FOCUS
GLI EVENTI
Si può in linea generale dire che il comune medievale, come forma specifica di autogoverno d’un nucleo demico, corrisponda a un fenomeno socio-istituzionale diffuso nell’Europa occidentale e centrale fra XI e XIV secolo, che però raggiunse un livello di sviluppo civile e di autocoscienza politica soprattutto nell’Italia centrosettentrionale, più specificamente nella pianura padana, nel Veneto occidentale e in Toscana: insomma, nell’ambito di quello che dall’VIII-IX secolo era stato il Regnum Italicum e che dal X, cioè dalla dinastia imperiale degli Ottoni, era istituzionalmente collegato al Regno di Germania e al Sacro Romano Impero.
Nel corso del X secolo il mondo euromediterraneo occidentale usciva da una lunga crisi climatica, demografica e sociale. Le esigenze relative all’organizzazione della sicurezza condussero a ripopolare e a fortificare i centri urbani, alcuni dei quali erano stati a lungo abbandonati o quasi. A differenza della città antica, che pure sviluppava forme di autogoverno ma che in generale era anzitutto un centro di consumatori, quella medievale si propose anche come un centro di produttori teso a instaurare con il territorio circostante un complesso rapporto d’integrazione e in certi casi di egemonia. Rispetto al mondo feudale, che continuava a convivere con quello cittadino ma che tra i secoli VIII e XI si era sviluppato sul dato obiettivo della rarefazione e della debolezza dei centri urbani, la città impose progressivamente la sua volontà e le sue necessità, che erano anzitutto quelle di libera circolazione lungo le vie di comunicazione e poi di espansione dei suoi mercati.
A sua volta, ai primi del XII secolo, il Regno di Germania si presentava come composto essenzialmente di quattro grandi ducati che si possono definire “etnici”, in quanto corrispondenti ai quattro popoli di stirpe germanica insediati sul territorio tedesco: i Bavari, i Sassoni, i Franconi e gli Svevi. Per tradizione, la corona reale di Germania si affidava elettivamente a un personaggio gradito ai quattro duchi, e che di solito era uno di loro: l’eletto, poi, veniva incoronato in Aquisgrana e assumeva il titolo di «re dei Romani», che significava che egli era legittimamente candidato alla corona imperiale. Per cingerla, però, bisognava scendere a Roma e farsi incoronare dal papa. Inoltre, dal X-XI secolo il re di Germania aveva anche diritto alle due corone reali d’Italia e di Borgogna. Questa somma di titoli e di corone faceva senza dubbio del re di Germania il sovrano più prestigioso dell’Occidente: in pratica, però, i suoi poteri erano molto limitati in quanto subordinato all’accordo fra i quattro duchi “etnici”, i loro grandi vassalli e le stesse città, che in molti casi (per esempio i ricchi e fiorenti centri urbani del Reno) facevano una politica indipendente guidata dai loro vescovi. Il che vale ancor più per le città italiane, che nell’XI secolo avevano spesso approfittato della disputa tra Papato e Impero per guadagnare ampi spazi di autonomia.
L’UNICITÀ DEI COMUNI ITALIANI
La continuità della vita cittadina, rispetto all’antichità romana e all’Alto Medioevo, e il rapporto stretto e non soltanto antagonistico con il territorio circostante sono i due elementi caratterizzanti del movimento comunale rispetto a quello europeo.
Nella storia d’Italia, si parla spesso di un “periodo comunale” grosso modo compreso fra XI e XIV secolo, ma accanto ad esso continuarono ad avere un grande peso le istituzioni feudali, mentre in aree come la Romagna o il Veneto si affermarono abbastanza presto (metà del Duecento) le Signorie.
È proprio nel X secolo – il secolo delle scorrerie ungare, normanne e saracene – che la vita comunale nelle città italiane si avvia. In quei centri di continuo sottoposti a pressione e a pericoli, si andò organizzando una sorta di “vita sociale d’emergenza” attorno all’unica magistratura che avesse ancora un potere spirituale (ma anche temporale) e un credito effettivo: quella vescovile. Attorno al vescovo si andarono ordinando i membri di un ancor embrionale ceto dirigente cittadino costituito, secondo i luoghi, da rappresentanti minori dei ceti feudali (i milites), da una “proto-borghesia” di cambiavalute, di mercanti, di artigiani, di armatori nelle città marinare, di professionisti di arti “liberali” come la medicina o il notariato. Furono questi i collegi di boni homines che circondavano il vescovo e lo coadiuvavano nelle funzioni di un governo temporale che in certi casi (quando il vescovo era, per concessione feudale, anche il signore temporale della città) gli spettavano, in altri si limitavano a riempire un vuoto decisionale che non poteva sussistere.
