Capitolo 1
Dall’illegalità alla legalità, da schiavi a persone,
da barbari a creatori
Le storie che ho ascoltato mentre partecipavo alle attività del Gruppo di Capoeira Angola Pelourinho – GCAP mi hanno portato alla ricerca d’archivio tra i diari di viaggiatori europei nel Brasile del XIX secolo e tra le notizie dei giornali dell’inizio del XX secolo, con particolare attenzione ai testi che ritraggono storie avvenute a Bahia. Il GCAP ha infatti sede nella città di Salvador, capitale dello stato di Bahia, situato nel nord-est del Brasile. In questi documenti ho trovato tracce che ci parlano un poco delle pratiche culturali, artistiche e religiose delle popolazioni africane e dei loro discendenti in Brasile. Si tratta di informazioni fondamentali per comprendere l’attuale immaginario della capoeira e la creazione di un’identità e di un progetto socio-politico, che i capoeiristi del GCAP hanno sviluppato negli anni. Con l’immaginario intendo qui una costruzione condivisa, formata dalla rilettura in gruppo di documenti orali, scritti e registrati, di testi e di immagini, una lettura mediata dalla pratica collettiva della capoeira. In questo senso, per i capoeiristi, l’immaginario è uno strumento attivo e fondamentale per produrre conoscenza. La propria pratica della capoeira, le dinamiche rituali, i cosiddetti fondamenti e le caratteristiche che presento nei prossimi capitoli di questo libro, mi hanno invitato a ricercare in questi documenti le tensioni culturali in corso tra le varie popolazioni che abitavano la Bahia, mettendo in evidenza i continui incontri, gli scontri e le mediazioni. In questa rilettura sono apparsi in modo molto chiaro e marcato i pregiudizi e l’oppressione subiti da queste popolazioni, ma sono anche emersi i costanti tentativi di innovazione di questa condizione.
Dalla prospettiva dominante del testo scritto, i documenti che ho consultato mostrano che le pratiche culturali e artistiche delle popolazioni afro-brasiliane si sono sviluppate nei secoli subendo l’incomprensione e la repressione della società brasiliana e europea. Nei loro diari, infatti, i viaggiatori registrano il senso di estraneità che provano all’arrivo nel nuovo paese, il fastidio per la vista di molti neri e in virtù “dell’insopportabile rumore” che questi producono. Testi che rivelano la mancanza di relazione con quell’ambiente sociale e l’intolleranza con il diverso. Non si deve dimenticare che nel XIX secolo, la capoeira, così come altre pratiche culturali e religiose, veniva realizzata illegalmente, repressa da leggi, decreti e punizioni, che definivano una strategia di contenimento dei conflitti e delle ribellioni degli schiavi. Parlando di capoeira è importante evitare di relazionare rigorosamente ciò che conosciamo oggi a ciò che in quel periodo era definito con quel nome. Già agli inizi del XX secolo, in un contesto post-schiavistico, le notizie dei giornali e i rapporti della polizia rivelano ciò che la classe medio-alta del tempo leggeva e come questi mezzi di comunicazione furono ampiamente utilizzati per diffondere una visione criminalizzata delle pratiche culturali nere, come appunto la capoeira.
Le prime ricerche sulla cultura e sulla poesia orale in Brasile sono state un altro cammino che ho percorso, tentando di capire come gli studi scientifici abbiano contribuito alla creazione di un immaginario collettivo della capoeira1. Da un lato, difendendo l’importanza del ruolo che le culture represse, come quelle africane e indigene, hanno assunto nella “formazione di una identità brasiliana”, ma, da un altro lato, creando incomprensioni e cambiando equilibri. La prospettiva positivista, che questi ricercatori hanno adottato, ha portato avanti alcuni fraintendimenti nello studio delle culture afro-discendenti, alcuni dei quali sono di grande interesse per l’attuale ricerca sulla capoeira. Mi riferisco, per esempio, ai dualismi autenticità/innovazione o tradizione/modernità che hanno fortemente influenzato la comprensione e la costruzione di un discorso teorico sulla capoeira angola. Sono posizioni che oggi interpreto alla luce del confronto tra diversi segmenti sociali e dei loro diversi modi di posizionarsi nel mondo. In questo libro provo a evidenziare la creatività e il dinamismo che tali tensioni hanno prodotto. Mi pare infatti che questi studi non abbiano sviluppato solo teorie errate o parziali, ma abbiano influenzato gli attori culturali con cui sono entrati in contatto.
In questo senso rileggo i manoscritti dei mestres di capoeira angola Pastinha e Noronha, entrambi pubblicati negli anni Sessanta, presentando alcune questioni che questi membri e portavoce del gruppo della Gengibirra, conosciuto oggi come “vecchia guardia” della capoeira di Salvador, hanno proposto. Questi manoscritti sono una fonte primaria del pensiero dei mestres e suggeriscono una visione subalterna dei processi che dagli anni Trenta hanno portato la capoeira a assumere il suo attributo “angola”. Quest’associazione, suggeriscono i manoscritti, deve essere letta come un posizionamento politico, che rivendica un’identità afro-discendente, di fronte a una società che stava cambiando profondamente.
