Io fascista
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Io fascista

Informazioni su questo libro

L'8 settembre 1943 il generale Badoglio rende pubblico l'armistizio di Cassibile e insieme al re fugge da Roma per mettersi in salvo a Brindisi, sotto la protezione dell'esercito Alleato. Le armate tedesche approfittano del caos per occupare gran parte dei centri nevralgici del paese. Colto di sorpresa, il popolo italiano è allo sbando, privo di punti di riferimento. È l'inizio della guerra civile.Ottocentomila giovani decidono di difendere la Repubblica sociale italiana: rifiutano quella resa senza condizioni, quell'improvviso rovesciamento di fronte; continueranno a combattere per una causa ormai persa. Io fascista è la testimonianza di uno di loro. Giorgio Pisanò, che militò nella Decima Mas e che ha sempre rivendicato con forza quelle scelte, ripercorre qui i giorni della guerra civile e della Rsi, così come i giorni successivi alla sua fine: dalla ritirata nel ridotto alpino valtellinese – nella vana attesa di Mussolini – agli ultimi combattimenti della «colonna Vanna» che, circondata dalle forze partigiane, si arrende il 28 aprile 1945.Pisanò trascorre lunghi mesi di prigionia: dal carcere di Sondrio viene trasferito a San Vittore, e infine – accompagnato dal costante timore di un'esecuzione sommaria – al 370 POW, il gigantesco campo di detenzione inglese a Rimini. Chiuso in uno stanzone con altri quattrocento uomini, viene rilasciato soltanto il 7 novembre 1946, quando la guerra è finita ormai da più di un anno e mezzo.Grazie alle memorie, agli appunti, alle fotografie e alle lettere portate in salvo da Pisanò, Io fascista aiuta a far luce sulle ultime ore della Rsi – uno dei momenti più drammatici della storia italiana – in una prospettiva schiettamente di parte, indigesta e per questo imprescindibile.

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Informazioni

Anno
2015
eBook ISBN
9788865764800
Argomento
Storia
1. Verso il ridotto alpino
«Siamo alla fine. Il nemico è alle porte di Bologna. Come già sapete, tutte le nostre formazioni si ritireranno gradatamente dalla valle del Po e raggiungeranno la Valtellina. Là ci attendono tremila uomini al comando del generale Onori. E là combatteremo attorno a Mussolini l’ultima battaglia. Voi due partirete stasera stessa. Vi recherete a Sondrio e vi presenterete al federale Parmeggiani. Resterete in attesa di ordini. Siete destinati a una missione particolare.»
«Possiamo sapere» domandò Manini «qualche cosa di più preciso a proposito di questa missione?»
«È prematuro» rispose il maggiore della Guardia che ci aveva convocati. «Credo però che dovrete recarvi in Svizzera clandestinamente. Ora potete andare.»
Manini e io ci irrigidimmo nel saluto e uscimmo dalla stanza.
Questo breve colloquio, che doveva segnare l’inizio dell’ultima grande avventura da me vissuta nei ranghi della Repubblica sociale italiana, ebbe luogo alle dieci di mattina del 19 aprile 1945 in una stanza del palazzo di via Mozart, a Milano, dove avevano posto la loro sede la direzione nazionale del Partito fascista repubblicano e il comitato generale delle Brigate nere.
I corridoi, quel giorno, brulicavano di soldati di tutte le armi: legionari del battaglione Guardia del Duce ne presidiavano gli ingressi. E anche via Mozart era piena di uomini e di automezzi. All’alba erano giunti dal fronte gli squadristi della Brigata nera di Lucca che avevano parcheggiato tra l’altro un loro mastodontico autocarro blindato che, qualche giorno più tardi, il 27 aprile, avrebbe ospitato Mussolini negli ultimi chilometri di strada prima di Dongo, tra Menaggio e Musso, e sul quale Pavolini avrebbe tentato un’ultima resistenza.