Ben presto però – in coincidenza con la lotta per le investiture, che nella seconda metà dell’XI secolo pose spesso in dubbio la legittimità dei poteri vescovili – i ceti dirigenti cittadini, fra i quali emergeva sempre più la piccola feudalità che si era inurbata, ma che non per questo aveva abbandonato i suoi possessi extraurbani (nel “contado”) e le sue attitudini guerriere (e perciò abitava in dimore urbane fortificate, le “case-torri”), acquistarono crescente coscienza di sé e del proprio ruolo nelle città: il che accadde talora con l’autorità vescovile, più spesso nonostante essa o contro di essa.
Questo sistema di governo cittadino si sviluppò proprio tra XI e XII secolo – in significativa e stretta coincidenza con la maturazione del nuovo sviluppo economico e commerciale delle città occidentali, specie di quelle affacciate sul mare – e colse anche la possibilità di tradursi in termini di diritto pubblico grazie al coinvolgimento, nel nascente movimento appunto definito “comunale”, di un forte e intraprendente ceto di giurisperiti. Le oligarchie cittadine costituite di possessores fondiari, di milites, che esercitavano però anche il commercio e nelle città marinare l’attività cantieristica e armatoriale, dettero pertanto luogo al sorgere di magistrature collegiali espresse dal loro stesso seno e quindi variamente riconosciute e legittimate dall’autorità episcopale e da quella regia esercitata per delega dai vari poteri locali: tali magistrati si dissero in genere consules. Essi venivano eletti in numero e per un periodo variabili da città a città ed erano in genere espressione delle famiglie più ricche e potenti. Le aristocrazie militari, i gestori delle attività commerciali e i ceti intellettuali furono i tre grandi protagonisti dell’impiantarsi della cultura comunale.
Non per tutti i Comuni è possibile fornire una data di nascita esatta, dal momento che la documentazione a riguardo è sporadica. Alcune città toscane, quali Lucca e Pisa, avevano un governo consolare già intorno al 1085; altre se ne dotarono nei due decenni successivi. Anche la compagine sociale non appare delineata con chiarezza: a Genova, dove la data di nascita del comune si pone nel 1099, abbiamo una compagna communis che unisce le diverse “compagne”, cioè le associazioni rionali dirette dalle famiglie eminenti di milites e imprenditori-commercianti. A Milano la prima attestazione di un governo consolare, del 1117, indica una compresenza di cives, capitanei e valvassores nella guida della città.
La primitiva organizzazione consolare postulava un governo ristretto, di maggiorenti: molto diverso da una completa espressione di volontà popolare. Tuttavia, presto le istituzioni comunali presero ad articolarsi e – accanto all’antico e tumultuoso “arengo” di origine germanica, l’assemblea dei liberi, nella quale tutti avevano diritto a discutere – si andarono ponendo ampi “Parlamenti”, “Consigli maggiori” e più ristretti “Consigli minori” (le espressioni possono essere differenti a seconda delle città), da cui vennero infine espressi i magistrati (in numero variabile a seconda delle città e dei periodi) che avrebbero dovuto guidare il comune e che, come detto, vennero chiamati “consoli”.
Il regime consolare era pertanto espressione di un assetto cittadino rigorosamente aristocratico ed elitario, dov’erano i ceti dirigenti a governare mentre quelli subalterni (piccoli artigiani, manovali, marinai o gente di cantiere nelle città di mare) non avevano praticamente voce.
La “libertà” comunale era tale se comunitariamente intesa, come libertà della città nel suo complesso, ma non aveva nulla del contenuto individualistico che noi siamo soliti conferire a questo termine. Il potere effettivo era nelle mani della élite delle famiglie della piccola feudalità dei dintorni, beninteso inurbane, che del resto controllavano anche la chiesa cittadina in quanto dal loro seno si esprimevano i “canonici”, cioè i membri del clero che serviva la chiesa cattedrale e che contribuiva all’elezione vescovile stessa. Due problemi fondamentali si ponevano dinanzi a questo ceto dirigente: da una parte la conquista del contado, che si traduceva in un continuo rafforzamento del Comune in quanto i feudatari vinti venivano obbligati a risedere almeno per una parte dell’anno in città, a divenire cittadini e cioè a sommare il loro potere feudale – al quale non rinunziavano – al potere comunale; dall’altra il riconoscimento formale delle superiori pubbliche autorità, anzitutto dell’imperatore romano-germanico che era la sola fonte di diritto pubblico legittima in Occidente.
