1. Una vocazione precoce
Quelli tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’60 non furono anni cupi, per noi adolescenti nella città di Sassari. La prima immagine che ho di quel tempo è di natura religioso-marziale. Una processione per i vicoli del centro storico: una lunga teoria di persone (all’epoca i riti religiosi riscuotevano un notevole consenso) che, a passo spedito, percorreva un tragitto tortuoso, attraverso una toponomastica urbana molto concentrata. Il momento di massima intensità era quello, appunto, del passaggio tra vie e vicoli stretti della città vecchia. Dall’alto, e da piazza d’Italia, vi si arrivava grazie a una discesa (una calata) di non troppe centinaia di metri. Si percorreva il corso Vittorio Emanuele, si voltava a sinistra e ci si immetteva nelle viuzze che portano al Duomo. Ecco, quel tratto di cammino tra il corso e il Duomo costituiva un’occasione di divertimento strepitoso. In fila per due, mentre l’angustia del passaggio avvicinava le due colonne prima distanti della processione, ci si trovava a sfiorare i muri delle case e le porte dei bassi che si affacciavano ai due lati della via, priva di marciapiedi. Lì scattava, all’unisono, un’azione collettiva che coinvolgeva in particolare noi, membri della Gioventù italiana di azione cattolica della parrocchia di San Giuseppe, della quale ero militante, passando via via, negli anni, dal ruolo di fiamma verde a quella di fiamma rossa. Io e i miei coetanei e commilitoni di quello schieramento non resistevamo alla tentazione di battere le nocche dei nostri ancor piccoli pugni chiusi contro le porte di quelle case che risultavano alla nostra altezza. Quindi, le pochissime persone che vi erano rimaste all’interno (la grande maggioranza ne era uscita per assistere alla processione) sentivano questo bussare ripetuto e ritmato, che durava tanto quanto durava il passaggio di quel tratto di processione e accorrevano ad aprire le basse porte, stupite e confuse. Ma era quello anche il momento in cui si faceva più intenso, dato che ci si avvicinava alla meta – il Duomo, appunto –, il nostro canto. Per caso, o per un’accorta regia, per un’intelligenza scenica e musicale, in genere dovuta ai dirigenti adulti della Gioventù italiana di azione cattolica o a qualche seminarista che ci accompagnava o a qualche viceparroco che vigilava su di noi, si intonava proprio quel canto lì. E quel canto aveva versi che meritano di essere ricordati:
Qual falange di Cristo Redentore
la gioventù cattolica è in cammino,
la sua forza è lo spirito divino,
origine di sempre nuovo ardor.
Ed ogni cuore affronta il suo destino
votato al sacrificio ed all’amor.
Bianco Padre che da Roma ci sei meta, luce e guida,
in ognun di noi confida
su noi tutti puoi contar.
Siamo arditi della fede,
siamo araldi della Croce;
al tuo cenno, alla tua voce
un esercito all’altar!
Balde e salde s’allineano le schiere,
che la gran Madre dal suo sen disseta
la più santa famiglia della terra,
innalza al cielo i cuori e la bandiera
ed ogni figlio è pronto alla sua guerra
votato al sacrificio ed all’amor.
Quelle parole così rotonde e marziali, comprenderete, suonavano irresistibili per noi: eravamo ragazzini tra i dieci e i quindici anni, nutriti delle fantasie che tutti i ragazzini tra i dieci e i quindici anni coltivano, più intensamente di altri toccati da alcuni modelli eroici di testimonianza cristiana (San Tarcisio, in primo luogo, nell’epoca della Gioventù italiana di azione cattolica). Modelli che con la massima disinvoltura intrecciavamo ad altri modelli, innanzitutto quelli trasmessi dagli album dei fumetti. San Tarcisio, per dire, nell’iconografia e nella martirologia cristiane è rappresentato come un fanciullo, lapidato a morte dai pagani, che – durante le persecuzioni dell’imperatore Aureliano – volevano impedirgli di consegnare l’eucarestia ai cristiani imprigionati. Tarcisio, stringendo al petto l’ostia consacrata, veniva inseguito, oltraggiato infine ucciso da un lancio di pietre. In qualche libro di quegli anni, forse nel romanzo Fabiola o la storia delle catacombe di Nicholas Wiseman, una tavola a colori illustrava quella scena straziante: nella mia mente, il volto serio e infantile di Tarcisio si sovrapponeva a quello, altrettanto serio e infantile, di Capitan Miki, ranger del Nevada, che combatteva il Male (il Peccato e l’Ingiustizia) e beveva solo latte.
