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Perché siamo futuristi
Informazioni su questo libro
Perché siamo futuristi è una delle opere più importanti del futurismo, un libro fondamentale per lo sviluppo dei movimenti artistici d'Avanguardia che si sono affermati nel Novecento. È l'unico testo teorico scritto da Boccioni e si rivelerà essenziale per la formulazione del pensiero futurista, così come indispensabili furono per le Avanguardie gli scritti di Kandinskij, Malevi? e Mondrian. In esso sono enunciati i canoni artistici futuristi, in opposizione all'Accademia e al borghesismo del tempo.
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Informazioni
Argomento
FilosofiaCategoria
Storia e teoria della filosofiache cosa ci divide dal cubismo
La confusione che fanno continuamente i critici-giornalisti, più per ignoranza che per malafede, tra Futurismo e Cubismo, mi spinge a chiarire e sottolineare alcune delle diversità che ci dividono dai cubisti.
Inutile che io ripeta qui quello che ho scritto in articoli e detto in conferenze sulla stima, a dispetto degli incompetenti, che noi nutriamo verso i nostri amici di Francia. Parlerò di quello che è, secondo noi futuristi, il loro errore fondamentale: una specie di vizio d’origine malgrado il quale essi sono stati all’avanguardia della pittura europea fino ad oggi.
Mi servo del nome di Cubismo per intenderci, volendo parlare del gruppo che più assiduamente espone e combatte sotto questo nome per una pittura più astratta, per una nuova costruzione del quadro, una sistematica e violenta reazione all’impressionismo. In realtà il nome Cubismo non comprende una tendenza ben definita. Scaturì da una esclamazione allegra di Matisse, ebbe celebrità perché compreso nel senso di ciò che non vuol dire, ed oggi dopo tre anni si disgrega e si trasforma. Intorno ai cubisti vi sono altri giovani pittori che rappresentano già un’evoluzione, preparano opere più avanzate e profonde completamente diverse, opposte a ciò che realmente dovrebbe formare la scuola cubista.
Prima che del Cubismo, però, debbo parlare di Pablo Picasso, senza soffermarmi ad analizzare e a considerare la priorità delle ricerche cubiste e le divergenze più o meno spiegabili tra lui e i cubisti.
Picasso rappresenta la punta estrema del rinnovamento impressionista. E come tutte le evoluzioni estreme ne offre già la negazione, ma una negazione che non giunge ad organizzarsi. In questo artista noi vediamo giunto al massimo l’accertamento dei valori plastici incominciato da Cézanne. Nelle opere dell’ultimo periodo lo studio della forma s’incammina sempre più verso un concetto fondamentale basato sulla conoscenza oggettiva della realtà. Passata la prima sorpresa però ci si accorge che questo concetto formale è il risultato di una impassibile misurazione scientifica, la quale distrugge ogni calore dinamico, ogni violentazione e ogni varietà marginale nelle forme. Invece questo calore dinamico, questa violentazione e varietà marginale, fanno vivere le forme fuori dall’intelligenza per proiettarle nell’infinito. Risultato questo dell’emozione plastica, della sensazione delirante, della intuizione.
La misurazione scientifica di cui parlo si opera attraverso un punto di vista circolare, che fa dell’artista un analizzatore della fissità, un impressionista intellettuale della forma pura. Infatti Picasso copia l’oggetto nella sua complessità formale, decomponendolo e numerandone gli aspetti. Egli si crea così l’incapacità di viverlo nella sua azione. E non lo potrebbe perché il suo procedimento, cioè l’enumerazione di cui parlo, arresta la vita dell’oggetto (moto) ne distacca gli elementi costitutivi e li distribuisce nel quadro secondo un’armonia accidentale inerente all’oggetto. Però l’analisi dell’oggetto si fa sempre a spese dell’oggetto stesso: cioè uccidendolo. Di conseguenza se ne estraggono elementi morti coi quali non si riuscirà mai a comporre una cosa viva. Per quanto si parli di arabesco vivo e dell’individualità astratta d’una composizione qualsiasi come puro insieme emotivo di piani, di volumi e di linee, noi futuristi proclamiamo che la pittura marcia verso una comprensione dell’oggetto più sintetica e significativa.
Picasso dunque arrestando la vita nell’oggetto uccide l’emozione. Altrettanto facevano gli impressionisti con la luce. La uccidevano decomponendola nei suoi elementi spettrali. Sono fenomeni di analisi scientifica necessaria come rinnovazione, ma da superarsi.
