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D'Annunzio
Informazioni su questo libro
Gabriele D'Annunzio creò, tra Ottocento e Novecento, un nuovo tipo di letteratura, in cui superò le correnti culturali europee dell'epoca per approdare a uno sperimentalismo linguistico che aveva come connotato la ricerca della bellezza, quale antidoto nobilitante a una società materialista e gretta. La poesia dannunziana, considerata a lungo come una prova assoluta di disimpegno e di pura evasione, esalta in realtà il potere accordato alla parola e diviene vivificatrice e formatrice della persona e delle sue fondamentali coordinate culturali, come testimonia l'apprezzamento che ricevette all'estero. La sua opera, da qualche tempo rivisitata e spogliata della retorica del personaggio D'Annunzio – di cui fu il minuzioso artefice e che finì per nuocergli –, viene ora riconosciuta come uno dei maggiori contributi alla modernità letteraria europea.
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
Critica letteraria italianaIL SUO MONDO E LE SUE IDEE
DAL GESTO AL TESTO
Da qualche tempo (2013) si è archiviata la ricorrenza dei 150 anni dalla nascita di Gabriele D’Annunzio: da Gardone a Pescara, da Verona a Venezia e in tante altre città, non solo italiane, è stato un susseguirsi di eventi, di mostre, di pubblicazioni e di convegni di studio che hanno indubbiamente arricchito il bagaglio delle conoscenze su una figura che continua a stupire e che costituisce ormai un classico del Novecento.
Questo fervore di interessi legati alla circostanza va però collegata, come giusta conseguenza, a quanto registrato negli ultimi anni, cioè al mutamento di rotta avvenuto nel giudizio su D’Annunzio, considerato non più, come una volta, solo dal versante del personaggio e della sua ingombrante “gestualità”, ma anche, finalmente, da quello del testo. Si è innescato insomma quel processo di ridefinizione del fenomeno D’Annunzio che va sotto il nome di “Dal gesto al testo”, una nuova visione alimentata dai principali e più accreditati studiosi dell’opera dannunziana. Tutto ciò significa attenuare, senza escluderla del tutto, la suggestione dell’uomo, protagonista di una «vita inimitabile» in fastose residenze popolate di donne e di levrieri, rimettendo a fuoco il valore della sua scrittura, del suo incessante sperimentalismo che lo ha portato ad attestarsi tra i più significativi autori della letteratura europea.
Non c’è dubbio infatti che D’Annunzio sia uno dei pochi scrittori italiani che hanno portato l’Italia in Europa e l’Europa in Italia.
Tutti i pregiudizi dovrebbero cadere sapendo quello che ne pensavano autori come Proust, Hofmannsthal, Musil, Joyce, Hemingway, Gide, per citarne alcuni; Proust peraltro lo collocava in una rosa di autori imperituri accanto a Ibsen, Renan, Dostoevskij, Tolstoj. Ben altro che il provincialismo di cui i soliti detrattori autolesionisti accusavano la letteratura italiana.
Riguardo al suo sperimentalismo storico è bene sottolineare che quando l’Italia era dichiaratamente carducciana, D’Annunzio virava verso l’Europa con il simbolismo di Canto novo; quando l’Italia, alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, vedeva fiorire il romanzo naturalista (si pensi al Mastro-don Gesualdo di Verga), nello stesso anno usciva Il Piacere, che si attestava come il primo romanzo moderno; allorché il teatro italiano languiva nel salotto piccolo-borghese, D’Annunzio sperimentava un nuovo teatro con un ritorno all’antico che prevedeva la fusione di parola, musica e danza; il cinema infine è uno dei campi di sperimentazione più innovativi («la macchina delle meraviglie», diceva, «che riusciva a rendere concreta l’immaginazione»).
LA POETICA: L’INVENZIONE E L’ATTENZIONE
Anche per quanto riguarda l’annosa questione delle contaminazioni di modelli diversi, classici e moderni, si è fatta chiarezza ricostruendo la sua poetica, detta dell’“invenzione”, un termine da intendersi nel suo significato etimologico di ritrovamento (da invenio). Trovare, del resto, deriva etimologicamente da “tropare”, esprimersi con “tropi”, che è traslitterare, ossia trasferire una parola o un oggetto dal significato suo proprio ad un altro figurato o ricontestualizzato.
