Stati di grazia
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Stati di grazia

Informazioni su questo libro

Nella Sicilia viscerale degli anni cinquanta il maestro di scuola trentenne Paride Sanchis vive una quotidianità grigia, ordinaria, soffocante: una moglie ormai distante, una figlia impaurita dai continui sbalzi d'umore del padre, l'ennesimo allievo che abbandona la classe per lavorare al fianco dei genitori, nei campi o in miniera. Quando Bartolo, il suo alunno silenzioso che amava studiare, muore schiacciato da una roccia in una zolfara, Paride crolla e disperato acquista un biglietto per Buenos Aires facendo perdere le sue tracce. Ma non sarà lui a partire: con i documenti e il biglietto di Sanchis un altro uomo prende il mare, anche lui in cerca di salvezza e di una nuova vita. In Argentina, l'altro Paride trova la violenza della dittatura e la contestazione, si innamora di una donna, Ximena, poi la perde, trascinata in un centro di detenzione e torturata. Alle tragedie di queste vite rispondono altre voci, in movimento sulla tratta opposta: Matilde che fugge dal marito violento, sceglie la guerriglia, assalta una banca dopo essersi rifugiata da Arturo; Arturo, tipografo in Argentina e poi a Roma con Johnny, la protegge e non la dimentica anche quando l'abbandona per salvare la compagna Aurora; Aurora, nome di battaglia Sylvia Plath, che ha amato un medico, ha scelto l'esilio e ora ama Rosa; Johnny, giovane esule argentino con una moglie tedesca e un segreto vergognoso da nascondere. Le vite di Paride, Leonardo, Ximena, Rosa, Arturo, Diego, Aurora, Johnny, Matilde, dei loro amici, parenti, aguzzini si incardinano le une nelle altre e si snodano tra la Sicilia di metà Novecento, l'Argentina di Videla, la Roma degli anni settanta per poi concludersi, circolari, là dove tutto è cominciato. Sono storie fragili, di fughe, abbandoni, dispatri, incontri e rinunce. Raccontano uomini che si sentono esuli nella propria città e nella propria famiglia, alieni nel proprio lavoro, poveri, schiavi dell'economia. Soli, ossessionati all'impossibilità di cambiare, scelgono di sparire. Stati di grazia è un labirinto di luoghi, segni, incontri, libri, sogni, storie che generano altre storie, un universo di personaggi che vagabondano irrequieti nella storia tragica del Novecento, con un destino inevitabile evocato attraverso una lingua lucida e meravigliata, ipnotica e visionaria, innervata di continui cambiamenti di ritmo, pause riflessive e accelerazioni vertiginose. I capitoli avanzano per enumerazioni di cose viste, dette, fatte, sentite, pensate, tra futili grandezze e magnifiche miserie, brandelli di memorie e testimonianze di archivio, come appunti di uno storico, un biografo o un detective: gli Stati di grazia, dove iniziano ad affiorare gli scomparsi.

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Informazioni

Anno
2014
Print ISBN
9788842819462

PARTE SECONDA

I testimoni

Diego Wilchen non più

Il cucciolo già mostra l’infrangibile Wilchen. Otterrà, per spezzarlo, amore e, per deluderlo, seguito. Nelle sue parole bellezza. Carisma persino sui denti e le labbra, e dai contorni degli occhi. Dilapidare carisma. Sperperare traguardi. Fiondare orizzonti nel bosco come si perde una palla da golf. Smarrire destini politici, la rivoluzione del noi, come l’abito che l’adolescente trascura. La trasandatezza del germoglio. Il rampollo che cresce spietato. La noncuranza per quel che resta in tasca. L’imperativo di procedere, agire, convincere, decidere. Gettare il sé dove il sé ha preso la mira, obbedire al sé, esaudire i desideri dell’io. Dai suoi compagni di strada ricaverà affetto, quello sì fragile e scheggiato o in frantumi per colpa, causa o passaggio dell’infrangibile Wilchen. Che il cucciolo già mostra. Minerale, diamante, lega d’acciaio. Erosione, senilità, perdersi d’animo: parole marziane, non idiomi, non concetti per lui. Il cucciolo fermo sul sedere, sguardo e volontà, risata