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Ungaretti
Informazioni su questo libro
Etichettato sbrigativamente come poeta ermetico, Giuseppe Ungaretti si svincola in realtà dagli stilemi della poesia novecentesca per rifondare il linguaggio poetico, il concetto di parola quale pura essenza anche per i suoi significanti fonetici, per la sua posizione sintattica e per la frammentazione nel verso, nel quale gli spazi bianchi circondano le parole di silenzio. È un «miracolo» che conduce a un «mondo risuscitato nella sua purezza originaria», con il quale superare la dialettica tra creazione e distruzione, tra vita e morte, presente in tutte le sue liriche. La sua ricerca poetica è infatti indirizzata a considerare i propri stati psicologici, sempre legati alla sua biografia, come tappe per conoscere la realtà, per un disvelamento anche di carattere esistenziale; una concezione di vita come incessante vagabondaggio fino a spingere lo sguardo nella dimensione dell'infinito, cercando di toccarlo pur sapendo che non lo si potrà mai raggiungere.
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
Critica letteraria italianaIL SUO MONDO E LE SUE IDEE
Ungaretti nella poesia I fiumi, datata Cotici (Gorizia) 16 agosto 1916, ne conta quattro: «Questo è l’Isonzo […]. Questo è il Serchio […]. Questo è il Nilo […]. Questo è la Senna […]» a cui più tardi si aggiungerà il Tevere (Mio fiume anche tu, 1943-44). Ognuno di essi ha nutrito la geografia intima e creativa del poeta. Altrove Ungaretti si definisce uomo delle tante patrie, ma forse l’espressione più adatta che ci ha lasciato per descrivere la sua natura artistica è «docile fibra dell’universo».
Un esile filamento disposto ad attrarre e restituire flussi d’inesauribile energia.
Ungaretti è un rapsodo platonico, per lui si potrebbe evocare la nota terzina di Dante: «[…] I’ mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV). E infatti sempre nei Fiumi scrive: «Ma quelle occulte / Mani / Che m’intridono / Mi regalano / La rara / Felicità».
Se si può parlare per Ungaretti di furore poetico, di un impeto creativo, bisogna però chiarire che il suo furor è sostenuto da due elementi complementari: il primo, è la presenza di sensibilità e curiosità acuite, capaci fin da bambino ad Alessandria d’Egitto di assimilare immagini, sensazioni ed esperienze che saranno rielaborate più tardi attraverso la riflessione. Il secondo, è il fervore per lo studio della tradizione poetica, della sua tecnica, la disposizione all’ascolto della musicalità del verso: «Quando ero uno scolaretto, e avevo quindici o sedici anni, alcuni miei compagni ed io avevamo fatto in quell’anno, due o tre di quelle scoperte che contano in una vita. Avevamo scoperto Nietzsche, Baudelaire, Mallarmé. L’anno prima mi ero avvicinato a Leopardi. Non che potessi capirne se non vagamente il contenuto a quell’età ingenua; ma all’orecchio il Leopardi m’era parso bello, il più bello di quanti poeti già mi avevano attratto. Mi era parso bello perché quei suoni muovevano un turbamento indicibile, impareggiabile del cuore e dei pensieri».1
Solo tenendo presenti questi due aspetti della vocazione letteraria del poeta si può sciogliere, come sottolineava Carlo Bo, una contraddizione solo apparente di Ungaretti: «nessun poeta come lui ha saputo rispondere meglio e più in profondità all’idea di poesia pura e nessuno come lui è stato il simbolo di una straordinaria partecipazione umana».2
L’amore aurorale per la poesia implica in Ungaretti, già negli anni egiziani, la valorizzazione della memoria letteraria che lo porta presto su posizioni critiche nei confronti delle avanguardie. Risalgono al 1911, nel pieno della risonanza europea del futurismo, queste affermazioni: «Leggo le prodezze di Marinetti Boccioni e Compagnia: ma bravi, ma bravi! è così che quella gente intende insediare il futuro: tornando all’età del cimpanzè! Mi rincresce solo d’aver considerato una volta coraggiosi tali volgari mascalzoni».3
La ricerca poetica di Ungaretti per «insediare il futuro» è indirizzata a considerare i propri stati psicologici, sempre legati alla sua biografia, come tappe per conoscere la realtà, per un disvelamento anche di carattere esistenziale.