La poetica dell’invenzione esprime tutto questo, a tal punto che anche i rifiuti della vita si ravvivano per chi sa guardare e trasformare il documento in evento. Motore principale di questo processo è l’attenzione, una qualità che il poeta esercita abitualmente e che alimenta la sua percezione del reale, quella che gli fa considerare ogni cosa, anche quella apparentemente inutile, nella convinzione che
“TUTTO PARLA, TUTTO È SEGNO PER CHI SA LEGGERE. IN OGNI COSA È POSTA UNA VOLONTÀ DI RIVELAZIONE.1”
Da quest’ottica gli oggetti perdono la loro condizione di natura morta se elaborati nella misura della trasfigurazione. Il concetto è ripreso in più di un luogo, non ultimo in quel passaggio della Contemplazione della morte in cui l’attitudine al «ritrovamento» è rievocata nel Pascoli: «La sua esperienza era infinita, la sua destrezza era infallibile, ogni sua invenzione era un profondo ritrovamento». E altrove, nel Secondo amante di Lucrezia Buti, ribadirà queste convinzioni estetiche: «Certo, la vita per me è un’invenzione che di continuo più si varia e si spazia. La vita per me è il meraviglioso ritrovamento cotidiano d’alcunché, incorruttibile, ed inimitabile, in mezzo al fluire e al fluttuare delle cose periture e difformi».
Similmente nel Venturiero senza ventura scriveva: «Di tutte le mie facoltà quella che più assiduamente stimolo e aguzzo è l’attenzione. Ogni anno il solco che m’ho tra i sopraccigli diventa più fiero. “Tutte le cose son piene d’iddii” diceva l’Elleno. Egli voleva dire che tutte le cose sono piene di segni, tutte sono significative di verità, di passioni, di eventi». Il potere del poeta, non si dimentichi, è quello di saper «trarre nuove tempere di suono da tutte le cose […] e ciascuna tempera nuova risveglia un nuovo mondo e si propaga nell’invisibile e si perpetua nell’eterno» (Novo encomio della mia arte, in Il secondo amante di Lucrezia Buti).
Poesia, dunque, non è tanto fantasia, quanto scrutare nelle pieghe del mondo, nei dettagli della natura, perché «intenso il sentimento poetico è di chi trova poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare». Un approfondimento del tema si ha in quella pagina de Il Fuoco in cui si parla di Leonardo e del consiglio che egli dava ai suoi allievi di guardare «nel turbinio confuso della vita», «nelle macchie dei muri, nella cenere del fuoco, nei nuvoli, nei fanghi e in altri simili luoghi per trovarvi invenzioni mirabilissime e infinite cose». Insomma, il particolare isolato con l’esercizio dell’attenzione ha una parte più che rilevante nel lavoro dell’artefice ingegnoso, aiutando, anzi direi migliorandone il processo di invenzione.
D’Annunzio pone in atto la strategica risemantizzazione del dato reale e letterario e rinnovella la fonte, funzionalizza la citazione, se necessario.
La stessa arte altrui può assumere il compito della natura: ossia può fungere da realtà da plasmare. Il che offre la spiegazione più logica del problema annoso dei plagi, su cui un tempo tanto si discusse; scandalizzarsene ancora oggi significa ignorare la fondamentale e singolare attitudine di Andrea Sperelli-D’Annunzio di iniziare a comporre con l’aiuto «d’una intonazione musicale datagli da un altro poeta». Il protagonista de Il Piacere del resto non esita a lodare il verso perfetto che contiene un pensiero esattamente espresso, «che già esisteva preformato nella oscura profondità della lingua». E maggior poeta è colui che sa «estrarre un maggior numero di codeste preformazioni ideali».
L’INTERPRETE DELLA CRISI
Tornando al significato del personaggio nell’ambito della cultura italiana va detto che non va interpretata come superficialità di modi la famosa espressione crociana «dilettante di sensazioni» (in realtà l’espressione è prelevata da Enrico Nencioni [poeta e critico letterario – ndr] che l’aveva coniata per Tullio Hermil, protagonista de L’Innocente), una formula che, avulsa dal contesto in cui è inserita, tradisce anche l’intima sostanza del pensiero di chi la espresse.