Un quadro di Picasso non ha legge, non ha lirismo, non ha volontà. Presenta, svolge, sconvolge, sfaccetta, moltiplica i particolari dell’oggetto all’infinito. Lo spaccato dell’oggetto e la fantastica varietà d’aspetti che possono assumere nel suo quadro un violino, una chitarra, un bicchiere eccetera, creano una meraviglia analoga a quella che ci dà l’enumerazione scientifica dei componenti di un oggetto che fino ad oggi avevamo considerato, per ignoranza o per tradizione, nel suo insieme di unità. Era una scoperta fatale, necessaria nell’arte. È il portato prezioso di una elaborazione, ma non è ancora l’emozione o, per lo meno, è solo un lato dell’emozione. È l’analisi scientifica che studia la vita nel cadavere, che disseca i muscoli, le arterie, le vene, per studiarne le funzioni e scoprire le leggi della creazione. Ma l’arte è già creazione per sé stessa e non vuole accumulare conoscenze. L’emozione in arte vuole il dramma. L’emozione, nella pittura e nella scultura moderne, canta la gravitazione, lo spostamento, l’attrazione reciproca delle forme, delle masse e dei colori, cioè il movimento, cioè l’interpretazione delle forze. Prefiggersi come unico scopo l’analisi integrale del volume e dei corpi è un arresto. Il continuare a farlo è voler creare contro natura. È concepire di nuovo l’oggetto in un assoluto immutabile ormai distrutto e scomparso dalla nostra concezione della vita. Ripeto quello che dicevo nel capitolo precedente, perché questa è la chiave del “dinamismo” che noi futuristi italiani abbiamo creato. Oggi la nostra evoluzione mentale non ci permette più di vedere un individuo o un oggetto isolati dal loro ambiente. In pittura e in scultura l’oggetto non vive la sua realtà essenziale se non come resultante plastica tra oggetto e ambiente. Picasso ha voluto osservare e riportare più lati dell’oggetto e disporli sul quadro in modo che le forme dell’ oggetto-ambiente non vi partecipino che come elementi accidentali circostanti. Per ottenere questo, ha inventata una schematica nella quale le nozioni che ne formano l’ossatura si velano di mistero con pena estrema perchè sfiorano le frontiere dell’arte. Ma rimangono ancora nozioni e quindi sono fuori dell’arte, quindi dell’emozione.
Evitare, come egli ha fatto, lo studio delle relazioni, delle forze tra oggetto e oggetto, equivale a perdere la sintesi e il moto limitando l’ispirazione. Infatti il suo quadro è sempre la enumerazione degli aspetti di un oggetto centrale, commentato dai diversi aspetti dell’ambiente circostante. Concezione quanto mai tradizionale malgrado il punto di vista circolare.
L’oggetto e l’ambiente non sono visti come una nuova unità di forze contradditorie e in evoluzione. Inoltre è impossibile far vivere due oggetti, cioè l’azione delle loro reciproche influenze, analizzando ad una ad una le parti che li compongono. Quest’analisi superiore è una stilizzazione dell’analisi nordica. Essa dà un risultato analogo, come emozione, a quello che dànno gli antichi quadri composti di figure-ritratto. L’analisi psicologica oggettiva delle figure, uccideva l’unità, il calore, l’azione, che sono le basi fondamentali della creazione nell’opera d’arte. Il quadro perciò rimaneva negativo. L’aumento di fissità generato dall’analisi fa perdere a Picasso il senso del volume che era una delle principali volontà di Cézanne. L’estrema analisi del volume lo ha condotto di lavoro in lavoro ad un’abbreviazione della rappresentazione dei corpi. Egli ha finito col dare l’accenno, l’indicazione della forma. Egli dà, invece del volume, la formula equivalente. Quindi, data la trasparenza e malleabilità di queste forme o schemi di forme, ne risulta la possibilità di moltiplicarle all’ infinito. Di qui l’intricatissimo arabesco picassiano.
È certo che il volume inteso come alcuni cubisti lo intendono porta al monumentale, cioè al «grandioso» passato, al quadro, a Michelangelo, a Raffaello, a Poussin, a David, a Ingres, ecc., e Picasso odia la grande machine, come egli mi diceva, e disprezza ciò nei cubisti. Ha torto e ragione. Ragione perché se si deve cadere nella vecchia composizione di immagini è meglio limitarsi a fare della forma per sé stessa. Ha torto perché è fatale che con elementi di forma e colore resi più astratti degli antichi, l’artista cerchi di costruire un dramma più astratto dell’antico. Anzi dirò di più: forma e colore non possono vivere se non a patto di definirsi nel dramma – nello stato d’animo plastico.