Da qui la scelta del titolo unitario delle sue opere: Vita d’un uomo. Un mondo, quello d’inizio secolo, con le proprie contraddizioni ideologiche e sociali, che Ungaretti percepisce soprattutto attraverso un linguaggio letterario retorico e inattuale. Forse nessuno come lui ha dato voce alle inquietudini del suo tempo, innovando l’espressione poetica, avvalendosi dapprima di una musicalità aspra, con le parole messe in ordine come pietre squadrate, «come epigrafi, e come in un granito durissimo» per poi, in un secondo tempo, ritrovare il canto della lingua italiana, con il battito del cuore che – diceva – «volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di una terra disperatamente amata».4
In questo laborioso percorso è determinante, per stimoli e chiarimenti, l’incontro a Parigi nel 1913 con il poeta Guillaume Apollinaire; così come lo sono le successive visite a Parigi nel 1918 durante i giorni di licenza, fino all’ultima il 9 novembre, giorno dell’Armistizio, in cui Ungaretti trova inaspettatamente l’autore di Alcools e dei Calligrammes con il volto coperto da un panno nero e la madre e la moglie che piangono. «Fra Apollinaire e me era avvenuto un avvicinamento insolito. Sentivamo in noi il medesimo carattere composito e quella difficoltà che l’animo nostro aveva di trovare la via di assomigliare a sé stesso, di costituire la propria unità. Quell’unità non l’avremmo mai trovata altrove se non ricorrendo alla poesia. Era la ricerca, era il ritrovamento di un linguaggio liberatore se riusciva a manifestare l’angosciosa ricerca di sé».
Apollinaire, che condivide con Ungaretti una concezione di vita come incessante vagabondaggio fino a spingere lo sguardo nella dimensione dell’infinito, nell’immensità degli spazi eterni, rappresenta in una fase decisiva della formazione di Ungaretti una guida sicura contro un diffuso empirismo poetico al quale opporre lo spirito creatore in una dialettica che tende a proseguire la grande linea classica, nel desiderio, anche nell’azzardo, di rispondere ai richiami attuali.
Ungaretti, in ricordo di Apollinaire, nel 1919 scrive la prosa Pittura, poesia, e un po’ di strada e nel 1967, in occasione dello scoprimento di una lapide vicina alla casa romana (poi distrutta) dove visse Apollinaire, traccia un toccante profilo che si chiude con queste parole: «Amava l’Italia, la Francia, la Polonia, ma se amava tanta civiltà, la civiltà, non poteva essere, non era un nazionalista. Non era nemmeno un uomo di parte né un uomo di classe. Era, Guillaume Apollinaire, un partigiano della libertà, nutriva il sogno che sulla terra potesse avvenire un giorno l’ora di tutte libere, le persone umane. Utopia». Aggiungendo:
“MA I POETI NON POSSONO ESSERE SE NON UTOPISTI, POICHÉ SONO IL SALE DELLA TERRA.5”
RAGIONI CULTURALI E CIVILI
Da Alessandria d’Egitto l’8 luglio 1911 Ungaretti scrive a Giuseppe Prezzolini, fondatore e anima della rivista La Voce: «Caro Prezzolini, per quanto la mia attestazione nulla valga, mi aggiunga ai numerosi che considerano la sua opera non solo onesta, ma indispensabile alla rigenerazione della nostra vita nazionale. Chi viva lontano d’Italia, e non disponga che di mezzi… strani… di cultura, può forse meglio d’altri apprezzare l’efficacia della vs attività. Una volta, se ne ricorderà ella, ebbi a esprimere queste mie impressioni in un articolettuccio riguardante la sua Voce, sull’unico quotidiano italiano d’Alessandria. […]».6
L’anno successivo Ungaretti, grazie ai risparmi della madre, sarebbe partito per l’Europa per seguire gli studi universitari a Parigi, spinto da un ardente desiderio di emergere, di contribuire a creare un’italianità nuova, di raggiungere la “terra promessa”. Da ragazzo, e poi per sempre, manifesta uno spiccato interesse per le espressioni e i mutamenti della società, per le ingiustizie con l’iniqua distribuzione della ricchezza, con un coinvolgimento che lo potrà condurre a errori e ingenuità.