stridula, capelli biondi, radi, morbidi nella carezza di una mano paterna, materna. Il cucciolo un dio, un supereroe. Una promessa. Diego, l’infrangibile Wilchen; ma quanto a lungo, per quale durata? Paffuto, soffice, risoluto a gattonare su palmi e ginocchia fino al giorno che s’alza, in facoltà, eretto e distratto, annoiato dall’ascolto dei discorsi politici, intossicato dal fumo, angustiato dalle porte chiuse e dalla censura del sole, lo studente Wilchen non più biondo ma diritto negli occhi di colei che lo sveglia, lo tira, l’attrae per la nascita del tutto dal nulla. Chi lo dice che il divenire diviene sempre e gradualmente? Io invece dico: creazione, Big Bang. Io dico: Aurora. «È così che ti chiami?» chiede qualcuno (Diego, l’anelastico Wilchen). «Sì» risponde lei e questa è la stanza, questa la branda, queste le gambe che s’aprono per il bacio mondiale, il seno scoperto, il reggiseno slabbrato, la mano carezza, la mano generosa, la cinta slacciata, le scarpe che cadono e tonfano, la creatura dialettica, amorfa, non geometrica, dinamica, gemente che si genera quale amore tra due. E questa è la città. Dove nasce. La coppia. Questi gli anni. Di Aurora con Diego. Due giovani si convocano. Fare a meno di toccarsi, impossibile. Scacciare il pensiero di lei o lui quando lei o lui sono lontani, inverosimile anche per Wilchen che rallenta, ferma il calesse, apre lo sportello, sporge la mano, raccoglie la mano della ragazza che vuole salire al suo fianco e accetta e sorride. Nella foresta. La carrozza di Wilchen, il suo spietato tragitto, il sé camuffato nel noi, s’inceppa dinanzi a un sorriso di donna. Ogni progetto. Ogni destino che vuol farsi da solo. Prima o poi s’incastra. In un sorriso imprevisto. Nella foresta, sotto gli alberi che incombono, tra le ghiande e le spine, osservati da bestie che non vedono, Diego e Aurora costruiscono un sentiero, un desiderio, due nomi propri. La somma di loro, però, non crea un’età adulta ma una coppia più giovane delle gioventù che contiene. E la carrozza non è triste, non ferma alle stazioni del divorzio e del fallimento e non ha ruote che cigolino; almeno per ora. I libri, i film, i traslochi dell’unione, le valigie, contestare e il dissenso, scampare a violenze, ritrovarsi per l’omelette domestica, il latte al mattino, il biglietto, i panni stesi. Aurora più Diego; la città parla di loro. Uno li vede baciarsi all’incrocio. Uno li nota tra il chimichurri e la pizza. Uno li incontra al cimitero, assorti, quel pomeriggio di quella domenica. Uno sta una fila avanti a teatro, o una fila indietro nel cinema. Uno li riconosce nel corteo, nel comizio e nella fuga. La vita di Aurora con Diego, e la città testimone. La febbre del contatto. La pelle che tocca ed è toccata. Diego confessa i suoi libri, Aurora i propri. «Amo gli scrittori russi.» «Io tutti i poeti.» «Leggi questo. Ti è piaciuto?» «Era dogmatico. Ma struggente, l’ammetto. E il mio ti è piaciuto?» «Era folle e disperato sotto l’azzurro del cielo comunardo.» La polvere, la carta, le briciole di pane sul lenzuolo, la macchia di meglio tornarecaffè e quella di sangue, il rumore del frigo, i piccioni sul davanzale, il notiziario, l’ascesa del nuovo dittatore, la contestazione, la reazione, la restaurazione, la mota delle uniformi, il loro vasto acquitrino non potabile, al contrario tossico, carcasse di pecora sulla riva del veleno, teschi di bufala, scheletri di gatto selvatico, lo studente a terra, lo studente bucato, senza più l’anima nella quale non credeva, la caduta del dittatore, il vegliardo tradito, ormai inutile, inetto alla pace non pace, alla repressione in silenzio, istigatore di rivolte, schifoso, antipatico, dittatore scaduto, l’ascesa del nuovo dittatore, la contestazione, la reazione, la restaurazione, altri cadaveri sulla sponda dello stagno militare; e riprende l’incantesimo. «Di’ un po’, quando diventerò medico sarai fiera di me?» «Lo sono già ora.» «Ma quando lo sarò davvero, e