Eravamo appena usciti dalla sede del partito quando ci sentimmo chiamare: «Pisanò, Manini, venite con me». Un ufficiale del comando generale delle Brigate nere ci raggiunse di corsa. Notai che era in borghese. «C’è un lavoro da fare» ci precisò a bassa voce quando ci raggiunse. «Seguitemi.»
Obiettammo che avevamo ricevuto ordini precisi e che dovevamo eseguirli.
«Non importa» replicò. «Si tratta di una missione che va compiuta a Milano entro poche ore. Mi è stato detto che possiamo contare anche su di voi. Venite con me. Vi spiegherò tutto.»
Non ci fu da andare molto lontano. Il nostro accompagnatore si avviò verso viale Maino e, poco prima di giungere all’incrocio con via Vivaio, si infilò nel portone di un palazzo che sorgeva sulla nostra sinistra. Salimmo, se ben ricordo, fino al terzo piano. Lì, in una stanza molto vasta, trovammo una trentina di persone. In maggioranza giovani ufficiali come noi.
Dietro un tavolo c’erano tre individui in borghese che non avevo mai visto. Il nostro accompagnatore si avvicinò a uno dei tre e gli mormorò qualche cosa che non afferrai. Molto probabilmente dovette spiegare chi eravamo Manini e io perché quel tale ci guardò, disse «Benissimo» e poi, rivolto a tutti i presenti, cominciò a parlare.
La chiacchierata non fu lunga. «Sappiamo che siete tutta gente fidata e abbiamo pensato di affidarvi un incarico piuttosto delicato. Immagino che nessuno, tra noi, si faccia alcuna illusione su quello che ci aspetta nelle prossime giornate, forse nelle prossime ore. Dovremo ritirarci da Milano e concentrarci in Valtellina. Ma prima di andarcene vogliamo regolare alcuni conti troppo a lungo rimasti in sospeso. Noi abbiamo gli elenchi di tutti i comandi partigiani in città. Conosciamo i nomi dei capi: sappiamo dove sono nascosti. Sono circa centocinquanta. Be’, questa notte li faremo fuori tutti. Occhio per occhio, dente per dente. Fino a oggi siamo stati fermi perché il Duce ci ha tenuto le mani legate. Ma ora non intendiamo più aspettare. Ci divideremo in due squadre. Ogni squadra riceverà un gruppo di indirizzi. In poche ore sbrigheremo tutto. Faremo come loro hanno fatto con i nostri: una suonata di campanello, un invito a seguirci e una raffica di mitra ben diretta.»
Un silenzio di tomba accolse queste parole. Poi si levò una voce: «Noi siamo soldati non assassini». Altri si unirono nella protesta. Qualcuno gridò: «Ma il Duce è al corrente di questo piano?». «Lasciate stare il Duce» urlò allora uno dei tre dietro il tavolo «lui, queste cose, non deve saperle.» Si scatenò un putiferio. «Ricordatevi dei nostri caduti» gridava quello che ci aveva esposto il piano d’azione. «Ricordatevi che la stessa sorte toccherà tra poco anche a noi. Facciamogliela pagare in anticipo.» «Falla finita» gli venne risposto «non contare su di noi. Loro hanno la responsabilità di tutto il sangue versato. E loro se la devono tenere. Prendere un’iniziativa così, proprio adesso, alla fine di tutto, è semplicemente idiota. Prima, dovevamo farlo. Ora ci resta solo da combattere fino in fondo. Via di qui, ragazzi, fuori. Torniamo ai nostri reparti.»
Scendemmo le scale in gruppo, tumultuando e imprecando.
Qualcuno, poi, dovette correre e riferire l’episodio in prefettura, dove si trovava il Duce. L’iniziativa, infatti, non ebbe alcun seguito: e ciò, quasi certo, per intervento diretto di Mussolini.