Alessandria d’Egitto, nella quale vive fino a ventiquattro anni, è nel vero senso della parola, un porto di mare: si incontrano cristiani di diverso orientamento, musulmani ed ebrei, occidentali e orientali; un’umanità varia che Ungaretti inizia a conoscere dall’infanzia frequentando amici di tutte le religioni e di tutte le etnie. È allattato da una balia sudanese, Bahita, e cresciuto con le favole di una “vecchina” delle Bocche di Cattaro che abita con la famiglia dopo la morte del padre: «Nella povertà della nostra casa – racconta Ungaretti ‒, che era fuori porta in una zona in subbuglio, entrava Anna con le sue storie, i suoi cuscini di seta e i tappeti e le tende segrete. Nel bisbiglio la mia curiosità riusciva a percepire che quelle meraviglie erano un modo di tenermi all’oscuro di qualche cosa».7
Intorno ai vent’anni Ungaretti si dichiara anarchico e ateo, scopre la “Baracca Rossa” di Enrico Pea, di sette anni maggiore, emigrato nel 1896 dalla Versilia. È uno stanzone ricavato sopra una falegnameria, sede di incontro di santoni, idealisti, emarginati e giramondo che in quel locale con le lamiere esterne tinteggiate di rosso istituiscono una specie di università popolare. Ungaretti e il compagno di scuola Sceab ne sono assidui frequentatori. Sebbene si ribelli al cattolicesimo rigoroso della madre che cerca di educare i figli alla religione, da alcuni suoi articoli e da lettere agli amici traspare già in questi anni un travaglio interiore, insieme a una sicura conoscenza dei testi biblici. E se la vera conversione religiosa di Ungaretti avviene durante la Settimana Santa a Subiaco nel 1928, dalla trincea il 29 giugno 1916 compone tre liriche di riflessione spirituale, sono Peso, Dannazione, Risveglio.
Dal 1909 inizia a collaborare con alcuni giornali del posto, scrive novelle e articoli di varietà sul Messaggero Egiziano, un quotidiano in lingua italiana di Alessandria; tra recensioni e prose d’invenzione, spicca l’accusa alla società contemporanea di non riconoscere e addirittura di sfruttare il lavoro degli artisti e dei poeti, ridotti a impieghi impropri e spesso alla povertà. Per quanto possa apparire un topos letterario ricorrente, sin dall’adagio oraziano «carmina non dant panem», il problema toccherà Ungaretti non solo idealmente, ma concretamente per larga parte dei suoi anni, costringendolo a peregrinazioni ed esili.
In un articolo del 3 maggio 1911, poco precedente alla lettera sopra ricordata a Prezzolini, intitolato Per i bimbi di Emilio Salgari, biasima l’avidità e il cinismo degli editori che hanno portato il romanziere al suicidio. Ungaretti lancia un appello ai giovani d’Alessandria per aiutare con una colletta i figli dello scrittore. È uno tra i primi episodi in cui il poeta mette la propria penna al servizio di una causa di natura culturale e sociale; con il passare degli anni e con l’accresciuto prestigio letterario la sua voce risuonerà dalle assemblee di organizzazioni nazionali e internazionali nelle quali siederà con incarichi di rappresentanza: dall’Unesco alla Comunità europea degli Scrittori, dalla Società europea degli Artisti alla Società europea di Cultura.
La sua sarà una partecipazione diretta alle vicende della cronaca e della storia, animato da una spontanea generosità e da un ponderato senso di giustizia.
