PANORAMA
LO SCENARIO
Come dice lo storico Andrea Giardina, uno dei più grandi rivoluzionari del mondo antico fu Augusto, laddove il termine «rivoluzionario» si riferisce a quella «rivoluzione passiva» – espressione coniata nel Settecento da Vincenzo Cuoco, storico, giurista e patriota (partecipò alla rivoluzione napoletana del 1799) – con la quale si intende una «rivoluzione senza rivoluzione», senza l’apporto delle masse e il ricorso al terrore, in grado di imporre dall’alto profonde trasformazioni in un sistema politico dilaniato e senza più prospettive.
Il capolavoro politico del primo princeps romano fu infatti la creazione di un Impero sotto le mentite spoglie della prosecuzione della Repubblica. Perché i Romani volevano continuare a essere cittadini, ma non sudditi. Ha scritto lo storico del diritto Riccardo Orestano:
“SI TRATTA DI UNA FIGURA ORDINAMENTALE SUI GENERIS, IL CUI VOLTO SI VERRÀ PRECISANDO PER GRADI, MA CHE SIN DALL’INIZIO VIENE AD ASSUMERE UNA POSIZIONE DI ASSOLUTA PREMINENZA DA RICONDURRE AD UN’AUTORITÀ DI FATTO, CHE AUGUSTO STESSO IN DEFINITIVA AFFERMAVA ESSERE STATA L’ESPRESSIONE E IL FONDAMENTO PIÙ ALTO DI TUTTA LA SUA ATTIVITÀ.1”
La sua grande abilità fu infatti quella di assumere la massima autorità senza dotarsi di poteri tecnicamente superiori a quelli previsti dalle leggi. Come commentava un altro giusromanista, Emilio Betti: «come Augusto sostituisce il consolato con la tribunicia potestas, così sostituisce l’imperium consulare con l’imperium proconsulare infinitum […] ma non è proconsole come non è tribuno».2 E lo stesso princeps sottolineò, nel suo testamento spirituale, le Res Gestae Divi Augusti, di essere stato superiore agli altri «per autorità».
Fu, in un certo senso, un Gattopardo al contrario. Se nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa il nipote del protagonista, Tancredi Falconeri, pronuncia la celebre frase: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», Augusto fece l’opposto, finse di non voler cambiare nulla affinché tutto si modificasse. La famosa «rivoluzione passiva», appunto.
Quando nacque Ottaviano era iniziato da oltre vent’anni il periodo più sanguinoso e drammatico della storia di Roma, quello delle guerre civili. Ne visse da protagonista l’ultima parte e infine le consegnò al passato. Divenuto Augusto, trasformò, come disse, i mattoni in marmo – riferendosi alla città di Roma; ma non è difficile scorgervi anche una metafora che riguardava la stessa struttura dell’Impero –, trasfigurò l’inarrestabile sviluppo militare e civile dell’Urbe nel mondo, avvenuto in maniera spontaneistica e non strategica, in una dimensione sacrale, mitica e ideologica.
L’operazione ideologico-culturale-sociale di Augusto si concretizzò, tra le altre cose, nel rifondare una religione – qualcosa di simile alla Volksreligion di cui milleottocento anni dopo avrebbe parlato Hegel – quale «religione di popolo» che riuniva le istanze politiche, sociali e civili nel nome degli antichi valori della Romanità – i mores maiorum, calpestati dalle guerre intestine – e della quale il princeps si presentò come il massimo rappresentante, compiendo un’identificazione della sua auctoritas nell’auctoritas di Roma. Così, trovò legittimazione al suo regime nel passato e nello stesso tempo portò avanti un processo che rendesse indistinguibili i principi universali della Romanità dalle inclinazioni, le passioni, le esigenze dei cittadini. Si trattò di un sentimento religioso che pareva scaturire dalla stessa storia di Roma vivificandone la vita quotidiana, anziché imporsi, dall’alto di un mondo trascendente e inaccessibile, con i propri “comandamenti”. Questa religione fu in grado di dare coesione non solo a Roma e alla penisola italica, ma a tutto il suo vasto Impero, come nessun’altra strategia avrebbe mai potuto.
