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PRIMA PARTE
Necessari ed esclusi
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1. Un mondo in movimento
Se n’è andata questa mattina, prima dell’alba. Non ha neanche guardato la figura di di Aamma addormentata, avvolta nel suo lenzuolo, in fondo alla casa. Ha preso soltanto un pezzetto di stoffa blu nel quale ha messo del pane raffermo e qualche dattero secco, e un braccialetto d’oro che apparteneva a sua madre.
J.M.G. LE CLÉZIO, Deserto
Le migrazioni sono antiche quanto l’umanità, se è vero che tutti abbiamo origini africane. Dalla ricerca archeologica, ai poemi omerici, alle testimonianze bibliche, sappiamo che movimenti di singoli e gruppi, scambi commerciali, colonizzazioni pacifiche e invasioni cruente hanno costruito la storia delle civiltà umane. La sedentarietà faticosamente conquistata nel Neolitico, con l’invenzione dell’agricoltura e la nascita delle prime forme urbane, non è mai stata assoluta. Il movimento di popolazioni, nelle sue varie forme e con diversi esiti, ha sempre accompagnato la formazione di società stabili.
Oggi, nuovamente, le migrazioni si presentano come uno dei fattori più visibili e controversi del cambiamento delle nostre società. Negli spazi urbani, nel mercato del lavoro, nelle aule scolastiche, nei circuiti delle attività illegali, avvengono sostituzioni e mescolanze di vecchi e nuovi protagonisti. E i nuovi arrivati sono quasi sempre più poveri di quanti si erano già insediati in precedenza, oltre che diversi per lingua, aspetto fisico, usanze, credenze e pratiche religiose. La percezione diffusa è quella di uno sconvolgimento dell’ordine sociale. Per alcuni, è l’alba di un mondo nuovo, all’insegna del meticciato e della fratellanza universale; per i più, è l’inizio di un’invasione perniciosa, forse catastrofica.
Nel complesso i migranti rappresentano all’incirca il 3% della popolazione mondiale: in cifre, intorno ai 191 milioni su circa 6 miliardi di esseri umani (Caritas-Migrantes 2008), mentre per l’Europa a 27, la stima si aggira intorno ai 25 milioni di migranti su 490 milioni di abitanti, dunque all’incirca il 5% (Wihtol de Wenden 2009). Si tratta di una porzione relativamente ridotta dell’umanità, ma aspetti come la concentrazione in determinate aree di destinazione, la rapidità della formazione di nuovi flussi, le modalità drammatiche di una parte degli arrivi accrescono il senso di smarrimento e di minaccia.
L’innalzamento delle barriere non ferma del tutto gli ingressi, semmai provoca la ricerca di porte alternative. Nello sforzo di sigillare i confini, nel nostro paese è stato reso illegale, nel corso del 2009, non solo l’ingresso non autorizzato ma anche la permanenza di chi riesce in vario modo a superare la frontiera, spesso con documenti regolari (il visto turistico), e prolunga la sua permanenza sul territorio. I minacciosi immigrati si trasformano così negli ancora più temuti irregolari, o peggio, clandestini, condannati a vivere per anni nella penombra dell’incertezza e della precarietà, malgrado si assumano, nella maggioranza dei casi, mansioni che contribuiscono al benessere delle società riceventi. Poi, giacché è impossibile espellere centinaia di migliaia di persone, è controproducente privare del loro lavoro le società riceventi e i sistemi economici ed è politicamente dannoso criminalizzare le famiglie che ne accolgono molti, si impone la necessità delle sanatorie. Così è avvenuto in Italia: dopo mesi di campagna martellante contro i cosiddetti clandestini, la politica ha preso atto che molti di essi sono in realtà lavoratori dei servizi di assistenza e accudimento in ambito familiare. Detto in altri termini: i clandestini, che gran parte dell’opinione pubblica vorrebbe scacciare, sono in vario modo lavoratori e lavoratrici che gli stessi italiani hanno accolto, assunto, protetto e a volte sfruttato. A un certo momento, si afferma l’esigenza di sanarne la situazione.