Quando non riesce a intervenire attraverso la carta stampata, come negli anni sul Carso, le cartoline in franchigia e le lettere diventano per il poeta un insostituibile strumento per esprimere critiche, per promuovere iniziative culturali, per difendere presso i politici i diritti dei più deboli. Durante il ventennio fascista si rivolge all’amico Corrado Pavolini, fratello del gerarca Alessandro, per agevolare il rientro in Italia di Giorgio de Chirico e di Alberto Savinio esuli a Parigi, come denuncia nel 1935 lo stato di indigenza in cui si trova lo scultore Pericle Fazzini espulso ingiustamente dal Pensionato artistico. Nel 1962 con la medesima veemenza si appellerà all’allievo e amico Leone Piccioni perché offra una degna collaborazione a un’altra esule, la filosofa spagnola María Zambrano.
Nota è la sua presa di posizione pubblica contro le leggi razziali alla fine del 1938, durante una visita in Italia dal Brasile, che gli costa un breve arresto; un esiguo carteggio inedito con Bertrand Russell documenta che il filosofo inglese tra il 1963 e il 1965 rivolge a Ungaretti alcune lettere invitandolo a firmare un documento contro l’antisemitismo del governo russo. E nel gennaio 1966 Ungaretti partecipa a Milano a un convegno sulla situazione degli ebrei in Russia.
Indicativa di quest’agire ungarettiano può essere una vicenda accaduta a Parigi nel novembre del 1960, a dieci anni dalla sua nomina a presidente della sezione culturale della commissione nazionale dell’Unesco. Si tratta, come confessa a Piccioni, di una iniziativa che gli sta molto a cuore e che si concluderà anni dopo con un successo: «i monumenti della Nubia da salvare, e […] sostenere il progetto di cavatori maremmani che ne potrebbero salvare almeno il più insigne con la minima spesa, e con la maggiore sicurezza di conservazione nell’avvenire».8
Nel 1960 il presidente egiziano Nasser aveva iniziato i lavori per la costruzione della diga di Assuan, opera che prevedeva la formazione di un enorme bacino artificiale. Il progetto rischiava di cancellare i templi egizi di Abu Simbel. Grazie all’intervento dell’Unesco, ben centotredici Paesi si attivarono inviando uomini, denaro e tecnologia, per spostare in altro luogo i templi. L’operazione, come auspicato da Ungaretti, venne tecnicamente diretta da esperti cavatori di marmo italiani. Nel 1962, sempre a Parigi, rimase memorabile l’accorato discorso di Ungaretti in difesa dei templi. Sebbene gli inglesi ironizzassero sull’impresa, sul quotidiano londinese The Guardian, fu enfatizzato il «nobile discorso del gran poeta ottantenne». Ungaretti, sicuramente fiero per l’articolo, si rammaricava perché in realtà di anni ne doveva ancora compiere settantacinque.
Il 15 maggio 1963 il poeta si appella alla figura e all’opera di papa Giovanni XXIII che definisce un santo (papa Roncalli sarebbe morto da lì a poche settimane), per sollecitare il partito della Democrazia cristiana a una politica partecipe e attenta ai bisogni dei poveri. Ungaretti è convinto che la DC, con una programmazione approssimativa e senza valori morali rinnovati, nelle successive elezioni non avrebbe preso più di «dieci voti». Il monito del poeta è che il partito indichi delle scelte socialmente efficaci e specifica: «il Socialismo non è materialismo storico. Ma il riconoscimento dell’importanza che hanno le masse nella società attuale, e il diritto degli uomini, il diritto umano di ciascun uomo, favorito ormai dalla trasformazione del mondo dovuta ai nuovi mezzi dell’uomo, ad avere quasi gli stessi privilegi degli altri uomini. Bisogna che i pochi ricchi, ‒ continua ‒ si rassegnino in favore dei molti poveri, ad essere moltissimo meno ricchi».9
“Fratello” sin dal libro Il Porto Sepolto del 1916 è una delle parole chiave del paradigma poetico di Ungaretti: «Di che reggimento siete / fratelli / parola tremante / nella notte […]» e resta attiva per l’intera vita del poeta.
Molte lettere agli amici, dai toni impetuosi talvolta amaramente polemici, sono dettate da un senso di giustizia ed equità, esercitato con spirito di solidarietà e fratellanza.
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