Nacque così la “mistica della Romanità”, destinata a influire profondamente per secoli su tutto l’Occidente, insieme a quell’altra religione, sorta come culto salvifico di popolo e di comportamenti, che – forse non tanto casualmente – comparve proprio durante il principato di Augusto per affermarsi a Roma nei secoli successivi: il cristianesimo. E che nel giro di poco tempo si sarebbe poi fuso con la “religione di popolo”, dando vita a una forza invincibile che non si manifestò soltanto con il concetto di Sacro Romano Impero, protagonista delle vicende storiche dell’Europa fino a due secoli fa, ma anche come insieme di valori fondanti della stessa civiltà occidentale.
Molto abilmente, Augusto cercò di evitare il rischio di un “culto della personalità” per la sua immagine (di cui avrebbe peraltro inflazionato l’Impero) facendola apparire più come simbolo della nuova pace fra uomini e dèi che come rappresentazione di un personaggio reale. Come sottolinea lo storico Giovanni Brizzi dell’Università di Bologna:
“OTTAVIANO AUGUSTO DOVEVA SOSTENERE UN POTERE PERSONALE CONTRO CUI, IN PASSATO, SI ERA LEVATO AD ESEMPIO CATONE IL CENSORE, RIVENDICANDO LA SUPERIORITÀ SULL’INDIVIDUO DEGLI ORDINAMENTI, E IN PARTICOLARE DI QUEL SENATUS POPULUSQUE ROMANUS CHE TRASMETTEVA IL POTERE AI MAGISTRATI IN VIRTÙ DEI SUOI AUSPICIA, IL CONSENSO DEGLI DÈI.”
Riuscì nell’intento e, come aggiunge Brizzi, «organizzò così l’impianto ideologico attorno a cui ruotava la nozione di saeculum Augustum, di epoca sacrale augustea. La sua propaganda seppe costruire una vera e propria palingenesi cosmica, immaginando la rinascita del mondo attraverso un nuovo patto con gli dèi; una nuova pax, una sorta di Nuova Alleanza».3
Il suo disegno politico si manifestò con tutti gli strumenti possibili, dai monumenti alle innumerevoli statue che lo raffiguravano – e che spuntavano in ogni parte dell’Impero, dalle piazze alle case private – dalle opere letterarie alla monetazione; operazione, quest’ultima, efficacissima per far circolare la sua immagine nel modo più rapido possibile in un territorio popolato in massima parte da analfabeti. Fino a quel momento i diversi Paesi sottomessi all’Urbe avevano potuto coniare proprie monete; con Augusto questa consuetudine cambiò, come era già avvenuto con Alessandro Magno, che aveva imposto la dracma nell’Impero macedone. E proprio come Alessandro, Augusto fece fondare oltre una quindicina di città che portavano il suo nome: Augusta Praetoria (Aosta), Augusta Taurinorum (Torino), Augusta Treverorum (Treviri), Augusta Emerita (Mérida), Augusta Allobrogum (Ginevra) e tante altre.
L’altra faccia della medaglia del mito augusteo fu un assolutismo morbido, anche scenografico, bonapartista, che però poteva respingere e soffocare, anche se non in modo cruento, ogni tendenza al cambiamento. Come spiega la storica Eva Cantarella:
“SE QUALCUNO AVEVA OPINIONI POLITICHE DIVERSE DALLE SUE LE RISPETTAVA: SI RACCONTA, AD ESEMPIO, CHE EGLI CHIAMASSE AFFETTUOSAMENTE TITO LIVIO «IL MIO REPUBBLICANO». MA CON COLORO CHE PROPONEVANO IDEALI E MODELLI DI VITA INCONCILIABILI CON I SUOI, CHE UN’ABILISSIMA INCESSANTE PROPAGANDA CONTINUAMENTE ESALTAVA, IL SUO ATTEGGIAMENTO FU TUTT’ALTRO CHE TOLLERANTE.4”
Lo dimostra, prosegue la studiosa, «il suo comportamento con Ovidio...