli europei, dall’altro non mi adatto alla malvagità insita in qualsiasi forma di colonialismo, invasione, depredazione. Mi rifiuto di riscontrare aspetti positivi in un processo perverso per natura.
Non saranno quindi i cinquecento anni che ci separano dall’invasione a farmi benedire la mutilazione del corpo e dell’anima dell’America, dalla quale sono derivati mali presenti ancora oggi. Il corpo e l’anima dell’America, il corpo e l’anima dei suoi popoli originari, degli uomini e delle donne nati sul suolo americano, figli e figlie di non importa quali combinazioni etniche; il corpo e l’anima di donne e uomini che dicono di no alla dominazione di uno Stato sull’altro, di un genere sull’altro, di una classe sociale sull’altra; il corpo e l’anima di progressisti e progressiste sanno cosa ha rappresentato l’espansione europea, portatrice dei limiti che ci sono stati imposti. Sanno che non possono benedire né gli invasori né l’invasione. Perciò, il modo migliore per commemorare i cinquecento anni dell’occupazione, senza rimanere a braccia incrociate di fronte ai festeggiamenti, è celebrare il coraggio, la ribellione, la decisione di combattere, l’intrepidità, la capacità di lottare contro l’invasore; la passione per la libertà di indios e indias, neri e nere, bianchi e bianche, mamelucos,2 che videro i propri corpi aggrediti, i propri sogni fatti a pezzi, le proprie vite defraudate.
Quei gesti di ribellione si ripropongono oggi nella lotta dei «senza-terra», dei «senza-scuola», dei senzatetto, dei favelados; nella lotta contro la discriminazione razziale, di classe e di genere.
In luogo dell’invasione, io celebro la ribellione contro l’invasione. E se dovessi parlare di cosa ci ha insegnato la tragica esperienza coloniale, direi che la prima lezione, che è anche la più importante, deve porsi a fondamento della nostra decisione di rifiutare l’espoliazione, l’invasione di classe, sia in quanto invasori, sia in quanto invasi. È la lezione del non-conformismo di fronte alle ingiustizie, la lezione secondo la quale siamo capaci di decidere, di cambiare il mondo, di migliorarlo. Questa lezione insegna che i potenti non possono tutto e che i fragili, lottando per liberarsi, possono fare della propria debolezza una forza con cui sconfiggere la forza dei forti.
È questo l’insegnamento che celebro. Sicuramente il passato non passa mai, secondo il senso comune del verbo passare. La questione fondamentale non è se il passato passi o meno, ma come comprendere, in modo critico e vigile, la presenza del passato nei processi del presente. In quest’ottica, lo studio e la comprensione del passato ci aiutano a superare le sue tracce e a capire le ragioni di molte pratiche attuali. Lo studio del passato ci aiuta a comprendere come la conquista si ripeta oggi in modi diversi. Proprio perché il passato si fa presente — quello del conquistatore e quello del conquistato — i quilombos, momento esemplare della lotta dei conquistati, rivivono nelle attuali lotte popolari del continente americano. La conquista contemporanea, che prescinde dal corpo fisico del conquistador, avviene con il dominio economico, con l’invasione culturale, con l’egemonia di classe e con un’infinità di altre risorse e strumenti che le potenze neo-imperialiste utilizzano. Fra questi, l’assistenzialismo, i prestiti che generano l’indebitamento crescente dei popoli sottomessi. In questi processi, i potenti di oggi, come quelli di ieri, contano su un aspetto fondamentale: la connivenza dei dominati, che sono esseri duali. Perciò, i dominanti devono affrontare anche l’amore per la libertà degli oppressi, degli invasi, dei diseredati, i quali, pronti, in piedi, a volte nell’ombra, strategicamente silenziosi, «disturbano» la mente dei potenti. Il forte desiderio e la volontà di essere noi stessi, incoraggiati dal sogno possibile, dall’UTOPIA tanto necessaria quanto praticabile, spingono noi progressisti e progressiste di queste terre d’America a marciare verso la concretizzazione, la realizzazione dei sogni dei tanti Vasco Quiroga, Tupac, Bolívar, San Martin, Sandino, Tiradentes, Che, Romero.
Il futuro è dei Popoli, non degli Imperi.
San Paolo, aprile 1992
1 Testo redatto in risposta all’inchiesta condotta dalla Fondazione di Ricerche Sociali e Politiche del Centro Ecumenico di Educazione Popolare di Buenos Aires sul quinto centenario della cosiddetta «scoperta dell’America». Agenda del professor Paulo Freire (24 aprile 1992).
2 Termine portoghese con il quale Freire fa riferimento ai figli nati dalle unioni fra bianchi e creoli o fra bianchi e indigeni del Brasile [ndt].