Quando uscimmo di lì Manini e io, senza dire parola, ci avviammo lungo via Vivaio, verso corso di Porta Vittoria. Non c’era davvero molto da commentare. Quell’ultimo episodio ci aveva avviliti. Ci stavamo ripetendo ormai da molti giorni che dovevamo «finire in bellezza», e il sapere che qualcuno dei nostri maturava eccidi del genere non ci confortava davvero. Eravamo proprio giunti alla fine di tutto: noi avevamo già in tasca l’ordine di ritirata, altri inventavano progetti pazzeschi. Che cosa sarebbe accaduto? Che cosa mi sarebbe accaduto? Confesso che, in quegli istanti, per la prima volta, lo spettro della fine imminente e della morte mi si parò davanti in tutta la sua tragicità. L’avevo atteso, quel momento, sia pure tra mille speranze, durante tutti i diciotto mesi della Repubblica. E ora me lo sentivo addosso, e mi stringeva lo stomaco in una morsa. Avevo ventun anni e non avevo voglia di morire.
«Non ci pensare» disse Manini, intuendo i miei pensieri.
«È una parola» risposi.
«Abbiamo ancora un mitra a portata di mano. Ci vengano a prendere, se ne hanno il coraggio» ribatté.
Lo guardai: Mafilas Manini, 24 anni, pistoiese. L’avevo conosciuto la sera dell’8 settembre. Io ero giunto a Pistoia da pochi giorni: mio padre, funzionario di prefettura, era stato destinato lì alla fine di agosto, e la famiglia l’aveva seguito. In quella città non conoscevo ancora nessuno.
Dopo l’annuncio dell’armistizio, mi ero trovato tra la folla che gridava, cantava, inveiva. Avevo visto la truppa disperdere i dimostranti, avevo visto alcuni comunisti strappare le bandiere e sputarci sopra. A un certo punto ero entrato in un portone e mi ero messo a piangere.
Un giovane della mia età mi aveva notato. «Perché piangi?» mi aveva chiesto. «Perché non ho voglia di ridere. E va’ all’inferno anche te» gli avevo risposto. E lui: «Nemmeno io ho voglia di ridere. Qui stanno impazzendo tutti». Non ci avevamo messo molto a capire che la pensavamo alla stessa maniera. Si chiamava Maurizio Degli Innocenti.
Quella sera Maurizio mi aveva presentato ai suoi amici: Valerio Cappelli, Rolando Chelucci, Ruy Blas Biagi, Enzo Pasi, Mafilas Manini, e altri ancora. Il giorno dopo, quando ancora Pistoia era terra di nessuno e di Mussolini non si sapeva nemmeno se era vivo o morto, avevamo riaperto la sede della Federazione fascista e ci eravamo armati unendoci alle masse scatenate che saccheggiavano le caserme. I tedeschi, scesi dal passo della Collina, avevano trovato un pugno di ragazzi in camicia nera, decisi a farsi rispettare.
Poi era incominciata, per me, Maurizio, Rolando, Enzo, Valerio, Mafilas e per tutti gli altri, la grande avventura della Repubblica sociale. Mafilas, Ruy Blas, Maurizio e io ci eravamo arruolati nella Decima; gli altri tre nei paracadutisti. Erano venuti quindi i mesi dell’addestramento e il passaggio ai «servizi speciali» per le terre occupate dal nemico. E le prime perdite: Rolando Chelucci, 19 anni, paracadutista dell’Aeronautica, era caduto sul fronte di Anzio e Nettuno; Valerio Cappelli, 21 anni, sottotenente carrista dei battaglioni M, era rimasto fulminato sul suo carro durante un rastrellamento in Piemonte.