Negli ultimi decenni gli spostamenti attraverso le frontiere si sono accentuati e diversificati. Nuovi paesi sono entrati nella cartografia dei luoghi di partenza e di arrivo, altri si sono contraddistinti come spazi di transito. Diversi paesi di confine con le aree più sviluppate, come il Messico, la Russia, il Nord Africa, sono diventati ormai, nello stesso tempo, luoghi di partenza, di arrivo e di passaggio (magari dopo anni di attesa) di flussi migratori. Altri, come l’Italia e più in generale l’Europa meridionale, hanno cambiato status nella geografia mondiale della mobilità umana, passando dal rango di luoghi di origine dei flussi a quello di contesti di destinazione. Presi alla sprovvista, avendo cercato per un certo periodo di non vedere quanto stava avvenendo, hanno faticato e ancora stentano ad assumere una consapevolezza adeguata del fenomeno. Nel caso italiano, più che in Spagna, Grecia o Portogallo, si è assistito alla formazione di un circuito di mutuo rafforzamento tra inquietudini popolari diffuse nei confronti dell’immigrazione e politicizzazione della questione, elevata al rango di tema primario nelle campagne elettorali. Soltanto nel nostro paese, di fatto, forze politiche che inalberano l’ostilità verso gli immigrati come un vessillo hanno un peso elettorale decisivo e occupano posizioni di rilievo nella compagine governativa.
Una conoscenza più puntuale non produce automaticamente buone soluzioni, ma è una premessa per cercare di costruirle, e soprattutto per favorire un dibattito pubblico più informato e responsabile. Animato da questa convinzione, cercherò, nelle pagine che seguono, di inquadrare il fenomeno nei suoi tratti generali.
Chi sono gli immigrati?
Un primo nodo scaturisce dal fatto che non è semplice definire chi siano gli immigrati, o meglio quali fra gli stranieri residenti debbano essere classificati come tali. L’immigrazione è sempre una questione di definizione dei confini tra «noi», la comunità nazionale insediata su un territorio ben demarcato, i «nostri amici», ossia gli stranieri che accogliamo con favore come residenti ed eventualmente come futuri concittadini, e «gli altri», gli estranei propriamente detti, che siamo disposti ad ammettere provvisoriamente (come i turisti), ma che in linea di principio non vorremmo vedere insediati stabilmente nelle nostre città, e tanto meno annoverati tra i cittadini a pieno titolo.
Il potere di definire e classificare, detenuto da chi è in una posizione di maggiore forza (ossia, nel nostro caso, la società ricevente), svolge dunque una funzione rilevante nel costruire la categoria sociale degli immigrati, ossia gli stranieri provenienti da paesi più poveri, autorizzati a soggiornare in maniera provvisoria e condizionata (cfr. Colombo 1999). Questo avviene specialmente quando siamo costretti, tra molte reticenze, ad ammettere che ne abbiamo bisogno per ragioni di copertura dei fabbisogni di manodopera (ne parleremo nel prossimo capitolo), oppure quando riconosciamo, anche in questo caso con molta riluttanza, che hanno ragione di chiedere protezione sotto la bandiera dei diritti umani di cui ci proclamiamo difensori. Anche di questo secondo gruppo di migranti, i richiedenti asilo, discuteremo in seguito.
Tanto le norme istituzionali quanto il senso comune e il linguaggio quotidiano che adoperiamo cooperano nel processo di delimitazione dei confini sociali che ha come oggetto gli immigrati.
Cominciamo dal linguaggio. Noi definiamo come «immigrati» solo una parte degli stranieri che risiedono stabilmente e lavorano nel nostro paese. Ne sono esentati non solo i cittadini francesi o tedeschi, ma anche giapponesi e coreani, persino quando rientrano nella definizione convenzionale di immigrato adottata dall’Onu: «Una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno» (Kofman et al. 2000). Lo stesso vale per il termine extracomunitari, un concetto giuridico, «non appartenenti all’Unione Europea», diventato invece sinonimo di «immigrati», con conseguenze paradossali: non si applica agli americani, ma molti continuano a usarlo per i rumeni. Immigrati (ed extracomunitari) sono dunque ai nostri occhi soltanto gli stranieri provenienti da paesi che classifichiamo come poveri, mai quelli originari di paesi sviluppati. È interessante notare come alcuni di essi abbiano cambiato status nel volgere degli ultimi decenni (è appunto il caso di Giappone, Corea, Taiwan), così come del resto sta avvenendo, per fortuna, per gli emigranti italiani all’estero. Hanno perso l’ingombrante etichetta di immigrati, entrando in quella dei «nostri amici» sempre ben accetti. Di conseguenza, il confine classificatorio che separa immigrati e stranieri graditi è in realtà mobile e, entro certi limiti, poroso. Si può allora prevedere che tra venti o trent’anni cinesi, indiani e brasiliani non saranno più considerati immigrati.
