Alfieri
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Informazioni su questo libro

Vittorio Alfieri dette nuova vita, nella seconda metà del Settecento, al teatro tragico italiano, latitante da tempo sulle scene. Un teatro dove «gli uomini debbano imparar a essere liberi, forti, generosi, amanti della patria, ardenti, retti, magnanimi», con riferimento anche alle condizioni di un'Italia sottomessa al giogo straniero. Al centro dei fondamentali motivi-guida della sua complessa poetica tragica sono i tiranni, proiezione e strumento temibile e terribile del male e della perversità, quali forze oscure che travalicano la ragione umana. Un concetto che in alcune opere si allarga ai conflitti del cuore e della mente, della ragione e del sentimento, ma sempre in un'ottica che vede la ribellione dell'individuo contro le forze del male, la lotta dell'«innocenza oppressa» contro la tirannide del destino. Al di sopra di questi conflitti si eleva il drammaturgo, con la sua inviolabile libertà di pensiero e di azione e cui Alfieri attribuisce il compito di indicare agli spettatori la strada verso la coscienza civile.

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Informazioni

FOCUS

IL SUO MONDO E LE SUE IDEE

Nel complessivo svolgimento della visione del mondo e delle scelte letterarie di Vittorio Alfieri alcune fasi iniziali determinate da concrete, precoci esperienze, che influenzano, si direbbe in modo inconsapevole, il suo carattere, vanno tenute distinte da altre, vissute successivamente, che investono invece da vicino l’affrettata e quasi forzata crescita della sua cultura letteraria, nutrita di fondamentali presupposti della tradizione classicistica: fasi che spesso sono anche di formazione e acquisizione degli strumenti linguistici ed espressivi specifici e funzionali al suo lavoro di scrittore.
I primi segnali però di questa maturazione culturale e ideologica e letteraria consapevolmente perseguita si possono solo riconoscere negli iniziali anni Settanta del secolo XVIII; anni che coincidono con la prima consapevole assunzione da parte dello scrittore e con le prime avvisaglie di crisi del cosiddetto dispotismo illuminato in Europa.
Le fasi fondamentali del suo percorso esistenziale e letterario sono molto articolate nei loro progressivi sviluppi ed è pertanto utile individuarne e scandirne i principali momenti, senza mai però dimenticare che in ognuno di essi vengono comunque a emergere scelte intellettuali o di poetica e di ricerca di strumenti linguistici ed espressivi destinate ad assestarsi, gradualmente, a livelli sempre più alti o più complessi rispetto al punto di partenza.
Per fare solo un esempio, si pensi, nella scrittura teatrale alfieriana, alla ricerca di uno specifico, esclusivo linguaggio, che investe la conquista di sempre più importanti idee, politiche, morali e filosofiche, ma anche di stile, di metrica e di prosodia nella costruzione di un originale verso tragico, che si realizza e si perfeziona attraverso la non casuale e incessante composizione di stesure e versificazioni.
All’inizio va individuata una fase preliminare, che dura dall’infanzia alle soglie della giovinezza, quando il futuro tragediografo termina gli otto anni di accademia militare, e che è seguita da quella dei due lunghi viaggi europei, iniziati rispettivamente nel 1765 e nel 1769, in cui egli avverte un’acutissima, ancor oscura coscienza di vuoto spirituale e di forti carenze culturali, anche a causa di limiti imposti dal suo primo idioma, quello francese.
Come si dirà più avanti, nel 1790, il poeta avvierà la composizione della Vita scritta da esso, rivisitando la sua biografia in funzione del punto di arrivo della personale storia di pensatore e di scrittore, non senza qualche contraddizione.
È una narrazione ampiamente contrassegnata dalla negazione fermissima dell’impostazione formativa e culturale della sua vita fino alla prima giovinezza – anche per reazione a modelli educativi per lo più subìti contro voglia – e dalla volontà ferrea di recuperare il tempo perduto nel conquistare un’educazione linguistica legata alla più alta tradizione italiana:
aspetto, questo, notevolissimo, dal momento che inizialmente egli legge in francese e fruisce di tale lingua già in alcune prime esperienze culturali (come, per esempio, nell’assistere ad alcune rappresentazioni teatrali a Torino eseguite da compagnie d’oltralpe); e sempre in francese avvia pure qualche prematura sua prova letteraria.
Ciò non toglie che già nella prima adolescenza avvii pure casuali letture anche di autori italiani: Ariosto, il Virgilio italianizzato da Annibal Caro, e Goldoni e Metastasio (a imitazione del quale, oltre che del poeta del Furioso, l’Astigiano abbozza a soli 13 anni, i suoi primi versi, che in età adulta egli stesso bollerà come «rifrittume»).
Accade però che, di lì a qualche anno, proprio nei viaggi, a cui s’è appena accennato, in modo per la prima volta consapevole, egli venga a procurarsi, per lo più acquistandoli e in qualche caso ricevendoli in dono, i primi libri e scritti in vario modo per lui fondamentali: in particolare, le opere di Machiavelli, dono di José Vasques da Cunha, ambasciatore portoghese a L’Aia, dove pure si procura i dieci piccoli tomi dell’edizione londinese dei Saggi di Montaigne, che costituiranno un vero e proprio viatico intellettuale e morale, le Vite parallele di Plutarco e volumi di rinomati filosofi contemporanei come Montesquieu, Helvétius, Rousseau o Voltaire. Come dire che già nella precoce esperienza del viaggiare comincia a formarsi, almeno in embrione, quella che diventerà la sua ricca e preziosa biblioteca personale.
Del resto nei suoi viaggi giovanili è divorato da grande curiosità intellettuale, che riesce a esaudire solo in minima parte, finendo spesso per accentuare, nello squilibrio acuto tra il suo desiderio di conoscenza e le numerose situazioni di inerzia e di monotonia inevitabili nel viaggiare, un senso di vuoto esistenziale, di inutilità e noia e umore malinconico.
E questo vivissimo desiderio di arricchimento intellettuale si rivela anche nel secondo, più lungo viaggio europeo nella primavera del 1769 verso l’Austria (Vienna, in particolare), l’Ungheria, i Paesi baltici e poi, di nuovo, in Olanda, in Francia (dove acquistò, apparsa presso il libraio-editore Marcel Prault, una raccolta di versi e prose di autori della letteratura italiana), in Spagna e in Portogallo, a Lisbona, dove ebbe un incontro decisivo per la sua futura formazione letteraria e per la sua attività di scrittore, non solo di teatro, venendo a conoscere personalmente l’abate Tommaso Valperga di Caluso, biblista coltissimo, classicista e raffinato cultore di Virgilio, che lo incoraggiò molto e lo esortò a rafforzare decisamente la sua vocazione: una figura anche di grande levatura morale alla quale l’Astigiano resterà legato per tutta la sua vita e dedicherà la tragedia Saùl.
Si devono far risalire all’inizio degli anni Settanta, insieme a una evidente maturazione letteraria e culturale, come s’è detto, i primi segnali dell’aspirazione di Alfieri alla scrittura creativa, non senza desiderio di fama e di gloria, di cui, qui di seguito, si ricordano le maggiori tappe iniziali, soprattutto per dar conto dell’intreccio profondo che esiste tra i singoli lavori in versi o in prosa e i modelli letterari via via da lui prescelti, a cominciare da quelli, autorevolissimi, di scrittori classici antichi come il già ricordato Plutarco o come i latini Virgilio, Orazio e Seneca, nonché di poeti italiani tra i massimi, come Dante, Petrarca o Tasso.
Trascurando alcune acerbe prove di un autore che nella Torino di Vittorio Amedeo III, da poco insediatosi sul trono, fonda insieme ad alcuni coetanei aristocratici la cosiddetta Société des Sansguignon (dei Senza-ubbìa) e abbozza in francese tra il 1773 e il 1774 pure un tentativo in chiave satirica (la prima parte dell’Esquisse du Jugement Universel, Cenni sul Giudizio Universale), opera di un qualche rilievo, divisa in tre sezioni, in cui prende di mira noti personaggi e cortigiani della Torino dell’epoca e che poi qualche tempo dopo rinnegherà come «Prime sciocchezze sc[h]iccherate […] da un Asino, scimiotto [sic] di Voltaire».
Nell’Esquisse l’autore, non senza autoironia, ritrae e prende di mira anche se stesso avviando, dopo il Giornale del 1777 (ma iniziato alla fine del 1774 come diario in francese e in cui parla, tra l’altro, di «salutare esame di me stesso»), la vocazione all’autoritratto (il «sublime specchio» di un notissimo sonetto), che culminerà nella sua celebre autobiografia.
