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Informazioni su questo libro
Chi l'avrebbe detto che uno scrittore pluripremiato, autore di oltre
50 romanzi e per anni direttore degli «Oscar» Mondadori, avesse
un background salgariano? Eppure Ferruccio Parazzoli, come tanti
altri ragazzi, ha veleggiato per gli oceani con il Corsaro Nero e
combattuto nelle giungle con Janez e Sandokan.
In queste pagine Parazzoli racconta il «suo» Salgari. Attraverso
gli snodi della narrativa salgariana – la prateria, giungle e foreste,
il mare, i deserti e i ghiacci – il lettore rivivrà un'epopea fatta non
solo di ricordi, verificando le tracce che la letteratura di fantasia
ha lasciato nell'immaginario collettivo.
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
Critica letteraria modernaCapitolo II
Giungle & foreste
La giungla nera
Il mio ingresso nelle giungle salgariane avvenne penetrando nella Jungla Nera. Fu il caso che mi portò a incontrare Tremal-Naik quando era ancora il formidabile cacciatore di serpenti nella capanna nascosta tra le mortifere Sunderbunds insieme alla fedele tigre Darma e all’intrepido Kammamuri.
I misteri della Jungla Nera vengono posposti da alcuni curatori, come Mario Spagnol, a Le tigri di Mompracem, altri lo antepongono. È una sottile questione di date di pubblicazione. Ma io sono ben lieto del mio ingresso inatteso, casuale, diretto, nel cuore delle più buia delle giungle salgariane, quella infestata dai feroci thugs, la setta dei micidiali strangolatori adoratori della crudele dea Kalì.
Tremal-Naik ne è il protagonista indiscusso, il suo amore disperato per Ada, la «Vergine della pagoda», viene prima di quello altrettanto focoso di Sandokan per Marianna, la «Perla di Labuan». Sandokan non ha ancora invaso la scena, lasciando a Tremal-Naik solo la parte, anche se di ottimo piano, di suo luogotenente, o di bisognoso di aiuto.
La mia prima giungla, quella Nera, sono convinto che fu anche la prima giungla di Salgari. La giungla è la vera protagonista di tutto l’avventuroso e un po’ intricato romanzo, poiché è la giungla che permette o non permette di vivere, poiché la giungla vive con i suoi agguati, con i suoi misteri, le sue ricchezze, i suoi veleni.
Le Sunderbunds, al delta del Gange:
Nell’ampia fascia costiera formata dal delta del Gange, in quella regione di isole e paludi, si elevano fitte foreste impenetrabili.
Così ci presenta Salgari il luogo mefitico in cui si svolgerà l’intero romanzo. Il grande illustratore Rino Albertarelli ne darà un’immagine affascinante.
«È qui», si presenta Tremal-Naik «tra questi deserti di spine, fra queste paludi, sulla terra delle tigri e dei serpenti, che io sono nato e cresciuto, e qui, nella mia cara jungla morirò».
È nella giungla, mentre è in cerca di serpenti, che Tremal-Naik ha la prima, fuggevole visione di Ada: «Nel folto dei bambù, in mezzo a una macchia di mussenda dalle foglie sanguigne». Nell’oscurità della giungla si muoveranno Tremal-Naik e il fido Kammamuri, insidiati dai thugs, per trovare dove sia stata rinchiusa la «Vergine della pagoda», la fanciulla inglese rapita fin da bambina per essere dedicata come sacerdotessa della deaKalì, alla quale dovrà essere immolata come vittima sacrificale quando sarà scoperto il suo amore per il prode cacciatore.
Saltarono sul battello e presero il largo... A destra e a sinistra si estendevano masse enormi di bambù spinosi, di cespugli fitti, sotto i quali si udivano brontolare le tigri e sibilare i serpenti, di erbe lunghe e taglienti, confuse, amalgamate, strette le une alle altre in modo da impedire il passo... In lontananza, però, sulla fosca linea dell’orizzonte, spiccavano qua e là alcuni alberi, dei manghi carichi di frutta squisite, dei palmizi tara, dei latania, dei cocchi dall’aspetto maestoso, con lunghe foglie disposte a cupola...
Ecco già una dimostrazione dell’erudizione di Salgari in fatto di botanica: chi saprebbe dire, senza le odierne ricerche in Wikipedia cosa sono i latania e come sono fatti i palmizi tara?
