Pirandello
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Informazioni su questo libro

Agli inizi del Novecento, l'epoca dell'ansia e dell'incertezza, Pirandello ha rifondato il teatro spostandolo dalla classica, didascalica rappresentazione del mondo a un "teatro nel teatro" in cui drammaturgo, attori e perfino spettatori abbandonano ruoli e significato tradizionali trasformandosi in entità fluide, sfocate, in un relativismo che muta anch'esso indefinitamente. È un gioco di molteplici specchi che mostrano una realtà sempre diversa di sé, degli altri e del riflesso di sé negli altri: il teatro torna a essere una rappresentazione della vita ma solo in quanto la vita stessa è "una, nessuna e centomila", un palcoscenico in cui ogni personaggio cerca un autore, dove si recita a soggetto e nulla è definito, una «mascherata, continua, d'ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontarii». Pirandellianamente, così, la scena torna a essere per paradosso il theatrum mundi, ma solo in quanto "teatro" e "mondo" sono due facce indissolubili: ciascuna è l'illusione di se stessa e dell'altra; si torna al passato, ma solo come estrema, diabolica finzione.

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Informazioni

FOCUS

IL SUO MONDO E LE SUE IDEE

Pirandello vive in un tempo in cui si affermano le avanguardie e il modernismo. Il tempo di Marinetti e il tempo di Joyce, insomma. Tuttavia la sua cultura affonda nelle esperienze di secondo Ottocento, nel travaso dal naturalismo a nuove forme di realismo inquieto, nell’età del trionfo del dramma borghese e della sua incipiente crisi, quando Giuseppe Giacosa importa la quotidianità nella scena e permangono gli echi profondi di un’opera come L’anitra selvatica di Ibsen. La formazione pirandelliana, tedesca e italiana, risale al romanticismo e post-romanticismo più sterniano, più “umorista”, da Adelbert Von Chamisso, l’autore del Peter Schlemihl, ad Alberto Cantoni, da Heinrich Heine a certo Luigi Capuana. Ma non si deve dimenticare la sua rigorosa preparazione linguistico-filologica, maturata durante gli studi a Bonn e attraverso i contatti con alcuni grandi protagonisti della scuola storica fra i due secoli, come Ernesto Monaci.
La sua produzione è ad ampio raggio; egli è un inesausto novelliere, un poeta, un autore di romanzi rivoluzionari, un saggista severo e brillante insieme, capace di coniugare un frasario filosofico e filologico puntuale con accensioni di potente scrittura metaforica. Si confronterà anche con il cinema, come critico e come autore.
Ma Pirandello è Pirandello, nel mondo, soprattutto per il suo teatro, il suo meta-teatro e le sue idee sul teatro. Non vogliamo intendere che se Pirandello non avesse scritto nulla per la scena sarebbe una figura minore del nostro Novecento.
Semplicemente si vuole ribadire che universalmente, se esiste l’aggettivo “pirandelliano” al pari di “kafkiano”, lo si deve specialmente agli shock storico-artistici dei Sei personaggi, di Enrico IV e così via.
Se pensiamo alle idee di Pirandello, immediatamente ci si presenta alla mente il concetto di “umorismo”, e quindi il saggio omonimo del 1908, poi ripubblicato ampliato nel 1920. La parola non è nuova, come l’autore illustra nei suoi excursus storici, ma la pregnanza che da lui le viene attribuita è tutta moderna, novecentesca. L’umorismo si può confondere con il tragicomico, o con una sua forma rinnovata, appunto “modernistica”. Ma nella specificità pirandelliana trascende anche la tradizione del riso nel pianto, dell’alto/basso. È qualcosa di più. Sentiamo le parole di Pirandello stesso: «[…] anche una tragedia, quando si sia superato col riso il tragico attraverso il tragico stesso, scoprendo tutto il ridicolo del serio, e perciò anche il serio del ridicolo, può diventare una farsa». E proseguiva:
“UNA FARSA CHE INCLUDA NELLA MEDESIMA RAPPRESENTAZIONE DELLA TRAGEDIA LA PARODIA E LA CARICATURA DI ESSA, MA NON COME ELEMENTI SOPRAMMESSI, BENSÌ COME PROJEZIONE D’OMBRA DEL SUO STESSO CORPO, GOFFE OMBRE D’OGNI GESTO TRAGICO.1
Così Pirandello scriveva a proposito della «farsa trascendentale», in un articolo apparso su L’Idea Nazionale il 27 febbraio 1920, come ideale séguito di un precedente, sulla stessa testata, del 7 febbraio: entrambi sul concetto di grottesco, ottima chiave per legare quel concetto e quel capriccio a quello umoristico.