Andando a rileggere in effetti il saggio crociano del 1903 dal titolo Gabriele D’Annunzio, ci si accorge che ben altra è la prospettiva in esso contenuta e che lo slogan fortunato non è frutto di pregiudiziali invalidanti, bensì di un’attenta riflessione sull’opera dannunziana inserita nel suo milieu storico e culturale. A determinare l’argomentazione, semmai, è la formazione e il rigorismo etico del grande giudice, vincolato a un’esigenza che D’Annunzio, per il solo fatto di essere se stesso e di appartenere ad un’epoca di crisi di valori, non poteva soddisfare, né avrebbe voluto.
L’opinione di Croce, al contrario, si può rileggere come un’indiretta conferma dell’arte dannunziana proprio per quell’accertato esercizio delle «sensazioni slegate» che non si connettono ad una «piena e vigorosa vita d’uomo»: «In quanto egli fissa lo sguardo limpido, sereno e sicuro sulle cose, è artista: in quanto le cose gli appaiono fuori delle loro connessioni superiori, come perle sciolte da una collana, e perdono il loro valore di relazione, e solo guida tra esse è il caso e il capriccio della fantasia o l’allettamento sensuale, è dilettante. Dilettante, ma artista: artista del dilettantismo, che può essere artista grande, perché niente di umano dev’essere alieno dall’uomo, e anche questa disposizione spirituale ha la sua propria realtà e il suo significato».2
I capi d’accusa possono dunque capovolgersi e diventare elementi portanti per la caratterizzazione inequivocabile della fisionomia dannunziana.
L’elevamento di D’Annunzio a simbolo della fin de siècle e il paragonarlo ad altri artisti che avevano svolto la medesima funzione in altri tempi della storia letteraria ugualmente sospetti, significava riconoscergli un ruolo decisivo nella cultura della decadenza italiana ed europea.
Egli mancava, secondo Croce, di incursioni verticali energiche e proficue nel profondo dell’uomo, di commozioni forti, «capaci di legare più a lungo l’interessamento, capaci di mettere una qualche gerarchia e stabilire qualche centro»; ma è anche vero che il tempo cui l’“Imaginifico” appartiene, diceva sempre Croce, è quello che si regge sulla «gara delle cupidigie», sull’affermazione delle forze distruttive e sull’«epicureismo pratico».
Sono, insomma, i motivi sotterranei che avvicinano D’Annunzio al godimento delle nuove generazioni e che ne condizionano per un certo verso l’attuale e per nulla sorprendente rientro. In effetti, citando sempre Croce, quel «vento freddo di cinismo e di brutalità» è tornato a soffiare con intensità rafforzata in un momento storico in cui siamo tutti consapevoli delle nostre incertezze e che il mondo (lo constatiamo con amarezza) si può ridurre, ora come allora, «a un gioco e a una fonte di commozioni più o meno disgregate e fuggevoli».3
Da quanto detto si vorrebbe che fossero lontani i tempi in cui gli insegnanti a scuola, un po’ per indisposizione, un po’ per ignoranza, sconsigliavano agli allievi la lettura di D’Annunzio ritenendolo diseducativo, finendo ancora per credere che la frase di Andrea Sperelli [protagonista de Il Piacere – ndr] sui «quattrocento bruti, morti brutalmente» a Dogali rispecchiasse il pensiero dell’autore de Il Piacere o che l’infanticidio compiuto da Tullio Hermil ne L’Innocente fosse vagheggiato dallo stesso D’Annunzio.
Andando indietro nel tempo e frugando bene tra i primi interventi critici risulterebbe che una prospettiva storicizzante delle creazioni dannunziane fosse stata già avanzata e sostenuta da qualche interprete intelligente, che in lui vedeva il riflesso della coscienza malata di un’epoca. Andrea Sperelli in particolare diventava un emblema, poiché in un’età di crisi lo spirito analitico «negli uomini di una cultura e di un’intelligenza superiore» conduceva di fatto ad uno stato di rigetto della realtà oggettiva, fino al punto di far loro ritenere l’idea più concreta del fatto in sé.