Un momento fondamentale, nella vita di tutti i Comuni cittadini, fu dunque l’espansione dell’autorità civica nei singoli contadi circostanti, il che condusse in un primo tempo a una serie di conflitti con le limitrofe signorie feudali (rispetto alle quali molti milites membri delle famiglie di rango consolare, che nel contado possedevano appunto le loro terre, avevano rapporti vassallatici o parentali) e quindi a contrasti tra città e città, che appunto la dinamica della progressiva egemonia sui contadi aveva reso confinanti. Tuttavia, all’interno del Comune il governo consolare era tutt’altro che una concorde compagine: tra le famiglie aristocratiche serpeggiavano inimicizie, rancori, sentimenti ostili, rapporti basati su quello che era l’antico diritto-dovere dei guerrieri germanici, la vendetta.
Per rimediare in una qualche misura alle cose, dalla seconda metà del XII secolo in poi, un po’ in tutte le città comunali, al regime consolare se ne andò sostituendo un altro, basato sull’istituzione di un solo funzionario – di solito forestiero, in modo che non fosse coinvolto nelle lotte cittadine – detto podestà.
Tale governo, pensato come una sorta di regime di emergenza, non risolse però tutti i problemi interni alle città comunali; le quali nel frattempo – dopo aver conquistato i circostanti contadi e in molti casi anche i centri minori ad esse vicini – si erano date a guerreggiare fra loro per contendersi i mercati e stabilire l’una a danno dell’altra la propria superiorità nella regione. Nacquero così le rivalità che avrebbero caratterizzato la storia comunale: tra Firenze e Pisa, tra Firenze e Siena, tra Bologna e Modena, tra Padova e Verona e così via.
I COMUNI NELLE CITTÀ D’OLTRALPE
L’elemento che distingue la civiltà comunale italiana da quelle d’Oltralpe è il differenziarsi delle società consolari dei centri della Penisola rispetto ai burgenses che, in Francia in Fiandra o in Germania (dove, con poche eccezioni, le aristocrazie militari non sembrano aver partecipato al movimento, né aver messo piede nella cinta urbana come cittadine), ottennero in genere un’autonomia “concessa” – e puntualmente circoscritta da appositi documenti – dai principi e/o dai prelati cui spettava il legittimo governo. Bisogna però ricordare che, quando si parla di “Italia comunale”, ci si riferisce solo alla sua compagine centro-settentrionale: il Sud, le cui città costiere avevano cominciato uno sviluppo precoce, che data già al periodo di passaggio tra X e XI secolo, continuarono a rivestire un ruolo economico importante, ma videro le loro pretese autonomistiche bloccate dalla formazione del regno unitario normanno nel XII.
L’aristocrazia feudale franco-settentrionale o tedesca diffidava in genere dei centri urbani e li disprezzava, e fin dall’inizio si rifiutò di entrare con essi in un rapporto che non fosse di estraneità o di conflitto.
La città, in quelle aree, si affermò e permase come fenomeno essenzialmente legato ai ceti imprenditoriali o mercantili. Vi affiorò ben presto una stratificazione in maiores, mediocres e minores, e il potere si accentrò nelle mani delle corporazioni commerciali (“ghilde”) più ricche, le quali strappavano al sovrano o al signore feudale nella cui circoscrizione la città sorgeva dei diplomi di autonomia, talora pagati, economicamente parlando, assai cari, talaltra rilasciati addirittura dopo vere e proprie sedizioni.
In Fiandra, la città acquistò autonomia politica sulla base di patti fra le “carovane” di mercanti (le hanse), le ghilde dei produttori locali e l’autorità signorile (ecclesiastica o laica) alla quale ufficialmente spetterebbe il governo della città.
