L’intruso
Sulla soglia, con la mano già tesa, il nuovo paziente esitò un istante prima di venire incontro alla sua curiosità. Una lunga stretta, che lui troncò indicando all’altro una delle due sedie al di là della scrivania.
Il paziente si sedette, e lui fece altrettanto con il bel gesto che gli era abituale, accarezzando rapidamente il camice bianco sotto di sé per evitare che si sgualcisse sul sedile. Poi, puntando i gomiti sui braccioli, lo fissò.
«Mi dica, signor Polizzi.»
Aveva uno sguardo chiaro e fiducioso, il nuovo paziente: non fosse stato per quella minuscola rete di grinze sulle tempie, non gli avrebbe dato quarant’anni.
«Ecco, il mio più che altro… non è un disturbo preciso, dottore… più che altro è un malessere…» Un pensiero gli sbarrò lo sguardo, si corresse premurosamente: «Professore, chiedo scusa: professore».
Non gli era sfuggito, a quanto pare, il giustificato sussulto di lui – dottore lui!, che l’esame di libera docenza l’aveva sostenuto a trent’anni, e davanti a una commissione ostile che alla fine, dopo aver cercato in tutti i modi di farlo cadere, si era vista costretta a dargli il massimo del punteggio… Dottore lui, che nei dieci anni successivi con le sue ricerche si era fatto un nome in Italia e all’estero. Invitò il paziente a continuare:
«Diceva?».
«Come?… ah sì, il mio disturbo.» E guardò su, insicuro, forse temeva di sbagliare di nuovo. «Vede, professore, è come se… la notte, delle volte, mi sveglio con il cuore che mi picchia in gola. Poi fatico a riprendere sonno, rimango lì con gli occhi spalancati e con la sensazione che stia per mancarmi il respiro.»
Lui si era alzato, lo studiava attentamente.
«Prego», disse indicandogli il vano nero di una porta.
Il paziente si alzò e fece i quattro passi necessari a entrare dove lui gli aveva indicato. Una luce improvvisa riempì la stanza di visita: l’armadietto a vetri, il tavolino a rotelle con sopra l’elettrocardiografo, il lettino coperto da un panno bianco; più in là l’apparecchio radiologico.
«Favorisca spogliarsi e mettersi supino.»
L’altro si sfilò sollecitamente la giacca, la cravatta, sbottonò la camicia; poi si arrestò:
«Basta così?».
«No. Si tolga anche canottiera e pantaloni. Resti in mutande per favore.»
E adesso era lì, disteso sul lettino, mostrandogli la faccia interrogativa e un torace forte, appena palpitante, senza un filo di grasso. Lui, mentre si metteva gli auricolari del fonendoscopio nelle orecchie, pensò che senza quell’aria supplichevole l’uomo avrebbe potuto avere tutte le donne che voleva. Ma spense il fastidio di questa frase mentale dando inizio all’esame clinico. Vide la pelle del paziente, come si era aspettato, arricciarsi nel punto e nell’istante in cui applicò la capsula di metallo del fonendoscopio. Poi da una lontananza liquida gli salì all’orecchio il battito profondo e monotono del meccanismo vitale.
Si liberò del fonendoscopio e si curvò a palpare la massa del fegato, precisa nei suoi contorni; più in basso, dove le mutande scostate scoprivano una fine treccia di peli pubici arrampicata fino all’ombelico, immerse di punta le dita in punti diversi dell’addome senza incontrare resistenza o contrazione di dolore. Prese dal tavolino le placchette degli elettrodi, vi schiacciò un po’ di pomata da un tubetto e le applicò ai polsi, alle caviglie, al petto del paziente; vi fissò i fili elettrici di più colori, quindi avviò l’elettrocardiografo. L’ago si mise a cricchiare, arrestandosi e ripartendo ogni volta che lui premeva un tasto dell’apparecchio. Finalmente strappò il cartiglio e lo esaminò in cerca di qualcosa lungo le linee spezzate del tracciato. Nessun imprevisto, nessuna irregolarità. Avvolse il cartiglio fino a farne un piccolo cilindro che fece scivolare nella tasca del camice; poi si chinò a sganciare fili ed elastici dalle placchette, e ripulì con un panno il tratto di pelle su cui avevano aderito.