Di qui la grande affinità di Sperelli con i personaggi di quella generazione. Il rapporto con il Des Esseintes di Huysmans [protagonista del romanzo Controcorrente dello scrittore francese Joris-Karl Huysmans, considerato tra i maggiori esponenti del decadentismo – ndr], ad esempio, non poteva risolversi nei limiti d’una derivazione letteraria, quanto nell’essere, l’una e l’altra, due figure-simbolo d’una società in cui coesistevano gli argomenti che ne autorizzavano in modo naturale il carattere e le abitudini.
È la prospettiva senza dubbio più accreditata: D’Annunzio diventa l’interprete di un’età complessa e variegata dominata dalla crisi del positivismo, di una generazione assetata di nuove certezze. Una generazione di deboli a cui fa seguito una di finti-forti, di superumani, in cui l’uomo di fine secolo si identifica.
Egli diventa il modello alto di una borghesia mediocre che in lui aspira a nobilitarsi.
Il gesto più del testo contribuiva allora a coniare un feticcio per un vasto pubblico di dannunziani, fino alla più irreversibile “dannunzite”. Dietro le pose però fa capolino l’uomo vero, senza maschera, preda solo dell’angoscia e della più profonda malinconia. La modernità e il frenetico dinamismo dei tempi hanno accentuato come non mai lo status precario dell’essere elevandolo a cifra incontestabile della sua identità. Non a caso D’Annunzio osservava che «la mancanza di equilibrio è il principal carattere dell’uomo moderno».
Partendo da questa constatazione, è possibile intraprendere un percorso conoscitivo all’interno della testualità dannunziana che forse non sarebbe stato neppure sospettabile per quell’indirizzo di studi che ha sempre privilegiato il cliché dell’istrione sempre in agguato, interprete di una gestualità evidentissima. Un modello di certo alimentato dal personaggio stesso e da lui difeso al di là di ogni limite, ma che si può tentare di smontare facendo appello ad una scrittura che fa leva sulle ragioni più profonde dell’io, ad una confessione non sempre palese che nasconde una vocazione spesso ripiegata su se stessa più di quanto non sembri.
La coscienza afflitta per la disarmonia universale, lo squilibrio tra spirito e materia, tra trascendenza e immanenza, l’accidia, l’indolenza, la noia sono i mali del secolo che scaturiscono dal fondo oscuro delle cose, dal vuoto abissale che ci circonda. Sono, per dirla con un’espressione, “il male di vivere” dei poeti, da cui D’Annunzio non è esente. In lui il sentimento malinconico coinvolge la sostanza dell’essere penetrando nell’oscurità del magma interiore e svelando ciò che si nasconde oltre l’apparenza. Il sentimento del tempo non è tanto la scansione monotona e ripetitiva di momenti uguali, quanto il ritorno ciclico dell’emotività. Se il tempo della quotidianità è veloce e fuggevole, quello della malinconia, che investe la memoria, è immobile, allargato e allungato, esasperante nella sua staticità e inconsistenza.
Tuttavia, all’interno della tragica sofferenza che esso procura, può materializzarsi un dato positivo nell’attività e nell’impegno, non esclusa la creatività artistica. Il che vuol dire che la malinconia, pur aprendo le porte al vuoto, sollecita l’individuo a dare spazio alle forze che si agitano dentro di lui.
D’Annunzio in particolare è travolto dall’ansia di dare senso e forma al nulla.
Sicché creare per lui è un modo per esorcizzare il dolore dell’abbandono dando espressione alle sollecitazioni del profondo, le quali, da linguaggio privato, diventano materializzazioni socializzate.
Si realizza, attraverso questo meccanismo, l’unione tra psiche nascosta e mondo, al fine di soddisfare la necessità di procreare per lasciare ai posteri testimonianza di sé, per stabilire un filo rosso tra passato e futuro. La nausea del vivere dannunziano scaturisce dal suo delirio di onnipotenza, di c...
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