Nascere, crescere e morire, ecco la fatalità che ci guida. Non marciare verso il definitivo è un rifiutarsi all’evoluzione, alla morte. Tutto s’incammina verso la catastrofe! Bisogna dunque avere il coraggio di superarsi fino alla morte, e l’entusiasmo, il fervore, l’intensità, l’estasi, sono tutte aspirazioni alla perfezione, cioè alla consumazione. Bisogna finirla con le negazioni con il terrore delle realizzazioni. Non bisogna dimenticare che la rivoluzione futurista porta l’arte verso una nuova grande epoca definitiva, classica come dicono gli altri....
E perciò noi futuristi propugnamo il quadro, quindi la composizione, e la legge, quindi l’ordine e la scala nei valori plastici. Ma per noi il quadro non è quello che esaminerò nei cubisti; non è l’enumerazione analitica di Picasso o di Braque, ma è la vita stessa intuita nelle sue trasformazioni dentro l’oggetto e non al di fuori.
Noi siamo d’accordo con Picasso quando vuol distruggere la pittura, perché anche noi lavoriamo in Italia da parecchi anni (prima isolati, poi uniti nella solidarietà futurista) per distruggere tutto il vecchio pittorico idiota tradizionale realistico, decorativo, affumicato, di museo, ma sbaglia profondamente quando non s’accorge che la ricerca di elementi astratti non conduce ad una costruzione astratta. Questa costruzione ci ha fatto fino dal 1° manifesto proclamare il soggetto in arte come necessità, ed è questa costruzione che dà alla nostra pittura futurista un carattere profondamente italiano.
Se abbiamo adunque in Picasso uno sforzo che tende ad uscire dall’artistico convenzionale (e in questo aiutato da trent’anni e più di pittura francese) i cubisti al contrario vi precipitano. Se nel primo troviamo un’astrazione che va fino alla aridità, propria della razza spagnuola alla quale appartiene, (gli spagnuoli sono sempre stati, nel passato, gli analitici più stilizzati) noi futuristi veri italiani sereni ed equilibrati troviamo nei cubisti il freddo buon gusto accademico francese.
È infatti alla tradizione francese che i cubisti e i loro critici fanno sempre appello.
Si può parlare di tradizione francese? Se ne può parlare rispetto ai cubisti, che vogliono creare un tipico universale e ricercarlo risalendo e riallacciandosi alla tradizione francese? La Francia, pittoricamente, non ha mai accennato alla realizzazione di un ideale convenzionale. Ha sempre ondeggiato tra l’arte fiamminga, della quale è un ramo latinizzante, e l’arte italiana, veramente latina.
Quando diciamo scultura greca o pittura italiana o pittura fiamminga, la nostra mente afferra immediatamente dei cicli omogenei, delle continuità storiche nell’espressione plastica d’una razza. A cosa pensiamo invece quando diciamo pittura tedesca? A dei mostri imbalsamati realizzati da creatori stitici. A che cosa pensiamo quando diciamo pittura spagnuola? A qualche pittore, a qualche ritratto... A che cosa pensiamo quando diciamo pittura francese? A studi parziali della realtà, che si susseguono da Foucquet agli impressionisti e rappresentano i caratteri tradizionali della razza francese, e che lottano disperatamente contro tentativi di stile completamente ispirati dalla cultura e purtroppo sempre trionfanti in Francia.
Io dunque chiamo tradizione in arte lo svolgersi logico fatale continuo dell’idealità d’una razza al di sopra dei ritorni e delle simpatie o delle influenze delle scuole o delle mode straniere.
Quello che nella pittura e nella scultura francese può dirsi veramente grande, è stato sempre un gotico temperato di sobrietà e alleggerito di eleganza. Anche gl’impressionisti con il loro esempio di genialità collettiva (di collaborazione) hanno confermata la tradizione gotica in uno dei suoi principali caratteri. L’Impressionismo è pittoricamente parlando la cattedrale della modernità.
Può da questo fondo gotico scaturire, rimanendo francese, uno stile universale? Noi futuristi italiani lo neghiamo. Uno stile universale non soltanto per l’Europa ma per tutti gli uomini di razza bianca non può rifiorire altrove che in Italia. Anche alla fine del 300 e nei primi del 400, l’arte gotica era all’apogeo, ma la sua poesia realista dovette emigrare in Italia per trovare lo sbocco nell’oceano michelangiolesco. Osserviamo se anche oggi non si mani...
Indice dei contenuti
- nota introduttiva di Valentina Pudano
- perché siamo futuristi
- contro il paesaggio e la vecchia estetica
- contro la vigliaccheria artistica
- pubblico moderno nella vita, passatista in arte
- contro l’ossessione della cultura e contro il monumento nazionale
- perché non siamo impressionisti
- impressionismo
- che cosa ci divide dal cubismo