Si procede:
Un silenzio funebre, misterioso, regnava ovunque, rotto appena appena dal mormorio delle acque giallastre che rendevano i rami arcuati dei paletuvieri (ecco una presenza arborea che ci inseguirà di continuo nell’universo salgariano, tra i paletuvieri si approda, tra essi ci si nasconde rischiando terribili febbri mortifere) e le foglie del loto e dal fruscio dei bambù scossi da un soffio d’aria calda, soffocante, avvelenata.
Più oltre altra esibizione del botanico Salgari:
La via era difficile e intricatissima, il terreno era coperto, fin dove poteva giungere l’occhio, da una rete fitta fitta di bambù che si rizzavano ad un’altezza veramente straordinaria. V’erano colà i cosiddetti bans tulda, coperti di foglie grandissime, i quali, in meno di trenta giorni, acquistano un’altezza che sorpassa i venti metri ed una grossezza di trenta centimetri. I behar bans, alti appena un metro, dal fusto vuoto ma forte ed armato di lunghe spine, ed una varietà numerosa di altri bambù conosciuti comunemente nelle Sunderbunds col nome generico di bans, i quali si stringono così da vicino, che era d’uopo servirsi del coltello per aprirsi un passaggio.
E oltre:
un’ora dopo giungevano in un boschetto di giacchieri, alberi le cui frutta, anziché pendere all’estremità dei rami, escono direttamente dal tronco, d’un bel colore giallo, d’una fragranza straordinaria e del peso di oltre trenta libbre.
È un gigantesco banian, l’albero sotto cui Tremal-Naik e Kammamuri si appostano per scoprire il rifugio dei thugs. Il banian o Fico delle pagode, come lo presenta Salgari, è un gigantesco, spettacolare albero degno della giungla dove cresce ed è venerato.
Hanno l’altezza e il tronco delle nostre più grandi e più grosse querce e dagli innumerevoli rami, tesi orizzontalmente, scendono delle fittissime radici aeree, le quali, appena toccano terra, s’affondano e s’ingrossano rapidamente infondendo nuovo nutrimento e più vigorosa vita alla pianta. Avviene così che i rami s’allungano sempre più generando nuove radici e quindi sempre nuovi tronchi sempre più lontani, di maniera che un albero solo copre una estensione vastissima di terreno. Si può dire che forma una foresta sostenuta da centinaia e centinaia di bizzarri colonnati sotto i quali i sacerdoti di Brahama collocano i loro idoli... Il banian sotto il quale i due indiani stavano per passare la notte era uno dei più giganteschi, fornito di più di seicento colonne sostenenti smisurati rami carichi di piccoli frutti vermigli e con un tronco grossissimo.
La giungla. A differenza di quanto si può pensare non esiste il silenzio assoluto e spesso è percossa da violente tempeste come quella che coglie i due indiani e la tigre Darma nei dintorni di Raimangal, il covo dei thugs.
La notte era tempestosa... Frequenti colpi di vento si slanciavano attraverso le deserte Sunderbunds curvando con mille gemiti le immense piantagioni di bambù, strappando le deboli canne che volavano per l’aria assieme a bande di marabù e di pavoni che gettavano grida disperate. Di quando in quando, poi, un lampo livido, abbagliante, rompeva le tenebre, mostrando quel caos di vegetali contorti ed atterrati seguito poco dopo da un formidabile scroscio che si ripercuoteva fino sulle rive del golfo del Bengala.
Nella seconda parte del libro, quando la situazione di Tremal-Naik si capovolge, costretto per ottenere dal feroce Suyodhama, capo dei thugs, dal quale è stato fatto prigioniero, la liberazione dell’amata Ada, a diventare a sua volta un thug impegnato a uccidere il capitano Macpherson, a sua insaputa padre di Ada, la giungla sembra scomparire o addirittura aprirsi in paesaggi più ampli al passaggio della fregata inglese diretta a distruggere Raimangal.