Se la rottura definitiva con il Piemonte sabaudo avverrà di lì a poco, con la donazione delle proprietà feudali alla sorella Giulia e col rifiuto di continuare a essere suddito del re di Sardegna, l’avvio come autore tragico va registrato a partire da gennaio 1774 (data apposta in seguito dall’autore sul manoscritto) con l’abbozzo in prosa dell’atto primo della Cleopatra, a cui segue, in data 2 febbraio, la relativa versificazione della tragedia stessa che, a distanza di un anno, viene sottoposta al parere del dotto padre teatino, Paolo Maria Paciaudi, il quale – incoraggiandolo – gli consiglia la lettura delle più rinomate opere teatrali italiane, anche con l’intervento di un definitivo avanzamento nella padronanza della lingua letteraria.
Questo lavoro scenico, che, col titolo definitivo Antonio e Cleopatra – insieme al suo componimento satirico I poeti – sarà rappresentato il 16 giugno 1775 al teatro Carignano di Torino, riflette anche più di un aspetto autobiografico (a cominciare dalla passione, durata un anno o poco più, per la nobildonna Gabriella Falletti di Villafalletto).
Anche se in seguito pure questa prova verrà dall’autore rinnegata, non c’è dubbio che l’avvio e il destino di Alfieri come scrittore di teatro vengono irreversibilmente segnati già in questo torno di tempo, in cui infatti – di impeto – abbozza, tutti insieme, ancora in francese, l’idea di tre nuovi lavori teatrali: Filippo, Polinice, e Charles Premier, facendone poi seguire, sempre in francese, la stesura in prosa.
Charles premier, però, rimarrà incompiuto, fino all’inizio del terzo atto: un frammento, questo, concernente la figura di Carlo primo, avversato dall’ambizioso Cromwell; un monarca di vocazione assolutista, ma descritto di cuore nobile e generoso, destinato a essere sconfitto, processato e giustiziato in seguito alla guerra civile in cui culmina la Rivoluzione inglese. A Carlo primo Alfieri dedica la tragedia Agide, nome del re dell’antica Sparta, precisando tuttavia «che de’ simili alla Maestà Vostra, molti altri re ne sono stati e saranno; ma de’ simili ad Agide, nessuno giammai».
Il condizionamento dell’uso della lingua francese si ripercuote ancora sulla stesura in prosa delle prime tragedie riconosciute, Filippo e Polinice, e riflette nell’Astigiano una non ancora del tutto compiuta conquista della lingua italiana, e di quella letteraria in primo luogo: egli intensifica infatti le sue letture, a cominciare dai «quattro gran luminari» della poesia italiana, cioè Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, aggiungendovi la Tebaide di Stazio tradotta da Cornelio Bentivoglio e non poche opere drammaturgiche d’impronta classicista. Questo spiega perché, in tempi recenti, nella biblioteca in un primo tempo smarrita di Alfieri si notano molti dizionari e trattati grammaticali per tutte le lingue (molti anche i testi concernenti le lingue classiche).
Rientrato a Torino, riprende il lavoro di composizione tragica, dando veste versificatoria al Filippo e al Polinice, ma anche l’attività di studio, a cominciare dagli autori italiani del Trecento.
Nell’ottica di una immersione sempre più intensa e forte verso le radici della lingua e della letteratura italiane, nel 1776 Alfieri compie un viaggio in Toscana, dove conosce personalmente anche cattedratici dell’Università di Pisa e dove pure abbozza l’idea di un’altra tragedia, Antigone (che sarà però versificata a Siena nel giugno 1777). Legge inoltre in latino le Satire di Giovenale, lasciando postille autografe sul testo edito a Birmingham nel 1761, e traduce l’Ars poetica di Orazio, ampi brani del Seneca tragico, oltre che per esercizio metrico e prosodico, anche per esercizio stilistico e tematico (si pensi a tragedie quali Agamennone e Oreste, che verranno avviate a Siena l’anno successivo e che denotano per vari tratti richiami al modello senecano).
Sempre in Toscana, a Firenze, a inizio estate, continua a lavorare sul Filippo e concepisce e mette mano alla composizione del Don Garzia. Rientrato a Torino, insiste nella sua ricerca di un modello di lingua tragica che fosse «sì maschia anco ed energica e feroce […]» come quella dell’Alighieri: un richiamo che, almeno per le tragedie, non è comparabile con quello a Petrarca, la cui presenza sarà sempre sotto traccia in Alfieri fino alle Rime, ma in uno stile assai meno regolare e lontano dalla levigata e tornita forma del cantore di Laura.