L’elzeviro del 7 febbraio offriva un’immagine, quella del mandorlo secco contorto che dopo un piovasco appare tutto fiorito di bianco: ma a guardare meglio – «scoppio di risa» – è un’allucinante fiorita di «lumachelle bianche». Ma non è una fioritura poi così allegra, aggiungeva Pirandello. Le lumache, bollicanti di bava, creature ctonie arrampicantisi, non volevano parere fiori finti, tutt’altro. E l’alberello era morto: «Oh morto, sì! E non voleva mica dare a intendere che l’alberello fosse vivo, quella fioritura di lumachelle. Dava anzi a veder chiaramente che lo credeva morto e che non lo prendeva sul serio, facendolo fiorir così. Rideva di se stessa così, evidentemente, Dio mio, quella fioritura».2
Una sinistra contraffazione della primavera, questa immagine di morte rinsecchita brulicante di vita umoristica. Una farsa trascendentale? Più che una tragedia farsesca, pare proprio la parodia di una commedia (il «genere primaverile», secondo il critico letterario canadese Northrop Frye, che aveva assegnato a ogni genere letterario una stagione), che si rivela una farsa, approfondendosi quindi anch’essa a suo modo. E la farsa è così gelida e rappresa nel rabesco mortuario delle lumache da farsi risata ghiacciata, ghigno di cadavere, quindi orrore, ma pure non è orrore, perché le lumachelle sono umoristiche sì, ma brave bestiole, e la loro «bava di luce» infine «fa pure un bel vedere», per cui il creaturale assume una sua pietosa tenerezza. Ma anche questa non può durare, perché comunque quelle lumache sono fuori posto, «fuori chiave» (espressione cara a Pirandello), o almeno così sembrano, perché sono una derisione della primavera, anche involontariamente, ma di sicuro per l’occhio di chi le osserva e non riesce a vivere senza pensare, è costretto a riflettere, ineludibilmente, “spasimosamente” (altra parola che Pirandello usa spesso).
E così via, la natura di questo grottesco, e anche dell’umorismo, è una natura dinamica, fluida, instabile, ottimo specchio di quel flusso che è la vita rispetto alla forma ecc. ecc., il Pirandello che tutti a scuola abbiamo imparato a leggere.
La famosa riflessione «che non si cela» e così fa scattare il proprium umoristico – scriveva – non è «un’opposizione del cosciente verso lo spontaneo; è una specie di projezione della stessa attività fantastica: nasce dal fantasma, come l’ombra dal corpo; ha tutti i caratteri della “ingenuità” o natività spontanea; è nel germe stesso della creazione, e spira in fatti da essa ciò che ho chiamato il sentimento del contrario».
Il fatto è che lo stesso Pirandello, pur convinto di quello che scrive anche contro l’obiettore principe, Benedetto Croce, ha qualche difficoltà nel maneggiare la parola “riflessione”. E l’errore di includere Pirandello nella tradizione modernista di un teatro raffreddato in senso anti-sentimentale, deriva anche dalle difficoltà incontrate da Pirandello stesso. Può sembrare paradossale che qualcuno creda Pirandello anti-sentimentale o anti-realista. Eppure una certa vulgata ci fa pensare così. Egli stesso del resto parlava chiaro, come si legge nella celebre novella La tragedia di un personaggio:
“MA È MAI POSSIBILE IL COMPATIMENTO DI CERTE SVENTURE, SE NON A PATTO CHE SE NE RIDA? ORBENE, I PERSONAGGI DELLE MIE NOVELLE VANNO SBANDENDO PER IL MONDO, CHE IO SONO UNO SCRITTORE CRUDELISSIMO E SPIETATO. CI VORREBBE UN CRITICO DI BUONA VOLONTÀ, CHE FACESSE VEDERE QUANTO COMPATIMENTO SIA SOTTO A QUEL RISO.3
Insomma, nessuna crudeltà. E nessuna forma di raffreddamento ragionante: anche qui, un passo notissimo di una novella (Il professor terremoto) che fonda il legame intimo fra dialettica e meridionalità può essere addotto: «Sono così tormentosamente dialettici questi nostri bravi confratelli meridionali. Affondano nel loro spasimo, a scavarlo fino in fondo, la saettella di trapano del loro raziocinio, e fru e fru e fru, non la smettono più. Non per una fredda esercitazione mentale, ma anzi al contrario, per acquistare, più profonda e intera, la coscienza del loro dolore».