Per Mafilas, Ruy Blas e me era giunto il tempo delle missioni «oltre le linee». Mafilas era andato in Umbria. Ruy Blas in Toscana. Io ero stato paracadutato presso Roma. Dei tre, solo io e Mafilas eravamo tornati. Biagi, in seguito al tradimento di uno dei nostri passato al nemico, era stato catturato, condannato a morte da un tribunale inglese e fucilato alle Cave di Mairano, presso Firenze. Poi ancora in missione: questa volta insieme, io e Mafilas. Ci avevano presi a San Piero in Bagno, il 14 ottobre 1944. Ma eravamo fuggiti dal comando del controspionaggio britannico e avevamo riguadagnato le linee. Sul tavolo degli agenti dell’Intelligence Service avevo però lasciato tutti i miei documenti, autentici, con tanto di fotografia. Di ritorno da questa missione, alla Croce di Ferro di 2a classe guadagnata nel corso delle missioni precedenti si era aggiunta per entrambi quella di 1a classe.
Ma non potevamo più riattraversare le linee: le nostre fotografie erano affisse, come ci avevano raccontato alcuni nostri agenti speciali tornati dopo di noi, su tutti gli angoli. Allora eravamo stati chiamati al quartier generale del Duce, con compiti speciali. Vestivamo la divisa di ufficiali delle Brigate nere, portavamo i gradi di tenente e i nostri documenti ci qualificavano «corrispondenti di guerra» alle dipendenze delle «Compagnie operative di propaganda».
Sempre insieme, io e Mafilas. E adesso, ancora insieme, ci preparavamo ad affrontare l’ultimo capitolo della grande avventura, forse l’ultimo della nostra esistenza.
Assorti nei nostri pensieri arrivammo in corso di Porta Vittoria. La giornata era piena di sole, limpida come raramente capita a Milano. Abitavamo in una pensione all’inizio di viale Campania, in fondo a corso Ventidue Marzo. Era quasi mezzogiorno. Decidemmo di fermarci a mangiare qualcosa nella prima trattoria e di andare poi a preparare il nostro bagaglio.
Ne incontrammo una dopo pochi metri. Pranzo a prezzo fisso: dieci lire. Era abbastanza affollata. Ci sedemmo a un tavolo dove già stavano pranzando altre persone. Subito, il tizio che sedeva alla mia destra, chiese il conto, pagò, si alzò rapidamente e abbandonò il locale. Sul momento non ci feci molto caso. Non mancai di notare, però, il comportamento di un altro che mi sedeva davanti: non finì nemmeno di mangiare il secondo piatto. Anche lui chiese il conto e filò via.
«Hai visto?» mi sussurrò Manini. «Siamo diventati degli appestati. Se la squagliano perché hanno paura di sederci vicino.»
Aveva ragione. In breve attorno a noi si fece il vuoto. Era la prima volta che mi capitava di vivere un’esperienza del genere. Fino al giorno precedente, fino a quando cioè la sconfitta non era diventata un fatto certo, ineluttabile, avevamo frequentato ristoranti, cinema, teatri senza che mai nessuno si scostasse da noi. Ma ora la situazione precipitava. Le radio straniere dovevano avere trasmesso che era questione di giorni, se non di ore, e i comandi partigiani non avevano perso un istante per far sapere in giro che chiunque vestisse la divisa fascista stava per diventare un bersaglio. Di qui la paura della gente, di qui il girarci alla larga nel timore di restare vittime di qualche attentato.
Mangiammo in fretta e in silenzio, poi uscimmo di nuovo sul corso Ventidue Marzo. Ora osservavo il comportamento dei passanti. Ci guardavano come si guardano i moribondi. Mi tornarono alla mente, in quei momenti, le giornate di dicembre, quando la visita di Mussolini a Milano aveva scatenato un’ondata di entusiasmo popolare, autentico e incontenibile, mentre nessun partigiano aveva osato farsi vivo per le vie della città. Ma allora il nemico era inchiodato sulla Linea gotica, e adesso, invece, stava dilagando nella Pianura padana. E la gente aveva paura: ma non di noi. Aveva paura degli attentati comunisti, dei «gappisti», come si facevano ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sommario
  3. Premessa
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Capitolo 17
  21. Capitolo 18
  22. Capitolo 19
  23. Capitolo 20
  24. Capitolo 21
  25. Appendice fotografica