La notte era limpidissima, illuminata da una luna superba... Le rive, visibili come in pieno giorno, presentavano di quando in quando delle belle vedute, affatto speciali ai fiumi indiani. Ora erano boschi magnifici di palmizi di cocchi dall’aspetto maestoso, con le lunghe foglie disposte a cupola, e di manghi, stretti in mille diverse guise da quegli strani rampicanti chiamati calami che raggiungono di frequente la lunghezza di centocinquanta metri. Ora erano campi sterminati di senapa, i cui fiori gialli spiccavano chiaramente sotto gli argentei raggi dell’astro notturno, oppure piantagioni di indaco, di zafferano, di sesamo, di scialappa, o immense distese di bambù smisurati, in mezzo alle quali andavano e venivano bande di bufali selvaggi, animali veramente formidabili, più temuti delle tigri e che non esitavano ad assalire anche un reggimento di gente armata. Talvolta apparivano miseri villaggi, soffocati da una densa vegetazione... Non mancavano però gli eleganti bungalow sui cui tetti piramidali sonnecchiavano bande di cicogne nere, di ibis brune e di mangiatori di ossa, uccelli giganteschi, avidissimi e molto rispettati dagli indiani, i quali secondo la loro strana dottrina delle trasmissioni, credono che nei loro corpi si trovino le anime dei sacerdoti di Brahama.
Ma sarà la parola giungla a chiudere il romanzo, sia usata da Tremal-Naik per definire la bellezza del suo amore «fiore della jungla», sia come promessa di vendetta dello sconfitto Suyodhama: «Andate! Ci rivedremo nella jungla». E questo avverrà nelle Due tigri, quarto romanzo del ciclo Indo Malese quando Sandokan correrà in aiuto dell’amico Tremal-Naik ancora una volta in lotta contro Suyodhama che, ancora una volta, morta Ada, tenterà il rapimento della piccola Darma, la figlia di Tremal-Naik.
Sandokan, eccolo, compare. Con il romanzo Le tigri di Mompracem si apre anche per me la lunga, possente storia di Sandokan, personaggio che oscura ogni altro, perfino, anche se talvolta a fatica, lo stesso Yanez. Le giungle che egli attraversa, dopo aver solcati i mari sui suoi prahos, per quanto intricate, e pericolose, non sembrano più la nera giungla misteriosa, la vera protagonista, quale abbiamo attraversato: la presenza di Sandokan è prorompente.
Le foreste del Borneo
Fin dalla sua prima comparsa Sandokan non mi è riuscito simpatico (a parte nella esuberante interpretazione televisiva di Kabir Bedi). Un poco alla volta, procedendo nel Ciclo, la prima impressione si è andata attenuando. La sua categorica, ingombrante presenza, fin dalle prime pagine delle Tigri di Mompracem mi risultava eccessiva.
In quella stanza così stranamente arredata un uomo sta seduto su una poltrona zoppicante: è di statura alta, slanciata, dalla muscolatura potente, dai lineamenti energici, maschi, fieri, e di una bellezza strana, Lunghi capelli gli cadono sugli omeri, una barba nerissima gli incornicia il volto leggermente abbronzato. (Niente colore indigeno, naturalmente, è solo «leggermente abbronzato» – nda) ha la fronte ampia, ombreggiata da due stupende sopracciglia dall’ardita arcata, una bocca piccola che mostra dei denti acuminati come quelli delle fiere e scintillanti come perle; due occhi nerissimi d’un fulgore che affascina, che brucia, che fa chinare qualsiasi altro sguardo.
Che più?
Ho voluto informarmi sulla possibile nascita del celebre protagonista nell’immaginazione di Salgari. Secondo gli esperti un alter ego di Sandokan si aggirava realmente tra le giungle del Borneo e si chiamava Mat Salleh.
Figlio, come Sandokan, di un capo bornese aveva tenuto in scacco gli inglesi e i sultani del Sabah sulla costa orientale del Borneo su cui si affaccia il porto di Sandakan, nome da brivido che unisce il mito con la realtà. Morì per mano degli inglesi nell’ultimo giorno di gennaio del 1900. Chiuso nel fortino assediato dove nessuno si arrese sotto il fuoco dei cannoni e delle nuovissime, micidiali mitragliatrici. Non si sa, ma sembra improbabile, per un confronto di date, un ricalco tra i due personaggi, seppure la morte eroica di Mat Salleh e tutta la sua vita avventurosa siano degne dell’epopea salgariana.
