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È stato necessario attendere la seconda metà del Novecento affinché la figura di Ugo Foscolo, tramandata dalla critica ottocentesca come quella del nume tutelare del Risorgimento italiano, antesignano di tutti i patrioti, venisse sfrondata dall'armamentario retorico. Di certo, Foscolo è stato un combattente nel senso letterale e poetico del termine, ma, al di là dell'amor patrio, lo è stato nei confronti della vita, delle vicende storiche cui ha preso parte, delle mille traversie personali vissute inseguendo costantemente ogni illusione possibile pur sapendo che dietro ciascuna si celava un inevitabile disincanto. Dotato di una vitalità sempre al di sopra delle righe (cui non era estranea una forma di autocompiacimento) sia nella sua vita sia nella sua opera, ha scritto con l'
Ortis il primo romanzo italiano che, attraverso la poetica del dolore irrequieto di protagonista e autore, ha abbandonato schemi e stilemi neoclassici per proiettarsi verso la modernità.
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Education GeneralIL SUO MONDO E LE SUE IDEE
Nel suo celebre scritto Ugo Foscolo e l’Italia, apparso nella rivista Il Politecnico alla fine del 1860 e in volume l’anno successivo, lo studioso e attivista politico Carlo Cattaneo consegnò all’Italia unita un ritratto dell’autore destinato a entrare nell’immaginario collettivo quale campione del Risorgimento italiano, antesignano di tutti i patrioti, nume tutelare della riscossa nazionale, e per di più “fondatore” dell’istituzione dell’esilio quale parte integrante della lotta politica nazionale.
Il che, sulla scorta dei materiali manoscritti, per fortunose vicende raccolti, e quindi confluiti nell’edizione Orlandini-Mayer delle Opere edite e postume di Foscolo (nel 1850-1862), era un passaggio non solo realizzabile ma, nel particolare contesto in cui Cattaneo si trovò a vivere e a operare, per più versi quasi obbligato.
Alla critica novecentesca, e in particolare a quella della seconda metà del secolo, sarebbe spettato il compito non facile di sfrondare Foscolo dall’armamentario retorico ormai sedimentato e di pervenire a una lettura ideologicamente più accettabile e motivata.
In tale lettura gli elementi di contraddizione avrebbero finito per prevalere sulla coerenza, i giochi di specchi e di mistificazioni perseguiti continuamente dall’autore sarebbero stati svelati e avrebbero preso il sopravvento sulla vicenda reale del primo scrittore italiano che a tutti gli effetti possiamo definire moderno. E tuttavia proprio l’immediata ripercussione delle sue relazioni umane e civili sulla produzione letteraria fa di Foscolo – come aveva riconosciuto il critico Mario Fubini – un autore troppo implicato nella propria opera per essere disgiunto da essa: quasi che «il calore di fiamma lontana», residuo delle passioni dominate per il suo alter ego Didimo Chierico, fosse rimasto l’obiettivo da centrare piuttosto che una meta raggiunta, tanto per l’autore quanto per la critica.
Vi sono alcuni pilastri dell’attività letteraria di Foscolo che agiscono in modo perentorio in tal senso (vedi capitolo “Le opere”). E tuttavia anche la produzione maggiore e più compiuta si trova in continua relazione con una serie di progetti abbozzati, decaduti, e poi ripresi o rielaborati, editi oppure inediti, che fanno dell’opera foscoliana una delle più imponenti del nostro panorama letterario: si pensi che la benemerita Edizione nazionale iniziata nel 1933 consta di tredici volumi di opere, anche articolati in più tomi, e di dieci volumi di Epistolario, l’ultimo dei quali ancora in preparazione.
Proprio l’eccezionale mole delle lettere inviate a familiari, amici, scrittori e politici risulta lo strumento privilegiato da cui osservare l’esistenza e la carriera dello scrittore, configurandosi come un caso pressoché unico di costante palestra ideologica, poetica e stilistica, concepito dall’autore come il palcoscenico, privato ma anche pubblico, da cui trasmettere la propria immagine di uomo e di letterato.