“Prima dell’Ave Maria”: dal batuque alla capoeira
Il XIX secolo a Bahia è descritto dagli storici (tra gli altri: Verger, 1987; Reis, 2003; Silveira, 2006;) come un periodo allo stesso tempo di grande instabilità politica e di prosperità. Dopo la rivoluzione di Haiti (1791-1804) e il conseguente declino del più grande fornitore mondiale di zucchero, la Bahia ha incrementato la produzione di quel prodotto con un forte aumento delle esportazioni. L’economia della schiavitù tipica degli engenhos do açucar si trovò quindi a dover rafforzare la mano d’opera, intensificando il traffico transatlantico (Reis, 2014, p.76). Verso il 1835, il 42% della popolazione di Salvador era composta da schiavi, di cui il 63% erano nati in Africa (Reis, 2003 p.24).
Inoltre, dal 1804, dall’altra parte dell’Atlantico, nell’Africa occidentale, i musulmani puristi affiliati ai Fulani dichiararono la jihad nei territori di Hausa, un conflitto interno alla comunità musulmana che mirava a purificare l’Islam da pratiche e comportamenti considerati devianti, tra cui il sincretismo con le credenze pagane locali, la fedeltà verso alcuni governanti e la schiavitù dei musulmani (Reis, 2014, p. 72). All’inizio del XIX secolo, la maggior parte degli africani ridotti in schiavitù che furono imbarcati dalle Costa del Benin verso la Bahia erano prigionieri della guerra santa; persone appartenenti a diversi rami della religione musulmana di fulanis, haussás, bornos, baribas (naturale di Borgu), tapas (di Nupe) e nagos (di Oyó), hanno visto la loro presenza notevolmente aumentata nel traffico. Tra i popoli schiavizzati in quel momento c’erano anche i nagos non musulmani, prigionieri per conflitti legati alla caduta dell’impero yoruba di Oyo.
Secondo gli storici, l’alta incidenza di ribellioni che avvennero a Salvador e nel Recôncavo tra il 1807 e il 1835, anno in cui avvenne l’importante rivolta dei malés2, deve essere ricercata nelle questioni politiche e religiose legate all’Islam, che circolavano in abbondanza in quel periodo. Sempre in quegli anni ci furono le insurrezioni nago non legate alla religione musulmana poiché vi era una grande presenza di prigionieri di guerra, schiavizzati nei conflitti legati alla caduta dell’impero yoruba di Oyo. Bisogna poi anche contare le cospirazioni e le rivolte di ex-schiavi di varie nazioni e uomini liberi influenzati dalle idee rivoluzionarie che circolavano apertamente a Bahia, come le notizie di ribellioni di schiavi che avevano ottenuto successo a Cuba e Haiti.
Le rivolte avvennero in un momento di crisi dell’egemonia signorile in una Bahia politicamente divisa tra conflitti e instabilità politica, e sfociarono nell’uso della forza e nella continua repressione, che i governatori di Bahia riservavano ai neri sia schiavi che liberi. Una delle risorse che le autorità adottarono per reprimere questa grande popolazione nera e per contenere le ribellioni fu di rafforzare il divieto indiscriminato di raggruppamento dei neri, che veniva applicato da più di un secolo. A Bahia, nel settembre del 1672, un documento ufficiale della Camera Municipale di Salvador, applicava una multa di 6 mila reis per l’uso di tamburi, atabaques, in città e, nel 1716, la direttiva venne estesa all’uso di marimbas nei confini della città, mura e spiagge.
João de Saldanha da Gama Melo Torres Guedes Brito, sesto Conte del Ponte, che governò la Bahia tra il 1805 e il 1809, esercitò una politica di tolleranza zero, deciso a sterminare l’uso dei batuques3, considerati pericolosi strumenti, agitatori e provocatori di ribellioni. Oltre a proibire i batuques, il Conte istituì il coprifuoco all’Ave Maria, così era chiamato il rintocco del campanile al sopraggiungere della sera, per ogni schiavo che non fosse in possesso del salvacondotto del suo padrone, che giustificasse alle autorità il bisogno di circolare nelle strade dopo l’orario consentito. Chiunque infrangesse questa legge avrebbe potuto essere condannato a 150 frustate.
Nonostante le pratiche considerate superstiziose, o stregonerie, fossero perseguitate e venissero applicate pene severe a chi infrangesse proibizioni del governo, il Conte del Ponte (come citato in Rodrigues, 1932, p. 235) lamentava che gli ordini non venissero rispettati e che i neri si riunissero a loro piacere “quando e dove vogliono”, ballando e suonando “rumorosi e dissonanti batuques in tutta la città e a tutte le ore; negli arraiais e feste erano solo loro che s’impadronivano dal terreno di festa, interrompendo qualsiasi altro ritmo o canto”.
Al Conte del Ponte succedette, tra il 1810 e il 1818, Marcos de Noronha e Brito, ottavo Conte degli Archi che, percependo l’impossibilità di estinguere i batuques, decise di permettere agli schiavi di realizzare le loro feste, ma restringendone la pratica a luoghi e tempi prestabiliti e, comunque, sempre sotto il controllo della polizia, mettendo in pratica l’antica strategia di guerra “divide et impera”. Secondo il Conte degli Archi questi incontri favorivano momenti di unione tra neri di nazioni diverse e, poco a poco, l’oblio delle vecchie rivalità, guerre e divisioni politiche che avevano portato dall’Africa, promuovendo solidarietà e amicizia tra i vari gruppi. Tale unione tra i diversi africani costituiva, secondo il Conte (come citato in Rodrigues, 2010, p.166), un grande pericolo per la governabilità del Brasile. Sia la repressione forzata promossa dal Conte del Ponte, che quella velata adottata dal Conte degli Archi, svolsero anche la funzione di diffondere paura e sfiducia tra i signori. Questi credevano in un possibile beneficio delle feste, che “distraevano e rigeneravano” gli schiavi dopo aver portato a termine il l...