curerò e salverò; a quel punto potrai mai lasciarmi?» Riceve un bacio che significa no. Il mento tra i capelli, la fronte sul collo, le mani sul petto, la mistura delle cosce: un essere affettuoso si riscalda col respiro e il daffare delle vene. La città. Testimone e testimoniata. Da Aurora che studia lingue e poeti. Da Diego che apprende le cure. La città. Sorella di entrambi. Madre e zia. Pronuba grazie alla panchina, al prato, alla giostra, al portone che li ripara dalla pioggia. La città un parco per il gioco della coppia. Case e pareti per l’intimità. Piazze e grandi vie per l’ostentazione. Del vincolo. Tra Diego e Aurora. Ma per quanto? «Per sempre!» «Per un altro po’.» Nel frattempo laurearsi, diventare maestra, vivere in autobus e nell’ombra. Dell’obelisco. Qualche ruga di stanchezza. Una grinza di paura. Fantasticare un figlio: ma non ora; prima o poi. E laurearsi, prendere impiego all’ambulatorio. Annoiarsi. Desiderare una medicina eroica. Diego che scalpita. L’uomo di nuovo impaziente. Il pericolo. L’infrangibile carburazione di Wilchen. L’onnipotenza desiderata dell’io. Diego si spezza. Dimentica le promesse reclamate, e le rassicurazioni. Il dilemma si trasforma. «Mi lascerai?»: non più. «Ti lascerò?»: è questo che si chiede. Una fanciulla riposa sul letto, ha il respiro del sonno e fiducia. Gli ha parlato del futuro. Gliene parla ogni giorno. E Diego si spezza perché fuori c’è la vita e lui esclama: «Come privarmene?» e s’immedesima nel treno, nel calesse, nella velocità, è tempo che definisca cosa valga e non valga la pena, che dia nomi ai nomi, che decida. Troppo decidere e controllo, accelerare, guidare; troppo poco d’affidarsi, attendere e riempirsi. È il carattere. Il problema. La malcapitata irruenza. L’indisponibilità. Impedire alla vita che ti viva. E adesso decide che adesso non più. Diego. Ama. Aurora. Non più. Ama il Nord. Il tragitto spietato. Vuol essere la freccia e l’arco che la tende, l’occhio, la mira, il proiettile, il gesto e il bersaglio. Vuol essere tutto. L’autosufficienza immanente dell’infrangibile Wilchen causa il viaggio e l’addio. Ciao alla ragazza (che decide di odiarlo, dilettante dell’odio), alla casa a Corrientes, alla frittata, alla lista della spesa, alla camicia da notte sexy, alla sveglia, al «fa’ tu il caffè», al bottino comune dei baci e dei film, alle carezze e ai giornali, al ferro da stiro, ai chiodi e alle viti, al lucido da scarpe, all’idea della paternità, al sogno della maternità, al sapore di lei e ora non più fermo Diego raggiunge il Nord e si nomina medico di tutti, guaritore altruista del popolo. È arrivato sulla vetta della nazione. Nella regione stivata. Nell’ombra delle Ande. Sul pianoro semitropicale. Nella patria dello zucchero. Il perimetro del medico (Diego, l’imperterrito Wilchen) triangola tra i villaggi di Hölderlin, Santa Ana e Aparzo, bisticcia con la morte, la febbre, l’ustione, la cancrena e il collasso della donna, del bracciante, del bambino, s’arrende per il farmaco assente, tossisce nel presidio di lamiera, pencola da ubriaco per la propria debolezza: il perimetro di visite, cure, domande a pazienti che neppure sanno di esserlo o di averne il diritto. Compra una moto. Circola, procede, carbura infrangibile e idolatra di sé. L’entusiasmo dello stetoscopio. L’ostinazione del termometro. Diego non perde il mercurio. Diego non spreca l’acqua ossigenata. Dorme nella baracca operaia. Sogna comandi. Io. Voglio. Modificare il mondo. Il mio intervento. Sulla realtà. I benefici che. Desidero. Portare. Donare. Al popolo. A chi soffre. A chi non ha soldi per permettersi cure. Io. Desidero. La felicità degli altri attraverso la sua e la sua propria in quella degli altri che compie Diego, l’inarrestabile Wilchen. Ma guarda la fabbrica. Ma si spaventa. Hölderlin è più spietato di Wilchen? Lo zuccherificio, il lavoro e le vittime che esige, le sue macchinazioni sempre ai danni dell’uomo. C’è un muro alto. Un bastione senza