Nella faccia del paziente un sorriso forse d’imbarazzo aveva preso il posto dell’interrogazione.
«Adesso la guardo in radioscopia: monti qui. Senza rivestirsi!»
Prese da un gancio il pesante grembiule piombato e se lo mise. Poi, spingendo i robusti bracci di metallo dello schermo, strinse il paziente alla macchina. Premette dietro di sé un interruttore: dal buio gli venne incontro l’abbozzo biancastro di un corpo senza carne e in quello, tra le ellissi delle costole, i rapidi movimenti del piccolo nodo del cuore.
Si riaccese la lampadina nel soffitto.
«Può rivestirsi, signor Polizzi.» E mentre quello rientrava nei suoi abiti, lui manifestò la propria perplessità: «Io non so proprio, sa, non so proprio… Lei è sano come un pesce, il suo cuore funziona alla perfezione. I disturbi, poi, sono talmente generici… Forse è un po’ nervoso in questo periodo, ha delle preoccupazioni?».
L’altro sembrò grato di vedersi offrire quella giustificazione superficiale del suo malessere.
«Preoccupazioni no, non direi. Ma è vero che in questi ultimi tempi non mi sento del tutto tranquillo.»
«E ci sono dei motivi per questa sua agitazione?»
«Motivi… ragioni precise, no, non posso affermarlo.»
Dava quasi l’impressione, con le frasi brevi e inconsistenti, di non voler uscire dal vago.
«Forse noie sul lavoro?» incalzò lui senza convinzione.
«Ma no», il paziente sorrise addirittura: «io, vede, non lavoro… cioè, non ho bisogno di lavorare.»
«Capisco», riprese lui; «e non ci sono – perdoni l’indiscrezione – dissapori coniugali o famigliari?»
«Non ho famiglia.»
«Allora sarà la solitudine.» E con un moto d’insofferenza, senza aspettare conferma o smentita dall’altro, continuò: «Senta, non le prescrivo niente. Cerchi di evitare gli eccitanti e il fumo; beva della camomilla durante il giorno, e la sera prima di coricarsi sciolga qualche goccia di valeriana nell’acqua».
Dover dare suggerimenti del genere, da mediconzolo qualunque, lui che quando alla fine di una visita si preparava a dichiarare il suo giudizio, seduto dietro la scrivania sulla grande sedia imbottita, con l’indice allo zigomo e la fronte corrugata, avrebbe fatto impallidire anche un capo di Stato. E ora che si trovava a raccomandare l’uso della camomilla, si accorse per giunta di essersi fermato lì, in piedi, a metà del breve tragitto tra stanza di visita e scrivania… Ridusse con un cenno della mano il paziente al suo posto; quindi, con la debita calma, si accomodò al proprio. Non essendoci ricette da scrivere, restava soltanto da sbrigare la formalità dell’onorario. Ma nel momento di pronunciare la frase d’uso vide gli occhi dell’altro pieni di una curiosità impaziente.
«Non mi riconosce? Sono Silvio! Silvio Polizzi!»
Così il punto culminante dell’incontro era raggiunto: aveva di fronte un altro di quegli amici o parenti lontanissimi che periodicamente, coi pretesti più futili e senza la minima necessità, venivano a farsi visitare, e che un’ovvia consuetudine imponeva di non far pagare.
«Peirè, ma non si ricorda? Eravamo a scuola insieme!»