Un potente fattore di ridefinizione dello status dei cittadini esterni è rappresentato dai progressivi allargamenti dell’Unione Europea. Non tanto perché ipso facto la nuova condizione giuridica cambi la percezione sociale dei cittadini dei paesi neocomunitari (basti pensare ai rumeni), ma piuttosto perché lo sviluppo economico favorito dall’ingresso nell’Unione e dalle politiche comunitarie sta avvicinando progressivamente le condizioni di vita di questi paesi a quelle dei partner europei. Così è avvenuto del resto, in tempi abbastanza rapidi, per Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda.
Un altro aspetto su cui vale la pena di soffermare l’attenzione riguarda la singolare condizione dei cittadini di paesi di per sé classificabili come luoghi di emigrazione, ma individualmente riscattati dall’eccellenza nello sport, nella musica, nell’arte, o quanto meno negli affari. Neanche a essi si applica l’etichetta di «immigrati». Come ha detto qualcuno, «la ricchezza sbianca».
A queste percezioni sociali diffuse si può collegare la differente accettabilità degli stranieri residenti, anche da diversi anni, sotto il profilo della con-cittadinanza. Ci trasferiamo così sul piano delle norme giuridiche, che riflettono molto chiaramente le preferenze sociali. La legge italiana del ’92 che regola la materia, votata dal Parlamento in modo quasi unanime, prevede che per poter chiedere di diventare italiani siano sufficienti quattro anni di residenza per gli stranieri provenienti da alcuni paesi, mentre ne occorrano dieci per gli altri, contro i cinque della normativa precedente.
La stessa legge, prevedendo una corsia molto facilitata di recupero della cittadinanza per i discendenti degli emigranti italiani all’estero, definisce i confini della nostra «nazione» in termini sostanzialmente etnici. Giovanna Zincone (2005) ha parlato a riguardo di «familismo legale»: l’italianità sembra essere prima di tutto una questione di sangue, tramandato per discendenza, o una qualità che tutt’al più può essere acquisita per matrimonio, grazie al legame con un partner appartenente alla stirpe (si sarebbe tentati di dire: alla tribù) degli italiani; ancora nel 2008, nel nostro paese la percentuale di acquisizioni di cittadinanza per matrimonio sul totale è stata del 63,2% (Caritas-Migrantes 2009). I numeri complessivi (35 766) sono inoltre molto inferiori a quelli di altri paesi europei con flussi migratori più antichi, come Francia (154 827) e Germania (117 241), ma anche di un paese simile al nostro, come la Spagna (42 860 nel 2005, quando il dato italiano è stato pari a 19 266).
Nello stesso tempo, tra il 1998 e il 2004 l’opportunità di recupero della cittadinanza da parte di discendenti di antichi emigrati ha prodotto silenziosamente oltre mezzo milione di nuovi cittadini, tra cui spiccano gli italiani di ritorno provenienti dall’Argentina con circa 236 000 acquisizioni e dal Brasile con 119 142. Va notato che neppure questi, qualora scelgano di venire effettivamente a vivere in Italia, anziché utilizzare il passaporto italiano per cercare fortuna in Spagna, Gran Bretagna o Stati Uniti, vengono definiti come «immigrati», benché possano incontrare sul piano sociale difficoltà non molto diverse dagli stranieri classificati come tali. Per esempio, il mancato riconoscimento dei titoli di studio (a differenza di quanto avviene in Spagna), li sospinge verso le posizioni inferiori nel mercato del lavoro.