Tornando all’Umorismo, osserviamo che il sentimento del contrario, lungi dall’essere un prodotto intellettuale, non è neanche un semplice prodotto della pretesa riflessione, ancorché ingenua, ma è un approfondimento in perenne stato di tensione: un approfondimento del tragico attraverso cui si percepisce la farsa, un approfondimento della farsa attraverso cui si sente il serio, una ridicolizzazione del serio attraverso la quale si penetra nell’umiliazione e nella disperazione, una disperazione così scomposta da generare il grottesco, e così via, senza concludere: non conclude, non finisce mai, tranne allorché il proprio corpo finalmente morto non venga cremato e le ceneri gettate al vento da un dirupo presso un antico olivo saraceno.
Questo è Pirandello. Certo, c’è anche la tematica dello specchio, del vedersi vivere, della moltiplicazione dell’io, del relativismo, del nichilismo. Ma sarà un «nihilismo spasmodico», come lo definisce auto-ironicamente Pirandello in Ciascuno a suo modo. La filosofia, se c’è, è ancora e sempre spasmo. L’unica via di fuga, anche l’annientamento panico dell’estasi, è morte.
Pirandello è l’espressionista del “sentire”, più che il teatrante del pensiero.
Anche il suo pensiero è nervoso, nel senso proprio della contorsione dei fasci nervosi, come i rami scontorti del mandorlo invaso dalle lumache. Per questo è così sconvolgente la sua opera, in tutto il mondo, tradotta in tutte le lingue. Ed è in questo corridoio della metamorfosi tragicomica, corridoio fatto di sentimento così teso da coincidere con l’allucinazione lucida, che si svolge la vita dei personaggi e dell’autore. Si tratta di un’operazione chirurgica subita senza anestesia, o al massimo resa più accanita da un gas esilarante che non interrompe la coscienza ma anzi la incattivisce, per così dire, di più. Il riso in Pirandello è come quello provocato dalla trafittura del diaframma secondo Aristotele (De partibus animalium).
Il leitmotiv dell’Umorismo è innucleato nel verbo “sentire”. La celeberrima pagina del’Umorismo sulla vecchia signora, aggiunta nell’edizione del 1920, sembra ormai chiara a tutti. Ma al centro di quella pagina – sia ben chiaro – c’è la scoperta che la vecchia imbellettata con quella «orribile manteca» nei capelli soffre perché si aggrappa a un amore che può perdere da un momento all’altro, se non l’ha già perso, l’amore per il marito più giovane. La scoperta avviene attraverso una riflessione che però è, come Pirandello stesso deve spiegare, una sorta di “fantasia al quadrato”, piuttosto che un moto di distacco, e anzi forse una sorta di “sentimento al quadrato”, una sympatheia, una comunione di angoscia che scaturisce dall’approfondimento del ridicolo, e da cui può venir fuori ad ogni istante un ulteriore sviluppo di penosa ridicolaggine.
È scattato il flusso inarrestabile dell’umorismo, in cui la farsa figlia tragedia che figlia farsa che evacua orrore con un ritmo partoriente così serrato da coincidere al limite con la simultaneità. È il flusso, la vita, il gorgo, qualcosa di spaventoso.
Ragionare è patire, e viceversa. In Pirandello tutto questo si definisce superando ovviamente il dramma borghese ma non tanto nella direzione che sarà di Ionesco e di Beckett, bensì nella direzione di un sentimento novecentesco tutt’altro che “sentimentale” (melodrammatico o crepuscolare). È il sentimento dostoevskijano di Marmeladov, personaggio di Delitto e castigo che grida nell’osteria: «per me non è ridicolo, perché io sento tutto ciò…», passo citato nell’Umorismo. Nessun teatro freddo ne deriva, anzi un teatro rovente, e una narrativa rovente, e persino un saggio rovente, come appunto l’Umorismo.
Ma se diciamo Pirandello, oltre all’umorismo, intendiamo vulgatamente anche: moltiplicazione dell’io, relativismo della verità, vita e forma, maschera nuda ecc. Non che questi concetti non siano presenti, anzi ossessivi, nell’opera pirandelliana. Il rischio è di prenderli, diciamo così, come elementi di una sistemazione scolastica, irrigiditi e semplificati, ovvero per nulla pirandelliani.