Il suono del proprio nome pronunciato così, nudo, com’era stato mille volte nell’adolescenza, lo strappò dall’ultimo e un po’ gretto pensiero. Nel volto appena segnato dell’interlocutore trasparirono con sorprendente facilità i lineamenti immaturi, lo sguardo implorante di un ragazzo che nelle mattinate scolastiche taceva scrupolosamente: una figura insignificante, e mai gliene sarebbe rimasta traccia nel ricordo, se a scuola non fosse circolata la voce insistente che era ricchissimo di famiglia.
«Ma certo che mi ricordo. Che piacere.»
La frase gli era uscita di bocca persino più fredda di quanto aveva desiderato.
«Non mi fraintenda, professore: se sono venuto da lei, è stato in primo luogo per la sua competenza medica… ma anche perché, in nome della vecchia amicizia, contavo di trovare comprensione…»
Non erano mai stati amici; e quanto alla comprensione, sarebbe stata una strana pretesa anche se la diagnosi fosse stata meno rassicurante. Ma disponendo di un discreto repertorio di frasi di circostanza, rispose persuasivamente:
«Le sue parole mi lusingano e mi commuovono».
Il paziente sorrise e sembrò tacere qualcosa che avrebbe voluto aggiungere. Si portò la mano al petto:
«Mi dica il suo onorario, caro professore».
Lui replicò con la frase destinata a introdurre la schermaglia delle finte cortesie:
«Un vecchio compagno di scuola, non se ne parla neanche!».
«No, mi faccia il favore!» Il tono era deciso. «Sono venuto da lei come un qualunque paziente, e come tale desidero essere trattato. Per semplice amicizia, senza la sua fama di medico, non l’avrei fatto.»
«Ma l’amicizia c’è! E poi lei non è un vero paziente, perché non è malato.»
L’argomento era fiacco, l’altro ebbe buon gioco.
«Io pago la visita, non la malattia; anzi, dal momento che sono sano lo faccio anche più volentieri.»
E la mano portata al petto finalmente sfilò dal taschino interno della giacca il libretto degli assegni e una penna. Lui allora nominò la cifra, nient’affatto trascurabile, che l’altro subito trascrisse, porgendogli poi l’assegno con chiari segni di soddisfazione.
«Vorrà consentirmi di tornare più avanti per una visita di controllo.»
«Più avanti: fra sei mesi o un anno, se la tranquillizza…»
Porse bruscamente la mano da stringere e salutò con la formula un po’ inconsueta cui aveva fatto abitudine:
«Nuovamente!».
L’uomo se n’era andato, ma a lui rimaneva un fastidio indistinto, nuovo e del tutto estraneo alla sua natura: un fastidio da cui la sicurezza di sé e il suo equilibrio psichico lo avevano finora preservato. Qualcosa senza causa apparente; non un ostacolo dei soliti, da dire: Ecco, a noi due!, e rimboccarsi le maniche per levarlo di mezzo. Perché di sicuro a mettergli addosso quel fastidio non era stato il ricordo della scuola, men che meno il vecchio compagno, insignificante com’era; e non c’era nessun trauma infantile, nessun fatto rimosso che ora tornasse a galla: niente. Il proprio passato, ogni volta che si era guardato indietro, gli si era presentato come uno spazio aperto e senz’ombre, come una preparazione, certo non tutta lineare e ragionevole, al presente: alla sua attuale posizione di solidità interiore e sociale. E adesso questa sensazione che non voleva definirsi, la sensazione di qualcosa sordamente presente che gli lavorava dentro, come il primo muoversi di una malattia; ma, quando cercava di tirarlo sotto la lente della coscienza, lo perdeva; si sforzava di ignorarlo, e allora quello cresceva, più indefinito, più ingombrante: come una malattia, appunto. Poi, per chissà quale contorta associazione di idee, il fastidio interno si portava dietro la faccia sorridente-supplichevole del nuovo paziente. Possibile che fosse lui la causa di tutto? Certo era strano che si presentasse alla sua porta come se la scuola fosse finita da un mese o due, e non da più di vent’anni; strano che risaltasse fuori dal nulla e gli venis...