Lo Stato-nazione e i suoi confini
Dobbiamo rammentare in proposito che le visioni consolidate della cittadinanza la collegano all’appartenenza nazionale, tanto che nella nostra lingua come in altre i concetti di «cittadinanza» e «nazionalità» tendono a coincidere. L’idea di «nazione» come comunità spontanea, omogenea, solidale all’interno e separata verso l’esterno, è normalmente percepita come un dato naturale e indiscusso: noi ci commuoviamo se un nostro connazionale sconosciuto viene rapito all’estero o rimane coinvolto in una calamità naturale, molto meno se la stessa sorte tocca a uno straniero; e tanto meno ce ne interessiamo, quanto più lo consideriamo lontano e diverso da noi. Questa solidarietà «nazionale» affonda le sue radici nell’età romantica, quando è nato il concetto stesso di «nazione», vista come unità di sangue (gli antenati comuni), di territorio (definito da confini supposti come «naturali»), di lingua (nazionale, contrapposta ai dialetti regionali e locali) e per molti di religione. Ma più che un dato spontaneo, come i vari nazionalismi hanno sempre cercato di sostenere, si tratta di una costruzione sociopolitica, attivamente perseguita dagli stati-nazione moderni, che non hanno lesinato gli sforzi per realizzare una coincidenza tra popolazione residente, territorio compreso entro i confini e comunità nazionale (cfr. Anderson 1996), o più semplicemente per far coincidere le frontiere politiche con quelle culturali (Martiniello 2000, p. 18).
Vari mezzi sono stati dispiegati nel tempo a questo scopo: l’educazione pubblica, la coscrizione obbligatoria, i rituali civili (bandiera, inno nazionale, altare della patria), il culto degli eroi e delle ricorrenze solenni della storia nazionale, le squadre nazionali nelle competizioni sportive, senza dimenticare il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa e le istituzioni del welfare, che dispensano provvidenze sociali sulla base appunto dell’appartenenza alla comunità nazionale. Come ha scritto Castles, «ogni cittadino è considerato appartenente a un solo Stato-nazione, e quello Stato-nazione è considerato capace di includere come cittadini tutti gli individui che risiedono in maniera permanente sul suo territorio. Ogni residente nel paese è inteso come appartenente, mentre il resto del mondo è escluso: gli stranieri non possono appartenere» (2005, p. 204).
L’adozione, eventualmente l’invenzione e la standardizzazione di una lingua nazionale, possibilmente diversa da quella delle altre nazioni, insegnata nelle scuole pubbliche, è stata uno degli strumenti più influenti per la costruzione di comunità nazionali dotate di un certo grado di omogeneità interna e separate dalle altre. Una vecchia battuta che circola tra i linguisti, quando si vuole spiegare la differenza tra lingue e dialetti, recita che una lingua è «un dialetto con un esercito», ossia una costruzione politica, attuata dagli stati grazie al potere coercitivo di cui dispongono, rispetto alla fluidità delle parlate dialettali. In epoca recente, radio e televisione hanno fornito un contributo decisivo all’unificazione linguistica di nazioni come la nostra, in cui i dialetti (o lingue regionali?) hanno conservato a lungo, e talora conservano ancora, una grande vitalità. Si può aggiungere che fino alla fine del xix secolo era più facile entrare in un altro paese che uscire dal proprio, e concetti come quelli di passaporto, visto d’ingresso, polizia di frontiera, sono tipici prodotti della modernità novecentesca.
Lo stesso concetto di Stato-nazione combina la concezione razionale e fredda dello stato moderno con l’idea romantica di nazione, calda, suggestiva, carica di componenti emotive. A loro volta le nazioni si sono formate trascendendo i confini di unità sociali più ristrette, locali, regionali, linguistiche: «La nazione è quindi sia postetnica, in quanto nega la salienza delle vecchie distinzioni etniche e le considera come appartenenti a un oscuro e remoto passato prestatuale, sia superetnica, in quanto delinea la nazione come una specie di etnia nuova e più grande» (Baumann 2003, p. 39). Per questa ragione, gli statinazione moderni non sono affatto religiosamente neutrali come pretendono, ma cercano di suscitare sentimenti comunitari di tipo parareligioso, forgiando una sorta di mistica patriottica, attraverso i rituali e le celebrazioni che abbiamo ricordato. L’idea ottocentesca di «religione civile», tornata in auge negli ultimi anni, allude a questa pretesa delle ideologie nazionali di spingere i cittadini al culto di un complesso di valori che hanno al centro il destino della patria.