porte. Quando Diego lo sfiora, immagina che sia vietato anche guardarlo. E inizia a soccombere. Perché non lo guarda; e neppure fissa le sentinelle. Distoglie gli occhi dalla costruzione e perde il coraggio. Un medico sa riconoscere i sintomi. Della sconfitta. Della paura. Lui nasconde all’udito il rumore del meccanismo, la vita della fabbrica, aumenta il passo, s’allontana e questa notte, prima del sonno: Posso accontentarmi? Delle cure. Di alleviare. Sofferenze. Senza estirpare alla radice la causa. Dei problemi. Che richiedono. Le mie cure? E nel canneto e con lo straccio sotto al sole in un cammino pigro: Io. Saprei risolvere l’enigma. Della sussistenza? Vivere senza schiavitù: saprei consentirlo a questi uomini? Riformare la zafra. Mescolare l’economia con la dignità. Con la felicità. Col diritto di esistere. Sul pianeta. Non solo di. Resistere? Lo chiede all’uomo che oggi medica, all’amico italiano bracciante che la febbre ha colpito, e che rifiuta la vita. Riformula l’io nel noi e lo volge all’uomo che dalla sua cuccia l’ascolta: «Che dici, possiamo fare di meglio? Ti accontenti di queste tue lotte sfiancanti che ottengono brevi conquiste, se va bene, e se va male salti all’indietro? Non potremmo avere di più?». Nella casa accanto al banano appassito; afflitto da tosse e allergia, forse allergia ai decenni; Paride Sanchis l’immigrato supino; l’uomo che ha scelto poco spessore per ritrovarsi mimetico nel giaciglio e sottrarsi alla sorte; spossato dal destino bracciantile, risponde che non capisce: «Non vedi? Le nostre sono barricate, non assedi. Ci difendiamo. Siamo circondati». «Ma ci sarà un modo» prova a obiettare l’altro e Paride scuote la testa e chiede silenzio. Adesso. Sul contrafforte. Il malato guarito da Diego, e Diego l’amletico Wilchen. Diego non più d’acciaio, ma cittadino di Elsinor. Sale con l’amico per vedere meglio la zafra. Sono generosi tra loro, ma pieni di dubbi. Si fermano sulla schiena di Hölderlin. Condividono la sosta di quello che non sa dove andare. Si rammaricano. Di essere deboli. Esauriscono il fiato che serve ai lottatori. «Perché sei venuto fin qui?» chiede il più giovane, il medico. «Per amore e per trovare lavoro.» «Non potevi cercarlo a Buenos Aires?» «Ci ho provato, ma non ci riuscivo. E tu?» Lui è qui per la missione dell’io, egoista e altruista, per il dono, il sacrificio, per essere un santo. E adesso si è perso. Adesso non più. Non basta il presidio, né l’idea e neppure lo sforzo. La medicina non basta. La medicina politica. L’ideologia terapeutica. La penicillina marxista. Falce e martello antibiotici. Non bastano. Se la guerra è impari. Se muoiono comunque. Quando la forza. Degli assassini. È il doppio della tua: Diego, in briciole Wilchen. Il ghigno di Paride che ride pulendosi un dente: Non è mai troppo tardi. Per scoprire. Come stanno le cose. «Hai lasciato la tua ragazza; errore. Hai lasciato la città; errore. Ora hai capito cos’è la vita?» Annuire, rincasare nella valle. Accanto al cumulo di bagassa: turarsi il naso. Omertoso delle latrine, falsamente cieco per le uniformi, quatto nell’ombra del muro, fratello delle baracche, figlio dei comignoli, dell’amianto, di terriccio, latta e lamiera, sdraiarsi sul letto, sognare la fatica che il sonno dovrebbe levare, svegliarsi fiacco. Diego dei dubbi Wilchen. Ha le occhiaie. Il passo incerto. È stanco del sole. Indossa un cappello di paglia. Ascolta i malati. Centellina i discorsi. Forse ha ragione Paride, lui che ha scelto questo posto, a dirmi che ho sbagliato a sceglierlo. Adesso la malinconia, il rimpianto di Aurora, l’idea di tornare. Adesso la reticenza e l’orgoglio. Nessuno va da nessuna parte. La battaglia è qui. Nel perimetro. Dello zucchero. Nel circuito. Della passione medica. S’incoraggia. Conferma la posa del cucciolo che partì nella vita per essere il diamante, il proiettile, la voce alta, l’onestà, la disobbedienza, l’indisponibilità al potere. Ma una posa è una posa. Solo una posa. Il