«Fin che sarò memore di me stesso», scrive al diplomatico prussiano Jakob Bartholdy il 29 settembre 1808, «non oblierò che nacqui di madre greca, che fui allattato da greca nutrice, e che vidi il primo raggio di sole nella “chiara e selvosa” isola di Zacinto, risuonante ancora dei versi con che Omero e Teocrito la celebravano»:
una dichiarazione di fedeltà spazio-temporale alla Grecia e alla classicità, cui mai sarebbe venuto meno, e che di volta in volta sarà il biglietto da visita esibito e imposto nelle alterne e complicate vicende della sua esistenza «raminga» e del suo sperimentalismo letterario.
Eppure tale certificazione di appartenenza è fondamentale al fine di arginare la mole ottocentesca delle letture risorgimentali e di far emergere la cultura foscoliana in modo più verosimile. Nel 1793, appena giunto, quindicenne, a Venezia, egli si trovò a fare i conti con una realtà culturale che non gli apparteneva e nella quale era deciso a entrare per ottenere un riconoscimento sociale che la modesta condizione di partenza non gli avrebbe garantito.
La sua lingua naturale era sicuramente il greco, ma italiana era stata l’istruzione ricevuta a Spalato durante l’infanzia; così in pochi anni, anche grazie all’artificiosità della lingua della poesia italiana, fu in grado di scrivere versi sostanzialmente corretti per una produzione eterogenea e sperimentale, che va dalla lirica polimetrica di stampo tardo arcadico alla tragedia in endecasillabi di matrice alfieriana.
Le poesie dell’adolescenza ebbero una circolazione limitata e soltanto manoscritta, mentre i rivolgimenti politici che di lì a poco (1796-1797) sconvolgeranno l’Italia settentrionale e la Repubblica di Venezia lo vedranno precoce protagonista anche nel pubblico agone letterario. Tuttavia, nel momento cruciale della svolta storico-politica rappresentata dalla campagna d’Italia di Napoleone, il richiamo alla sua origine oscura ma esotica, marginale eppure rispettabile in quanto vergine da compromessi, tornerà nella sua prima prova “militante”, la dedicatoria («Alla città di Reggio») dell’ode A Bonaparte Liberatore (1797) in cui il poeta si definisce «nato in Grecia, educato fra Dalmati, e balbettante da soli quattr’anni in Italia» [mentre Napoleone conquistava l’Italia settentrionale, nel 1796 Reggio Emilia si liberò dal dominio estense e, con l’aiuto dei francesi, sconfisse gli austriaci proclamando la Repubblica reggiana e adottando per la prima volta il nostro tricolore – ndr].
L’intima consapevolezza di avere progetti ambiziosi e giganti da scalare per guardare lontano (in sostanza tutta la cultura occidentale dalla classicità al Settecento!) gli aveva suggerito già nel 1796 di stilare un Piano di studj (conservatosi in manoscritto autografo e pubblicato per la prima volta nel 1842) col quale il giovane letterato tentava di imporsi un’autodisciplina formativa e che costituì sempre per gli studiosi dell’opera foscoliana un’interessante testimonianza di “pieni” e di “vuoti”, di obiettivi e di occasioni mancate, presentandosi nella sua veste programmatica già gravido di tutte le contraddizioni che sempre avrebbero caratterizzato un intelletto per natura incapace di ricondursi a un sistema.
L’occasione di immergersi nell’impegno politico e letterario travolge in gran parte i buoni propositi, e soprattutto li complica conducendoli verso nuove sollecitazioni. Quando scrive l’ode A Bonaparte liberatore, Foscolo ha diciannove anni e crede davvero che stia cominciando un’epoca nuova per le «Itale genti» a cui si rivolge; gli avvenimenti dei mesi successivi segneranno il destino umiliante della Repubblica di San Marco in seguito al Trattato di Campoformio, e anche la singolare vicenda dell’entusiasta sostenitore di Napoleone, già deluso dal proprio campione ma ridotto al ruolo di perseguitato da parte dell’Austria, con la necessità conseguente di trovare nelle file dell’esercito della Repubblica cisalpina una collocazione sociale che gli permettesse di vivere e di scrivere.