L’invenzione della nazione, con i suoi corollari di eguaglianza e fratellanza fra i membri (si noti di nuovo l’impiego di termini tipici del linguaggio religioso), riporta a un livello più ampio l’idea di una demarcazione tra «noi», internamente omogenei perché unificati dal sentimento nazionale e dalle istituzioni statuali, e gli «altri», i diversi, perché non membri della nostra compagine nazionale. In questo modo, le nazioni possono beneficiare del senso ancestrale, profondo quanto spontaneo, di solidarietà tra i membri del gruppo, che ha come contrappeso la diffidenza verso gli estranei. Non si comprenderebbe la fortuna dell’idea di nazione, giunta a essere considerata un dato naturale e indiscusso, senza questo retroterra antropologico, rielaborato, ampliato e codificato nella forma dei confini nazionali.
La modernità, attraverso l’istituzione di frontiere, cittadinanze e complessi apparati statali, è intimamente legata a questi processi: «Se in qualche modo la modernità stessa è stata costruita sull’espulsione, sia fisica sia simbolica, dell’altro, nel nome della purezza religiosa, etnica, culturale e scientifica, allora la storia della modernità è anche la storia di questa rimozione, di questa negazione, di questa impostazione di “distanza”» (Chambers 2008, p. 11). Un numero della rivista Mondi migranti sulle «migrazioni nel Mediterraneo» restituisce il senso di uno spazio marittimo che nel passato ha unito popoli diversi e prodotto processi di scambio e sincretismo tra mondi culturali ricchi di peculiarità, e che tuttora, malgrado la modernizzazione, contribuisce a generare e rivitalizzare le dinamiche socioculturali legate alle migrazioni (Semi e Alzetta 2008). Nello stesso tempo però l’irrigidimento delle frontiere e dei controlli tende a separare e contrapporre territori che un tempo, tra conflitti e commerci, si percepivano come facenti parte di uno spazio condiviso.
Da tutto ciò discende la conseguenza che più ci interessa: se gli estranei che attraversano i confini sono percepiti come poveri che pretendono di stabilirsi sul nostro territorio, sulla terra di quella grande tribù che è la nazione, scatta la paura antica dell’invasione e del saccheggio. Riecheggiando un’ampia letteratura sulla paura dello straniero e del diverso, già una dozzina di anni fa Escobar scriveva:
In Europa milioni di uomini e di donne fanno pagare ad altri uomini e altre donne il prezzo di una paura che vive sui confini [...]. Questa paura nuova – o che tale ci appare – si manifesta nell’immaginario diffuso come rischio incombente che il mondo perda la sua forma, che l’Est venga a Ovest, che il Sud salga a Nord. Non più paradossalmente sorretta e confermata dall’immagine speculare del Grande Nemico, la nostra percezione dei confini s’è fatta angosciosa. L’Europa s’avverte come una Città assediata, violentata da una migrazione epocale, da un’invasione barbarica. Ce ne viene così un innalzamento del pregiudizio, una riemersione inquietante dei meccanismi più arcaici, tra quelli che fondano e nutrono il sentimento d’identità dei gruppi e dei singoli in essi (1997, p. 5).
Questa paura trova un’espressione paradigmatica nella diffidenza, peraltro reciproca, tra popolazioni sedentarie e popolazioni nomadi o presunte tali, con il suo contorno di radicati pregiudizi, leggende nere ed espulsioni violente. Anche a questo aspetto dedicherò una riflessione specifica nel capitolo 5.
Si può dunque intuire perché il presidio delle frontiere e dell’accesso al territorio è investito di tanta risonanza, al punto da essere spesso considerato un banco di prova dell’effic...