Anche sul piano urbanistico si nota questa dicotomia, in quanto la città è costituita da un complesso ordinato su due nuclei, la fortezza signorile e il borgo mercantile. Il movimento ebbe inizio piuttosto presto, intorno agli anni Settanta del secolo XI, senza tuttavia una vera e propria istituzionalizzazione, che sarebbe arrivata solo più tardi. Anche nella Francia del Nord, la seconda metà del secolo XI vide formarsi alcuni Comuni, fra i quali Le Mans, Cambrai, Beauvais. Al pari delle Fiandre, però, non si trattava ancora di concessioni ufficiali di autonomia, quanto piuttosto dei segni iniziali di un movimento che avrebbe portato nel giro di alcuni decenni a forme di Comune paragonabili al modello delle Fiandre; a capo del governo cittadino non vi erano consoli, come in Italia, ma “scabini”, figure di giurisperiti, spesso provenienti dall’entourage dei signori.
Una particolarità dell’area compresa tra le Fiandre e la Francia centro-settentrionale sta nella coesistenza tra Comuni nei quali una coniuratio, cioè un’associazione giurata, veniva specificatamente riconosciuta dalle autorità – un re o un signore – per mezzo di un diploma, detto nelle fonti charte de commune. Un numero maggiore di città disponeva invece di chartes de franchises, cioè “carte di franchigia”, termine che dall’antico dialetto francone si riallaccia al termine frank, «libero». Nel Sud della Francia, diversamente, le cosiddette ville de consulat vissero una prima fase simile a quella italiana, ma il diverso sviluppo e la capacità di controllo della monarchia, nonché la concorrenza delle città italo-tirreniche, non consentirono mai alle città del Midi un’evoluzione paragonabile.
Ancora diverso il caso delle città tedesche, che giunsero a uno stato intermedio tra le città vescovili e quelle comunali. Nel corso dei secoli precedenti, in molte città tedesche i vescovi avevano assunto un ruolo centrale; tuttavia, della lotta che aveva visto affrontarsi il Papato e l’Impero, riuscirono ad approfittare i poteri laici locali: tanto le dinastie ducali quanto i forti nuclei mercantili trovavano un interesse comune nell’espansione territoriale e commerciale verso nord e verso est. Le città raggiunsero quindi forme di autonomia utili a favorire tali sviluppi, ma rimasero pur sempre inquadrate nell’ambito di poteri superiori di diversa natura:
la Germania conobbe così la coesistenza di città vescovili, di città territoriali, soggette a principi o signori, infine di centri urbani posti direttamente sotto la tutela regia.
L’ASCESA DI FEDERICO I
Alla morte di Enrico V di Franconia, che aveva sottoscritto il concordato di Worms con Papa Callisto II, non si era riusciti a trovare un accordo: la nobiltà tedesca si divise in una fazione favorevole ai duchi di Baviera e perciò detta guelfa (da un Welf ch’era il capostipite della famiglia ducale bavarese) e una favorevole invece ai duchi di Svevia, che avevano ereditato la politica degli imperatori della casa di Franconia, e detta perciò ghibellina (dal castello di Waiblingen, uno dei più importanti posseduti dalla famiglia degli Hohenstaufen, detti anche Staufen o Staufer, che grazie al favore di Enrico IV si era vista assegnare il ducato di Svevia). Il titolo di re di Germania, e quindi di imperatore, fu dapprima attribuito a Lotario di Supplimburgo, duca di Sassonia, che era appoggiato dai bavaresi. Questi regnò dal 1125 al 1137, e non soddisfece la nobiltà tedesca anzitutto perché troppo arrendevole nei confronti di Papa Innocenzo II, che appoggiò contro il duca normanno Ruggero, il quale si era proclamato re di Sicilia (la Sicilia era considerata feudo pontificio, e il papa non gradiva questa proclamazione) e a cui cedette i diritti sull’eredità che Matilde marchesa di Toscana aveva lasciato alla Chiesa, nonostante essa – in quanto feudataria dell’Impero – non avesse diritto di far liberamente testamento né di disporre di quei beni che, in quanto feudali, le appartenevano solo sul piano del possesso, ma non su quello della proprietà.
Nel 1137, i nobili tedeschi preferirono quindi scegliere il successore di Lotario nella persona del suo avversario, Corrado di Svevia. Ma anche questi deluse le loro aspettative: non riuscì a pacificare gli animi, e abbassò il prestigio della corona tedesca nella Seconda crociata (1147-49) che fu un grave insuccesso. Alla scomparsa di Corrado, nel 1152, i princi...