Non va sottovalutato questo ulteriore aspetto della modernità di Foscolo, questo suo vivere nella propria vicenda esistenziale il mutamento storico in atto con la caduta dell’ancien régime:
il ruolo dell’intellettuale, e dello scrittore in particolare, di qui in avanti, e soprattutto nel delicato volgere del secolo, sarà tutt’altro che ovvio, e piuttosto da inventare che da conquistare. La strada per diventare cittadini e non sudditi era lastricata di incognite, ma l’epoca della disillusione non era ancora giunta del tutto.
L’incalzare degli eventi (la seconda coalizione, il colpo di Stato del 18 brumaio e la liquidazione del Direttorio, Marengo e il prevalere del Primo console) trascinano il poeta-soldato in un’attività pubblicistica frenetica, a cui silenziosamente si accompagna una carica creativa che nella Milano del 1800 doveva vederlo quale esuberante protagonista.
Nell’ambiente composito di tanti profughi che da ogni parte d’Italia erano convenuti a Milano nel caos politico del triennio rivoluzionario, non senza, per lo più, essere passati da Parigi dopo i disastri militari del 1799, un ruolo particolare assunsero, anche in qualità di promotori della propaganda napoleonica, figure come Vincenzo Cuoco, Francesco Lomonaco e Vincenzo Monti.
Ai primi due, transfughi della defunta Repubblica partenopea, si deve essenzialmente la diffusione in area settentrionale dell’opera di Giambattista Vico, di cui nel 1801 viene pubblicata a Milano, a oltre cinquant’anni dall’edizione napoletana, la Scienza nuova accompagnata dall’Autobiografia.
Nello stesso anno, sempre a Milano, Francesco Reina pubblica l’edizione delle Opere del suo maestro Giuseppe Parini, comprendente i frammenti inediti di Vespro e Notte e un profilo biografico in cui l’autore veniva trasfigurato in un eccezionale maestro di vita e di libertà. Dagli esuli napoletani derivò nel primo decennio del secolo un fervore di studi vichiani destinato a oltrepassare i limiti geografici e linguistici della cultura italiana.
Foscolo, che viveva a stretto contatto con l’ambiente che l’aveva promossa, assorbì la lezione di Vico con un’autonomia e una partecipazione sostanziali, facendone il perno della sua prima grande stagione creativa.
Dalla Scienza nuova Foscolo desume un’idea centrale, che scivolerà nelle opere dal 1802 al 1807 (Ortis, Poesie, traduzione della Chioma di Berenice e dell’Iliade, Sepolcri) e sarà chiarita nell’Orazione inaugurale: nulla resiste al tempo, e quindi in sostanza nulla propriamente esiste, se non viene raccontato. Da greco, Foscolo avvertiva tutta la carica demiurgica delle parole “poesia”, “poeta”, “poetico” (dal greco poieo, “fare”, “creare”), tanto profuse nel dettato vichiano: e Poesie sarà infatti il titolo della esile raccolta di odi e sonetti (con selezione metrica rivolta a omaggiare gli immediati predecessori, Parini e Alfieri) nella quale concentrerà il proprio ritratto intellettuale, morale e affettivo, fissato simbolicamente all’anno 1800, ma pubblicato tre anni dopo, quando il destino ancillare della Cisalpina sarà già stato decretato in modo definitivo nei comizi di Lione e la fiducia in una rigenerazione politica dell’Italia andava sgretolandosi.
Analogamente, il romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) nelle pagine dedicate alla riflessione sulla natura e sulla storia, i due grandi poli in cui si dibatte il genere umano, pone contraddittorie domande cui non vengono date risposte, tanto che l’inquietudine del protagonista si esaspera al punto da non lasciargli altra soluzione che il suicidio.
È evidente che proprio nell’inquietudine insanabile e nella dicotomia ontologica vanno ricercate le più profonde anticipazioni da parte di Foscolo del nichilismo contemporaneo.
Come è stato osservato da Enzo Neppi, non è sufficiente identificare il dualismo foscoliano in una contrapposizione tra sentimento e ragione; per Foscolo la contraddizione è nell’Essere (o, come dirà Leopardi nel 1826, «il male è nell’ordine»).