Anch’io ho una mia versione della fine di Sandokan. Una storia non so quanto reale e quanto fantastica messa assieme con un mio amico scrittore reduce da un avventuroso viaggio tra le isole dell’arcipelago malese e l’interno del Borneo.
«Guarda cosa ti ho portato», mi disse porgendomi una scatoletta di metallo accuratamente chiusa. Sul coperchio laccato della scatoletta è raffigurata una farfalla ad ali aperte screziate di grigio e di giallo. L’aprii, all’interno c’era un pizzico di sabbia rossastra. «È sabbia di Mompracem, l’isola che scompare», disse, «come la chiamavano i nativi, e che oggi è, infatti, definitivamente scomparsa». Me ne narrò egli stesso la storia così come gli venne a sua volta narrata da un vecchio malese.
Quando avevo dieci o dodici anni, non so bene, vivevo con la mia famiglia in un villaggio sulla spiaggia di Labuan, la grande isola di fronte alla baia di Brunei. Mio padre faceva il pescatore. Io andavo spesso con lui e sapevo manovrare sia la barca grande sia il mio canotto sul quale mi arrischiavo in piccoli vagabondaggi su quel mare gremito di scogli e piccole isole. Di fronte al nostro villaggio, a non più di un’ora di remi, emergeva ancora uno strano scoglio, con un pianoro di poco elevato sul mare, terminante in una coda di sabbia che si andava sempre più assottigliando. I vecchi dicevano che un tempo l’isola era stata molto più grande, in parte ricoperta da una fitta giungla e che sulla cima del pianoro sorgeva un palazzo già allora diroccato. L’isola era chiamata Keraman, che in lingua malese significa «L’isola che scompare» perché di anno in anno si assottigliava sempre più, tanto che in breve sarebbe scomparsa sotto l’effetto dei tifoni e delle maree. Ma c’era una leggenda che dava a quell’isola il nome di Mompracem e ne faceva il covo di feroci pirati dayachi guidati nelle scorrerie sui loro rapidi prahos da un uomo di statura slanciata, dalla muscolatura potente, la barba e i capelli nerissimi, il volto di una strana bellezza, splendidamente vestito, una ricca scimitarra al fianco. Sandokan era il suo nome. La gente del villaggio diceva che l’isola era da tempo deserta, tranne un uomo vecchissimo che, non si sa da quanto tempo, si aggirava ancora tra i resti del palazzo ormai assediato dal mare. Ogni tanto, nella notte, si vedeva risplendere un fuoco in cima al pianoro e il rimbombo di un vecchio fucile spezzava il silenzio. Qualcuno sosteneva che quel vecchio senza età fosse Sandokan, il pirata della leggenda. I più dicevano che questo era impossibile perché troppo tempo era trascorso da allora. Ma io sapevo che quel vecchio era Sandokan e quell’isolotto era quanto restava della gloriosa Mompracem. Con il mio canotto ero sbarcato più volte su quello scoglio dove, tra le pietre dell’antico palazzo che recavano i segni di ricchi fregi, trovai accovacciato l’ultimo abitante dell’isola. Era davvero un uomo senza età, con i capelli bianchi che gli coprivano le spalle e la barba incolta che gli scendeva sul petto. Se mi aspettavo di trovare quanto ancora di fiero e di nobile restava del terribile pirata avrei avuto una profonda delusione: di fronte a me c’era un corpo pesante e gonfio che si muoveva e parlava a fatica. Non aveva armi tranne un fucile indiano arabescato e intaccato dalla ruggine. Al primo incontro non volle dire parola. Ma io vidi che accanto ai resti di un fuoco spento c’era solo qualche lisca di pesce e lo sterno di non so quale uccello marino, da cui capii come quell’uomo non avesse quasi nulla con cui nutrirsi. In un bacile era raccolta l’acqua delle abbondanti piogge. Il giorno dopo tornai sull’isola e portai con me cibo in scatola, rubato dalla dispensa familiare, e bottiglie di acqua di fonte. Da quel giorno, nonostante la proibizione di mio padre, che...
Indice dei contenuti
- Prefazione
- Introduzione
- Capitolo I
- Capitolo II
- Capitolo III
- Capitolo IV
- Capitolo V
- Capitolo VI
- Il grande sogno
- Nota biografica
- Bibliografia
- Indice