piedistallo vacilla. Non c’è eternità nei sostegni. La solitudine. È il sabotaggio della postura. È il tarlo del carattere. Insinua il dubbio nella convinzione, l’antitesi che sgambetta la tesi. L’ideologia. Non basta. A persuadere il mondo. L’ideologia. È disarmata. Dal camaleontismo del mondo. Mentre l’ideologia. È monocolore. Fosforescente. Catarifrangente. È un bersaglio che brilla. È la vittima ideale. Candidata alla cilecca. Non accomodarsi né adeguarsi può essere giusto. Non modificare la strategia della lotta è sbagliato. I dubbi di Diego. Le crepe. Adesso. Ma resta. Non torna da Aurora. Non recede dalla posa dell’infrangibile ma friabile Wilchen. Finge di essere immutabile ma intorno la realtà cambia, aumentano le uniformi, s’alza una voce militare, tace lo scontento dei braccianti, il dissenso s’infila nelle tane delle marmotte, le rivendicazioni s’acquattano nel nido del coniglio, qualche speranza s’arrampica sugli alberi alti, il gesto di contestare si ferma nella ritenzione, l’inchiostro esce dal volantino, torna nella penna, rincasa nella tipografia, il sergente ride, il soldato obbedisce, il fucile spara, un uomo cade sul posto di blocco, i soldati tirano un cadavere, i sergenti trafugano un cadavere, le marmotte l’annusano, i criceti lo rosicchiano, altri uomini cadono ai posti di blocco, spariscono dalle case, svaporano dai materassi, altri soldati tirano altri cadaveri che altri sergenti trafugano, che la terra copre, che le foglie solleticano, che le cortecce pungono, che l’acqua rammollisce e in mezzo al gioco mortale sta Diego, ex cucciolo, diamante scheggiato. Il Nord lo delude, lo ferisce. Il medico non sa curare la violenza, l’assassinio, non ha farmaci, non ha terapie. Diagnostica la realtà, e la propria impotenza. Sulla branda. Vittima del viaggio. Bestemmia Hölderlin. L’inettitudine. A vincere. Le battaglie. La predestinazione del mondo, della materia, degli altri a deformare quelli come Wilchen. Quelli che. Non hanno occasione di vincere perché il dono è un’impresa ad alto rischio ed è l’avventura dell’altruismo. Wilchen si arrende, disarmato dalla quantità dell’odio. La disuguaglianza perpetua. Le scorte di violenza. L’inverno scandinavo della speranza. Diego formula sul materasso l’equazione delle sue prospettive nella notte poco riposante, la notte dell’ansia e del medico solo, del gufo che non aiuta, del pipistrello che intimorisce, del grillo inutile, delle voci umane parallele e distanti rispetto all’equazione, alla vita che non dà risultato. Sale verso la casa dal banano secco. Trasporta parole, risoluzioni e l’altro gli apre. L’altro: Paride Sanchis. Gli offre un cortile, una sedia di plastica, un bicchiere di vino che Wilchen, nel berlo, usa per deglutire la decisione, digerire la verità, espellere l’onestà della scelta che avvisa: «Tornerei dalla mia donna. Se mi volesse». «L’hai avvertita?» «No. Lo dico a te per primo.» «Ti vorrà.» «Come lo sai? Ci siamo lasciati male. Sono passati tre anni. Non le ho mai scritto.» «Con le vite degli altri io sono ottimista.» L’uomo che ha messo radici, che non aveva radici, che parlava un’altra lingua adesso spiega in questa lingua che il giovane fa bene a tornare e che non provi colpa, sentimenti di sconfitta, che non si deprima ma viaggi soltanto all’indietro non nel tempo irreversibile ma nello spazio e nella longitudine, che scenda tra i cactus per tragitti, pietre e terra, boschi, città, stazioni di servizio, sentinelle, appostamenti, che arrotoli il viaggio come l’elastico che lo rincasa nella capitale. Che risvegli l’amore. Che si faccia perdonare. Che riscopra la compagna e si lasci riscoprire. «Come si chiama?» «Aurora.» «Ti è sempre mancata, ammettilo» e quello ammette «Ma così divento un vigliacco, ciò che non sono.» «Quale vigliacco? Perché?» «Perché fuggo e non sono più io.» «E chi sei, tu?» «Un medico.» «Soltanto? A ogni modo non sei l’unico.» «Questa gente chi la curerà?» «Altri medici che non sono