Come Manzoni, anche Foscolo avverte le contraddizioni del proprio tempo, ma a differenza di Manzoni, e invece in linea con Leopardi, egli non trova nel cristianesimo (e nel romanticismo) il serbatoio in cui far confluire il pessimismo. Pur restando legato al materialismo di origine settecentesca, Foscolo non lo convertirà mai in razionalismo: anzi, lo sbigottimento di fronte alla potenza delle passioni e ai guasti che l’istinto produce lo farà inevitabilmente inclinare su posizioni irrazionaliste (e si pensi al sonetto Alla Sera, composto a ridosso dello studio del De rerum natura di Lucrezio). Stante che le passioni sono l’unico vero motore dell’esistenza:
“COSÌ PIACQUE ALLA NATURA CHE ASSEGNÒ L’INQUIETUDINE ALLA ESISTENZA DELL’UOMO, IL QUALE ASPIRA AL RIPOSO APPUNTO PERCHÉ NON PUÒ MAI CONSEGUIRLO; PERÒ LANGUENDO LE PASSIONI, RITARDASI IL MOTO DELLE POTENZE VITALI; CESSATO IL MOTO, CESSA LA VITA; ED OGNI NOSTRA TRANQUILLITÀ NON È CHE PRELUDIO DEL SUPREMO E PERPETUO SILENZIO.1”
Unici argini a una materia caoticamente mobile e a una storia dominata dalla violenza sono, dall’Ortis, passando per i Sepolcri e giungendo alle Grazie, i sentimenti della compassione e del pudore e l’esercizio della memoria, in particolare della memoria poetica.
Nella prolusione all’insegnamento di Eloquenza all’Università di Pavia, pronunciata il 22 gennaio 1809, viene affermato il carattere “impegnato” della letteratura e viceversa condannata qualsiasi forma di asservimento al potere da parte del letterato. La sintesi di tale convinzione si condensa nella celebre “esortazione alle storie” rivolta agli italiani, destinata ad assumere un ruolo fondante di un nazionalismo che, nei suoi rivoli deteriori, andrà ben lontano dalle intenzioni foscoliane e dal momento storico in cui venne concepita come affermazione del primato della memoria e della letteratura che le dà voce.
Non a caso è stato speso, in modo tanto ardito quanto suggestivo – da parte di Neppi – il nome di Walter Benjamin [filosofo e sociologo tedesco della prima metà del Novecento] quale approdo di un pensiero che, anche grazie a Foscolo, prende le mosse di fronte alle rovine sparse dopo la Rivoluzione e all’avvio dell’Europa contemporanea.
Segno stilistico inconfondibile dell’inquietudine foscoliana, dell’armonia dissonante della sua letteratura, è quello che l’autore stesso definisce «chiaroscuro», con prestito terminologico dall’arte pittorica.
Infatti per Foscolo la vera poesia consiste nel «Descrivere mai e dipingere sempre» (come afferma nella lettera al pittore François Xavier Fabre del 1814), poiché descrivere è parlare alla ragione, mentre dipingere è parlare ai sensi, e Omero dipingeva, la sua era una poesia naturale, non artefatta: è questo il classicismo più autentico da recuperare, la sfida della letteratura quale suprema attività creativa; questa è la cesura che segna il dislivello incolmabile tra Foscolo e gli scrittori suoi contemporanei nella Milano capitale del Regno d’Italia.
Scrive ancora, a proposito del carme dedicato alle Grazie: «La poesia congiunge l’origine del mondo al suo stato presente ed al nuovo caos della sua distruzione. Ma la poesia ha, quanto la pittura, bisogno di rappresentazioni particolari, che i logici chiamano idee concrete […] Deve farti passare dal noto, che mostra evidentemente, all’ignoto a cui tende, facendolo sospettare. Ma l’unione di tanti quadri particolari è il più arduo dell’arte. […] Senza disunione di parti non hai armonia né chiaroscuro; senza unione l’armonia riesce confusa: il primo difetto genera noja, l’altro confonde il lettore. Quindi la rarità della vera poesia lirica, che è il sommo dell’arte».2
In una nota pubblicata nella stampa dell’Orazione inaugurale, realizzata all’inizio del 1809, Foscolo sferra una staffilata all’ambiente letterario milanese, ove era rientrato dopo la parentesi dell’insegnamento a Pavia e le cui conseguenze determineranno le scelte degli anni successivi: «E che dirò io di quegli scrittori che senza cel...
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