Consideriamo ad esempio la condizione dell’io. La sua integrità è minacciata da una serie di fattori interni ed esterni. In un momento ci sentiamo perfettamente noi stessi, avvertiamo – anzi, neanche ce ne accorgiamo, lo diamo per assodato – che il nostro io è una realtà precisa e compatta. Ma dopo un breve lasso di tempo il nostro io ha subito delle mutazioni, sono intervenuti nuovi stimoli. Un anno dopo, dieci anni dopo, una vita dopo, il nostro io è cambiato ancora, ci illudiamo di rimanere sempre uguali almeno dentro, ma in realtà non siamo più quelli di prima. Siamo mutati per noi stessi.
La preposizione “per” è onnipresente nel linguaggio pirandelliano. Si è sempre “per”, mai “in”. È il “per” della permutabilità. Dunque per noi stessi il nostro io cambia, quindi si moltiplica, anche solo nel tempo. In noi stessi non c’è nulla di stabile, nonostante le nostre illusioni, anzi non c’è proprio nulla. Per noi stessi, c’è la molteplicità. Ma non soltanto in una linea temporale l’io viene messo in crisi. Anche in un lampo attimale: basta scorgersi per un istante allo specchio e vedere con sgomento un altro, qualcuno che noi non vediamo mai, ma pur sempre una forma del nostro io.
Ecco che si prospettano le minacce disgreganti che vengono dall’esterno. Io sono anche per gli altri, perché la vita relazionale è imprescindibile. Anzi, è considerata generalmente parte della nostra stessa sostanza identitaria. Ma tutto ciò non è affatto innocente. Infatti gli altri mi percepiscono come io sono per loro, per ciascuno di loro. Quindi, se il mio io è teoricamente costruito e rafforzato anche dalle interazioni sociali, amicali, amorose, in realtà scopriamo che quelle relazioni contribuiscono a frammentare l’io, o meglio a renderlo prismatico.
Analogamente al guardarsi in uno specchio rimanendo stonati, così è ad esempio lo scoprire l’opinione di qualcuno su di noi, opinione che non avremmo mai pensato quegli avesse e che ci sembra totalmente estranea o persino ingiusta. Difendiamo il nostro io dagli attacchi, allora. Ma non possiamo isolarci, uscire da noi stessi: se lo facciamo siamo morti, oppure evaporiamo in un’estasi che sembra luminosa ma è invece notturna e tenebrosa, anch’essa potenzialmente letale.
Fin qui abbiamo esposto una sorta di parafrasi (non sappiamo quanto goffa) del pensiero pirandelliano in merito alla prismatizzazione dell’io.
Ma la grande scoperta di Pirandello, a nostro avviso, è nella profonda e devastante scoperta che l’esito della frantumazione dell’identità è l’assenza di identità.
Da questo punto di vista Pirandello elabora, sì, acquisizioni della psicologia del suo tempo (si pensi soprattutto ad Alfred Binet, autore delle Altérations de la personnalité, 1892), ma anche anticipa scoperte delle moderne neuroscienze, che evidenziano la natura illusiva del Self, la sostanza artificiale e multifattoriale della coscienza.
Fra le tre parole Uno, nessuno e centomila, potremmo sintetizzare, la prima indica appunto la tenace illusione del sé, che ci fa andare avanti inconsapevoli, la terza segnala la moltiplicazione del sé, interna ed esterna, ma la seconda soltanto ci dice la verità: non esiste il sé.
L’inconsistenza del sé e la sua inessenza è poi parte di un nulla più generale, un nulla avvertito da tanti personaggi nelle pagine e sulle scene dell’opera pirandelliana. L’assenza di fine e scopo di tutto fa sì che tutto sia nulla, sia percepibile talora come vuoto. Eppure viviamo, e il mondo c’è. Ma viviamo come morti, sia che ci illudiamo e ci irrigidiamo in una struttura apparente, socialmente accettabile, sia che usciamo dalla nostra inconsistente identità e raddoppiamo così il vuoto e la pena. Insomma, non c’è scampo. Solo l’opera d’arte, per Pirandello, ha un fine e uno scopo e quindi, aggiungiamo, ha una identità, cioè è l’unica realtà per cui vale la pena vivere. Creare è tutto, nel pensiero e nella vita di Pirandello.
La creazione, nel pensiero teatrale di Pirandello, è qualcosa di meraviglioso e sinistro insieme.
I paradigmi di una nuova immaginazione scenica (Sei personaggi in cerca d’autore, Enrico IV), che si imporranno impetuosamente in Europa con memorabili riprese in Francia, in Germania, in Inghilterra ecc., sembrano già formati nel Pirandello di fine Ottocento. È stato ampiamente sfatato, intanto, l’equivoco che vedeva un Pirandello...

Indice dei contenuti

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Il teatro nel teatro, nel teatro, nel teatro…
  6. PANORAMA
  7. FOCUS di Roberto Gigliucci
  8. APPROFONDIMENTI
  9. Piano dell’opera