te. E poi siamo tutti scheletri. Chi vuoi essere, uno scheletro in più? Ti accontenti? E poi, non avevi deciso? Cosa sei venuto a dirmi?» Annuisce. Diego, il sensibile Wilchen. Smette la recita dei dubbi. Diego, il fragile Wilchen. Il diamante. Non più. Anelastico. Non più. Il vino, la sedia, il sole contro cui chiudere gli occhi, il cortile, il banano secco, l’odore di Hölderlin, il saggio, il bracciante, l’immigrato, la requie, il vino, il pezzo di pane, l’aneddoto, la domanda: «Quando partirai?», la risposta: «Presto». Il vino, l’ombra del banano secco, il tanfo di Hölderlin, dalla strada le voci, dal cielo i cinguettii, i linguaggi del mondo, i pensieri, la resa, il fallimento e il sollievo. «Vuoi un altro bicchiere?» «No, vado a casa» e va. Dunque è triste. Ma è felice. Esulta. Ma si rammarica. Si libera. Ma sente un peso. Decide che non scriverà. Ad Aurora. Nessuna lettera. Semplicemente. Tornerà. Decide. Tra le percosse di Hölderlin. Messo alle corde da Hölderlin. Un pugile di stazza maggiore. Hölderlin il gigante. Contro Diego, il minuscolo Wilchen. Che decreta: Meglio tornare. Scegliere. Battaglie. Che si possono combattere. Io. Quassù. Sono indifeso. Non difendo nessuno. A stento guarisco. Gli scuoiati. A malapena ritardo. La disidratazione. Del popolo. La minorazione. Del lavoro. La siccità. Dell’eguaglianza. I parassiti del Nord portano l’infezione ai poveri. Nella raccolta carenziale, tropicale, pandemica, pestilenziale dello zucchero. Nel subaffitto. Della libertà. L’esistenza morbigena. Il contagio di Hölderlin. Io. Non li posso curare. Prescrivo la quarantena. L’antibiotico. Il rimedio. Ma solo la fuga è profilattica. Solo nascondersi. Solo il suicidio. Guarisce. La febbre di Hölderlin, l’arsura, è per sempre; si strascica nel tramonto, recidiva con l’alba. E ho esaurito le gocce, se non per il pianto. La valigia è aperta, lo zaino è divaricato, i libri già in ordine, le camicie piegate. Diego che si arrende Wilchen riacquista il pensiero di Aurora. Diego in cui torna l’amore Wilchen. Si sdraia. Nel riposo delle immagini. Spera. Fantastica punti interrogativi. Abiterà ancora a Corrientes? Non si sarà fidanzata, sposata? Devo chiedere agli amici. Mi dissero che era entrata nella militanza. Non può essere moglie né madre. Non deve. Mi riprenderà? Mi perdonerà? S’addormenta tra l’ansia e il desiderio. A destra la catastrofe. A sinistra il successo. Aurora ha la sagoma di un porto straniero e sta nel mirino della barca che naviga, con l’enigma: un approdo ospitale oppure ostile? L’acqua è quieta, i flutti ipnogeni. I remi scrosciano, aiutano le vele. Il sapore di un bacio di Aurora. Il profumo di Aurora. La voce di Aurora. Diego procede tra gli scogli, controlla la vogata, dirige il timone finché entra il giorno e si sveglia, saluta gli amici, consegna i documenti, visita l’ultimo bambino, sveste il camice, smette lo stetoscopio, compra il biglietto, prepara i panini, riempie la borraccia, si emoziona al pensiero del ritorno, immagina la sorpresa e l’urlo di Aurora, svuota il frigo, fotografa il muro dello zuccherificio (per non dimenticare), cespi di canne (per non scordare), mucchi di bagassa, scuri, porte e finestre, la quercia, lo spaccio e il negozio del sarto, intonaci scortecciati, mattoni, campanelli, la chiesa, il municipio. Crea piccoli fossili. Imprime memorie. Sulla pellicola. Intanto si meraviglia di aver conservato il ricordo di Aurora. Nel corso degli anni. Una presenza assopita. Una ragazza all’interno di un medico dalle sembianze dell’infrangibile Wilchen; e invece perforato. Il diamante, non più. Adesso: il tenero Wilchen. Adesso: il crepuscolo, l’elettricità, luci fioche tra vicoli e mura, la madre rincasa in silenzio, un passo dietro la figlia, il bambino e il pallone, il vecchio e la sigaretta, il motorino che alza polvere, l’odore dell’aglio f...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. PARTE PRIMA
  3. PARTE SECONDA
  4. EPILOGO
  5. MATERIALI