Alfabetizzazione e miseria
Di recente, a Olinda, nel Nord-est del Brasile, in una tipica giornata tropicale, piovosa e soleggiata al contempo, ho avuto una conversazione, che definirei esemplare, con un giovane educatore popolare, il quale, in ogni istante, con ogni parola e riflessione, dimostrava grande coerenza con la sua scelta di vita democratica e popolare.
Io e Danilson Pinto passeggiavamo con l’anima rivolta al mondo, curiosi, ricettivi, per i vicoli di una favela dove si impara troppo presto che solo con grande tenacia si riescono a intessere le trame della vita nella quasi totale assenza o negazione della vita — fra povertà, minacce, disperazione, insulti e dolore. Mentre camminavamo per le strade di quel mondo bistrattato e vilipeso, ricordavo le mie esperienze giovanili in altre favelas di Olinda e di Recife, le conversazioni con i loro abitanti dall’animo lacerato. Imbattendoci nel dolore umano, ci interrogavamo su un’infinità di problemi. Cosa fare, come educatori, quando lavoriamo in un contesto del genere? Si può davvero fare qualcosa? Cosa fare e come farlo? Cosa dovevamo sapere noi, cosiddetti educatori, per rendere possibili perfino i nostri primi incontri con donne, uomini e bambini la cui umanità viene negata e tradita, la cui esistenza viene schiacciata?
A un certo punto ci siamo fermati a metà di un ponticello stretto che collega la favela a una zona meno degradata di quel quartiere popolare. Guardavamo dall’alto il braccio di un fiume inquinato e senza vita che inonda di fango, e non d’acqua, le baracche quasi sommerse. «Oltre le baracche», ha detto Danilson, «c’è di peggio: un terreno enorme che funge da discarica pubblica. Gli abitanti della zona e dei dintorni “cercano” nella spazzatura roba da mangiare, vestiti, qualsiasi cosa che gli permetta di sopravvivere».
Proprio in quell’orrenda discarica, due anni prima, una famiglia aveva recuperato fra i rifiuti ospedalieri le parti di un seno amputato per preparare il pranzo domenicale. La stampa diffuse la notizia di questo evento, che io avevo già citato, sconvolto e giustamente indignato, nel mio libro À sombra desta mangueira. È probabile che la notizia abbia provocato presso i pragmatici neoliberisti l’abituale reazione fatalista sempre a favore dei potenti: «È triste, ma che fare? La realtà è questa». Ma la realtà non è inesorabilmente questa. È questa come potrebbe essere un’altra, ed è proprio affinché sia diversa che noi progressisti dobbiamo lottare. Mi sentirei, più che triste, desolato e incapace di scorgere il senso della mia presenza nel mondo, se ragioni forti e indistruttibili mi convincessero che l’esistenza umana si svolge nel dominio della determinazione. Un dominio in cui sarebbe difficile parlare di opzioni, di decisioni, di libertà, di etica. «Che fare? La realtà è proprio questa» diventerebbe il discorso universale. Un discorso monotono, ripetitivo, come del resto sarebbe l’esistenza umana stessa. In una Storia così determinata, le posizioni ribelli non potrebbero diventare rivoluzionarie.
Ho il diritto di provare rabbia, di manifestarla, di renderla una motivazione della mia battaglia, così come ho il diritto di amare, di esprimere il mio amore al mondo, di renderlo una motivazione della mia battaglia perché, come soggetto storico, vivo la Storia come tempo di possibilità e non determinato. Se la realtà fosse così perché così è scritto che debba essere, non ci sarebbe neanche motivo di provare rabbia. Il mio diritto alla rabbia presuppone che, nell’esperienza storica alla quale partecipo, il domani non sia qualcosa di predeterminato, ma una sfida, un problema. La mia rabbia, la mia sacrosanta collera nasce dalla rivolta contro la negazione del diritto a «essere di più», diritto inscritto nella natura stessa degli esseri umani. Non posso incrociare le braccia fatalisticamente davanti alla miseria, scaricando in questo modo la mia responsabilità nel discorso cinico e «tiepido» che sostiene l’impossibilità di cambiare perché la realtà è così e basta. Il discorso dell’accomodamento o della sua difesa, il discorso dell’esaltazione del silenzio imposto, da cui deriva l’immobilità di coloro che sono ridotti al silenzio, il discorso dell’elogio dell’adattamento inteso come fato o destino è un discorso che nega l’umanizzazione, dalla cui responsabilità non possiamo esimerci. L’adattamento a situazioni che negano l’umanizzazione può essere accettato solo come conseguenza dell’esperienza di dominio, o come esercizio di resistenza, come tattica nella lotta politica. Oggi lascio intendere di accettare la mia condizione di silenziato per lottare meglio domani, quando potrò, contro la negazione della mia persona. La legittimità della rabbia contro la docilità fatalista dinanzi alla negazione dei popoli è stato l’argomento implicito di tutta la nostra conversazione, quella mattina.
