Perché la parola «patria» mi ha sempre fatto paura
Faccio tuttora fatica a pronunciare la parola «patria».
La rivista Nuovi Argomenti, nel numero uscito nel marzo 2011 – proprio a ridosso dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia – ha chiesto a novantotto scrittori italiani di rispondere a dieci domande sull’identità italiana e sul loro sentirsi o meno membri della nazione: la terza domanda verteva proprio sul significato della parola «patria». Ho risposto, con una certa difficoltà, che «è una parola che odio fin da piccolo. Mi evoca la retorica fascista e fascistoide, e mi ha sempre dato l’idea di qualcosa di chiuso, piccolo, gretto e fondamentalmente stupido».1 Forse ciò è dovuto al fatto che, a memoria, ho sentito pronunciare questa parola per la prima volta alle elementari, e il nostro maestro la usò, con un’accezione negativa, mentre ci spiegava il Ventennio. Nel 1988, poi, con i miei zii partimmo in roulotte alla volta di Roma – che io non avevo mai visto e che stava in cima ai miei desideri infantili: una delle cose che più mi colpì di quel viaggio, durato quasi una settimana, fu il bianco dell’Altare della Patria, che io per alcuni giorni considerai la cosa più sorprendente e bella tra quelle che avevo visto. Sono del resto sempre stato rapito dalla maestosità di certe architetture. Ricordo però una frase di mia zia che, mentre le decantavo la bellezza del Vittoriano, lo liquidò come «paccottiglia fascista». Oggi, quando torno a Roma e passo per piazza Venezia, non posso fare a meno di ricordare il giudizio tranchant di mia zia e, anche se conosco la storia del monumento e i suoi significati, non riesco a liberarmi dalla sensazione di trovarmi davanti a qualcosa di sporco e di sbagliato. Il Vittoriano mi è sempre sembrato un monumento alle intenzioni: tenta di unire ciò che non è unito, tenta di definire «patria» una nazione che non sempre è riconosciuta come tale dai suoi cittadini. È un simbolo privo di correlativo oggettivo, per così dire.
In un articolo che Ernesto Galli della Loggia ha pubblicato sul Corriere della sera del 25 marzo, e che ha intitolato «Un nuovo patriottismo», mi pare ci sia il riassunto del rapporto tra gli italiani e l’idea di patria: il centocinquantenario, dice Galli della Loggia, ha reso evidente un fenomeno inedito nella mentalità degli italiani: il patriottismo, oggi come oggi, sembra essere diventato un patrimonio della sinistra; la cosa non è sorprendente se si pensa che la destra, per la quale la patria è tradizionalmente stata un concetto fondativo (vedremo che in realtà non è stato sempre così), sta perdendo questo primato a causa della presenza nelle sue fila di una forza dichiaratamente «antitaliana», la Lega, e dell’incapacità dei membri di altri movimenti di farsi autenticamente baluardo del patriottismo. Ciò creerebbe una sorta di vuoto ideologico, colmato dalla sinistra in funzione antimaggioranza. La questione è più complicata di quello che sembra, e apre a tutta una serie di problemi e di domande che forse non sono di poco conto: solo pochi anni fa, infatti, in una delle tipiche scaramucce all’italiana, la popolazione «di sinistra» appendeva ai balconi le bandiere multicolori della pace;2 in risposta a questo «affronto», Ignazio La Russa aveva proposto alla popolazione «di destra» di mettere sui balconi il tricolore, per testimoniare, in faccia all’internazionalismo pacifista, il suo essere italiana e portatrice di valori «altri». Al di là della pochezza della faccenda (e dell’implicita gaffe di La Russa, per il quale, se vale l’equivalenza sinistra=pace, deve evidentemente valere quella destra=guerra), è stupefacente notare come oggi, a pochi anni di distanza, stia rischiando di diventare «di sinistra» avere il tricolore sulle ringhiere.3 È possibile, anzi probabile, che questo rigurgito di neopatriottismo di sinistra sia in realtà l’ennesima iniziativa in funzione antiberlusconiana e antigovernativa, e che, passata l’emozione per i festeggiamenti dell’Unità, le bandiere tornino a rappresentare un’idea destrorsa del mondo per la maggioranza degli elettori dell’opposizione. C’è però un altro fatto, che sempre Galli della Loggia mette in evidenza: questo «vuoto di patriottismo» lasciato dalla Lega e dalla destra, se da una parte viene colmato da iniziative lanciate dall’opposizione, dall’altra ha almeno due padri per così dire nobili e super partes: Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Scrive della Loggia: «[…] da oltre una decina d’anni il patriottismo, insieme al culto della Costituzione, è ormai diventato l’ideologia ufficiale della Presidenza della Repubblica». La pochezza di governanti e oppositori, il discredito piovuto sull’attuale classe politica e la sua assoluta mancanza di spessore ideologico, politico e umano hanno dato un nuovo peso alla figura del Presidente della Repubblica, l’unica in un certo modo credibile e in grado di proporsi come guida e riferimento. Si tratta di un processo iniziato con Pertini, e che con gli ultimi due presidenti ha preso piede in modo decisivo. Secondo lo storico del Corriere, il discorso della presidenza della Repubblica non può che vertere su questioni alte e ufficiali, e non può che richiamarsi all’amor patrio.4 Sembra insomma che il tricolore, negli ultimi anni, sia diventato da un lato un simbolo di opposizione e, allo stesso tempo, l’epicentro di una battaglia condotta dal Quirinale per tentare di dare agli italiani un senso di appartenenza che le ataviche divisioni, il grado zero della politica e un generale menefreghismo nei confronti del concetto di nazione continuano a minacciare.