Ne è prova anche l’alfieriano Estratto di Dante, che investe una scelta assai fitta di versi condotta fino ai primi mesi del 1777, che è contestuale alla ricerca di un modello di prosa di massima asciuttezza e incisività, nonché di uno stile di energiche passioni, che lo porta pure, tra il 1775 e il 1778, a tradurre dallo storico latino Sallustio, e poi, poco più di due mesi più tardi, durante un nuovo viaggio in Toscana, da alcuni capitoli di Tito Livio, fonte, in particolare, della tragedia Virginia, cominciata a Siena in maggio-giugno 1777.
Prima della stesura in prosa nel settembre di quello stesso anno, tra il 29 luglio e il primo settembre, il poeta abbozza il trattato Della tirannide. A Siena nell’estate del 1777 incontra il coltissimo mercante Francesco Gori Gandellini, cultore di belle arti, personaggio fondamentale per la maturazione degli ideali antitirannici e libertari di Alfieri (si pensi, oltre alle prime quattro odi dell’America libera composte nel dicembre 1782, almeno alla Congiura de’ Pazzi), il quale gli resterà in modo particolare molto legato fino alla morte di lui (settembre 1784). La conoscenza e l’amicizia del Gori s’inseriscono in un momento fondamentale per l’iter creativo e per l’evoluzione intellettuale e ideale di Alfieri, che tocca un momento cruciale nel suo soggiorno nel 1779 a Firenze, dove, tra l’altro, legge Virgilio e ritrova Valperga di Caluso.
Ma si resti alla fine degli anni Settanta. A Firenze pure intensifica ancor più, se possibile, l’ideazione e la composizione (stesura e versificazione), senza trascurare anno dopo anno altre sue composizioni in versi e in prosa.
All’amico Francesco, va ricordato, Vittorio dedicherà post mortem l’originale e sofferto dialogo La virtù sconosciuta che vedrà la luce solo nel 1788: opera importantissima soprattutto per l’inedita definizione, tutta alfieriana, del concetto del «forte sentire»: «[…] una liquida e sottile infiammabile qualità, che per ogni nostra vena e fibra trascorre […]».
Il «forte sentire», in mancanza del «forte operare», viene a sublimarsi in un sentimento dirompente dell’espressione estetica definito «bollor del creare».
Sempre nel soggiorno fiorentino del 1779 avviene l’incontro determinante per la vita e per l’opera del tragediografo astigiano: quello con la principessa Luisa di Stolberg-Gedern e contessa d’Albany, moglie di Charles Edward Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra, alla quale resterà molto teneramente legato per sempre: «Degno amore mi allaccia finalmente per sempre».
Donna coltissima e raffinatissima, la contessa d’Albany sarà ispiratrice molto influente dell’attività del tragediografo, il quale non a caso, probabilmente anche in virtù di questa felicissima congiuntura sentimentale, con slancio e straordinarie energie intraprende nel nuovo anno (1778) una serie notevole di nuove opere: mette mano infatti alla verseggiatura delle rispettive stesure in prosa delle tragedie Virginia e Agamennone, dà inizio in prosa come sempre, ad altre due tragedie, La congiura de’ Pazzi, che risale alla storia dei Medici, e Agamennone. Mediceo è anche l’argomento del poema L’Etruria vendicata avviato pure in quello stesso torno di tempo.
È dunque evidente che proprio verso la fine degli anni Settanta viene a compiersi la maturazione del tragediografo e scrittore di genio, il quale non si limita solo all’impegno di composizione tragica o di compilazione di prose politiche o morali, ma sembra voler direttamente investire del suo progetto teatrale anche gli attori, assumendo un ruolo di regia.
Arrivò a prestare se stesso come protagonista, nei panni del tiranno Creonte, in una memorabile recita della sua tragedia Antigone allestita il 20 novembre 1782 a Roma «nel Palazzo dell’Ambasciatore di Spagna»: episodio quanto mai sintomatico se si pen...

Indice dei contenuti

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Tragedie in cerca di spettatori
  6. PANORAMA
  7. FOCUS di Giuseppe Antonio Camerino
  8. APPROFONDIMENTI
  9. Piano dell’opera