Uno dei saperi primari e indispensabili per chi arriva in una favela o in un contesto segnato dal tradimento del diritto a essere, se desidera che la sua presenza diventi convivenza, che il suo stare in quel contesto diventi stare con esso, è concepire il futuro come problema e non come qualcosa di ineluttabile. È concepire la Storia come possibilità e non come determinismo.
Il mondo non è. Il mondo è in divenire. In quanto soggettività curiosa, intelligente, che interferisce nell’oggettività con cui ho un rapporto dialettico, il mio ruolo nel mondo non è soltanto constatare ciò che avviene, ma anche intervenire come soggetto di accadimenti. Non sono soltanto oggetto della Storia, ma anche il suo soggetto. Nel mondo della Storia, della cultura, della politica, non constato per adattarmi ma per cambiare. Anche nel mondo materiale, la mia constatazione non mi spinge all’impotenza. Le conoscenze sui terremoti hanno permesso di sviluppare un’intera ingegneria che ci aiuta a sopravvivere. Non possiamo eliminarli ma possiamo ridurne i danni. Constatando, diventiamo capaci di intervenire nella realtà, un compito incomparabilmente più complesso e capace di creare nuovi saperi rispetto al semplice adattamento. È anche per questo che non mi pare possibile né accettabile l’ingenuità, o peggio, l’astuta neutralità degli studiosi, siano fisici, biologi, sociologi, matematici o pensatori in ambito educativo. Nessuno può stare al mondo, con il mondo e con gli altri in modo neutrale. Non posso stare al mondo con i guanti, limitandomi a constatare. L’adattamento, per me, è soltanto un cammino verso l’inserimento, che implica decisione, scelta, intervento nella realtà. Ci sono domande da porre con insistenza che ci dimostrano l’impossibilità dello studio per lo studio. Dello studio svincolato dall’impegno, come se misteriosamente, all’improvviso, non avessimo niente a che fare con il mondo, un mondo esterno e distante, estraneo a noi quanto noi a esso.
A favore di cosa studio? A favore di chi? Contro che cosa studio? Contro chi studio?
Che senso avrebbe l’attività di Danilson nel mondo intravisto dal ponticello se, per lui, fosse già stata decretata, da un destino onnipotente, l’impotenza di quelle persone fustigate dalla povertà? A Danilson non resterebbe che lavorare per un possibile miglioramento della performance della popolazione nell’inesorabile processo di adattamento alla negazione della vita. La pratica di Danilson finirebbe per diventare l’elogio della rassegnazione. Tuttavia, nella misura in cui, per lui come per me, il futuro è problematico e non inesorabile, ci si presenta una sfida diversa. Problematizzando il domani, rendendolo visibile, quanto è visibile la carenza di ogni cosa in una favela, dobbiamo rendere ugualmente evidente che l’adattamento al dolore, alla fame, allo sconforto, alla mancanza d’igiene che l’io di ognuno sperimenta, nel corpo e nell’anima, è una forma di resistenza fisica che si aggiunge a quella culturale. Resistenza all’oltraggiosa negligenza inflitta ai poveri. In fondo, le forme di resistenza — fisica e culturale — sono inganni necessari alla sopravvivenza degli oppressi. Ad esempio, il sincretismo religioso afro-brasiliano esprime la resistenza e l’astuzia con cui la cultura africana degli schiavi si è difesa dal potere egemonico del colonizzatore bianco.
Tuttavia, dobbiamo trovare i fondamenti della nostra ribellione, e non della rassegnazione alle offese che distruggono il nostro essere, nella resistenza che ci mantiene in vita, nella concezione del futuro come problema e nella vocazione a essere di più in quanto espressione della natura umana in divenire. Non affermiamo noi stessi con la rassegnazione, ma con la ribellione di fronte alle ingiustizie.
Una delle questioni centrali che dobbiamo affrontare è trasformare posizioni ribelli in posizioni rivoluzionarie, per impegnarci nel processo radicale di trasformazione del mondo. La ribellione è un punto di partenza indispensabile, è la deflagrazione di una sana collera, ma non è sufficiente. La ribellione, come denuncia, deve evolversi fino ad assumere una posizione più radicale e critica, quella rivoluzionaria, che è fondamentalmente profetica. Cambiare il mondo implica una dialettica fra la denuncia della situazione disumanizzante e l’annuncio del suo superamento, vale a dire il nostro sogno.
A partire da questa consapevolezza fondamentale — cambiare è difficile, ma è possibile — possiamo programmare la nostra azione politico-pedagogica, a prescindere dal progetto nel quale ci impegniamo: alfabetizzazione degli adulti, dei bambini, intervento sanitario, evangelizzazione, formazione di manodopera tecnica.
Il successo di educatori come Danilson ha il suo baricentro nella certezza, che mai li abbandona, sec...
Indice dei contenuti
- Presentazione
- Lettera-prefazione a Paulo Freire
- Prima Parte: Lettere pedagogiche
- Seconda Parte: Altri scritti
- Bibliografia