Eppure non mi sento solo, nella mia difficoltà a fare i conti con la patria. Nel 2003, Benedetta Centovalli, allora editor di Rizzoli, diede alle stampe un libro da lei curato in cui chiedeva a una nutrita flotta di scrittori italiani di prendere posizione, narrativamente, sull’Italia: il volume si intitola Patrie impure. Italia, autoritratto a più voci, e contiene fumetti, poesie, racconti di autori come Antonio Moresco, Laura Pariani, Silvia Ballestra, Marcello Fois, Arnaldo Colasanti, Nicola Lagioia e altri. Ai tempi della sua pubblicazione, non ha stupito quasi nessuno che nel titolo si parlasse di «patrie», al plurale, per definire l’Italia. Ancora adesso, inoltre, mi incuriosisce e mi affascina il fatto che queste patrie siano «impure»; a pensarci bene queste due paroline contraddicono in modo energico tutta la retorica patriottica e patriottarda che l’Italia ha prodotto negli ultimi cinquant’anni: il titolo Patrie impure dice infatti in un solo colpo che la patria degli italiani non è una, ma sono molte; il fatto poi che queste patrie non siano «pure» suona quasi come una sfida e come un tentativo di ripensamento dell’Italia nel mondo globale.
Il libro parte da un’intuizione di Luigi Meneghello – che in Piccoli maestri metteva in bocca ai propri personaggi queste frasi: «Che cos’è la patria se non un ambiente culturale? Cioè conoscere e capire le cose»; «Purtroppo per noi personalmente è già tardi dicevo»; «Ci hanno tenuti troppo a lungo nel pozzo, non ci netteremo mai del tutto da questa muffa» –, dalle amare riflessioni dell’Alberto Arbasino di Un paese senza e da un giudizio fulminante di Ceronetti, tratto da Albergo Italia: «L’Italia come idea spirituale non corrisponde a nessun ventre mistico di patria […] e quel poco che c’era messo insieme di sentimento sacrale del suolo, di un suolo orlato da termini da considerare inviolabili, con fatica, con morti, è stato travolto dall’abiezione mussoliniana, dal vilipendio dell’abbraccio fascista».5
Il risultato dell’operazione Patrie impure è un conglomerato di tentativi, spesso riusciti, di raccontare l’Italia, in cui si intravede, in pezzi a volte molto sofferti come I maiali di Antonio Moresco, la difficoltà che gli italiani hanno nel raccontare il proprio paese, e il dolore con cui ne parlano quando riescono a trovare una chiave per descriverlo. Prendo ad esempio proprio l’attacco del pezzo di Moresco: «Bisogna andare lontano dall’Italia per vedere l’Italia».6 Ogni volta che lo rileggo, provo due sensazioni: la prima, molto semplice, è che questa cosa della distanza è vera. Solo guardando l’Italia e gli italiani da lontano si può tentare di capirli. La seconda è che non credo esista un altro popolo che abbia bisogno di staccarsi da sé e dal proprio paese per capirsi.
Allo stesso tempo, non esiste forse nessun altro popolo che ha un così scarso amor proprio. Lo dice Paul Ginsborg, in un libro che ha intitolato Salviamo l’Italia e che comincia con il racconto del momento in cui, nel 2009, ha ottenuto la cittadinanza italiana:
I miei amici in gran parte rimasero stupiti all’annuncio della mia naturalizzazione. «Ma chi te lo ha fatto fare» mi dicevano «e proprio ora, poi». Uno o due si affrettarono a sincerarsi che avessi avuto il buon senso di mantenere anche la cittadinanza britannica. Il commento più caustico è stato: «Beh, Paul, almeno potrai dire assieme a tutti noi altri: “Mi vergogno di essere italiano”.7
«In quale altro paese al mondo i cittadini reagirebbero con altrettanto spregio si sé?» si chiede il neoitaliano commentando le frasi degli amici. «Quali consuetudini culturali profondamente radicate stanno alla base di questa reazione?». Ginsborg dà una prima risposta recuperando uno scritto di Carlo Cattaneo, in cui il grande liberale parla di «quel vizio tutto italiano di dir male del suo paese quasi per una escandescenza di amor patrio».8 Cioè: gli italiani amano talmente il proprio paese che arrivano a odiarlo e a vergognarsi per esso. Ma, allo stesso tempo,
[…] è difficile accettare che sia il troppo amore per la patria il motivo della reazione all’unisono dei miei amici. A me pare piuttosto di leggervi una gran tristezza sulla condizione attuale del paese, accompagnata da una profonda rassegnazione.9
Tristezza e rassegnazione che assomigliano più allo scoramento, al disamore. Ciò che mi incuriosisce, è lo strano rapporto che si instaura se si leggono di seguito le pagine di Moresco e quelle di Ginsborg: mi rendo conto che si tratta di un azzardo, ma da una parte c’è uno scrittore italiano che, per parlare del proprio paese, fugge, va in Portogallo, e da lì pensa all’Italia sostanzialmente condannandola; dall’altra parte c’è uno storico inglese, in Italia da un ventennio, che chiede di diventare cittadino salvo venir poi bonariamente deriso dagli amici italiani. L’italiano fugge e si guarda indietro puntando il dito; l’inglese arriva, si innamora e chiede di entrare a far parte del nostro paese, nonostante gli avvertimenti. C’è una specie di cortocircuito, in tutto questo, che ha il suo epicentro nella distanza, nella lontananza di chi ha bisogno di andare all’estero e di chi, invece, da stra...