I pueri cantores vanno a Lourdes
In quegli anni, dunque, frequentavo la parrocchia di San Giuseppe, poi diventata celebre perché considerata, a ragione o a torto, la culla e la sede di formazione o comunque di ritrovo di molti esponenti politici, anche di livello nazionale (Antonio e Mario Segni, Francesco Cossiga, Arturo Parisi e, esclusivamente per ragioni toponomastiche, Enrico Berlinguer). Io ebbi modo di frequentarla dall’infanzia fino ai 16 anni, e anche oltre, combinando – senza grandi conflitti – la militanza nell’Azione cattolica con quella nella Federazione giovanile comunista italiana e nel Partito socialista italiano di unità proletaria. Devo dire che quegli ambienti cattolici furono, per me, una palestra di esperienze e di incontri, di vivacità intellettuale e di relazioni sociali davvero preziosa. C’era, anche lì, una sorta di discriminazione gerarchica (e per certi versi di classe): un numero rilevante di giovani si aggregavano intorno al parroco, monsignor Giovanni Masia, e un altro, di età inferiore, intorno all’assistente dell’Azione cattolica, don Leonardo Carboni. Correva tra i due gruppi, dicevo, una sottile frattura, che – rafforzata dalla differenza di età – poneva il primo gruppo in un ruolo di maggiore prestigio intellettuale e sociale e l’altro, noi, in una dimensione più ricreativa e devozionale. E infatti, di quegli anni, ricordo innanzitutto l’attività sportiva, incessante e infaticabile: il calcio e il ping pong, in primo luogo. Attività svolte tenacemente, con passione pari alla serietà e alla dedizione quasi maniacale con cui ci applicavamo. Poi ricordo i campeggi estivi, le confessioni del sabato, il servizio all’altare (l’attività di chierichetti) e la musica. La musica era, va da sé, quella religiosa e gregoriana, quella degli inni e dei canti da processione e quella della messa solenne. Sotto il profilo vocale, io – allora come oggi – disponevo di una grandissima voglia e di un altrettanto grande impegno, di una tonalità assai forte, robusta e all’occorrenza stentorea: ma, ahimè, di una scarsa intonazione. Questi tre elementi, evidentemente, vennero ritenuti sufficienti perché entrassi a far parte dei pueri cantores della parrocchia: ero, se ricordo bene, il più giovane, un ragazzino non ancora adolescente, accanto ad altri ragazzi (le ragazze non erano in alcun modo previste) tutti più grandi di me, di qualche mese o di alcuni anni. In quella veste, che poi comportava anche una veste vera e propria (una cotta bianca sopra una tunica nera con una lunga fila di bottoni dal collo fino ai piedi), partecipai ad alcuni eventi per me memorabili. Intanto, potevo accedere alla tribuna dell’organo, collocata sopra la bussola dell’entrata della chiesa, che si raggiungeva attraverso una buia scala a chiocciola. Sopra, in quella balconata regnavano l’oscurità e il disordine, e l’organo sembrava risplendere come una pietra preziosa abbandonata per sbaglio nel polveroso retrobottega di un rigattiere: lo spazio era scarso e occupato da mille oggetti e i ragazzi del coro si disponevano lì, mentre don Carboni seduto all’organo suonava col volto rivolto verso di noi per guidarci con lo strabuzzare degli occhi miopi dietro le lenti montate in oro, con bisbigli imperiosi, con gesti rapidi delle mani grassocce. Io, affascinato e insieme consapevole dei miei limiti, mi accontentavo di fare i cori: ovvero di unire la mia voce già robusta a quella più educata e disciplinata degli altri. Ne ero felice. Il massimo era la messa di Natale, quella di mezzanotte. Va detto che una mia caratteristica, mai dimessa, si manifestava già allora. Ovvero la tendenza irresistibile, e incoercibile, a addormentarmi presto la sera, qualunque cosa accadesse e qualunque impegno dovessi assolvere. Com’è noto la messa di Natale è quella che si celebra a mezzanotte tra il 24 e il 25 dicembre. Il Natale era per me, come per tutti i ragazzi italiani, la ricorrenza più significativa della vita familiare e sociale e, insieme, il momento magico dell’anno, quello maggiormente carico di attese e di sorprese, di emozioni e desideri. La scoperta dei regali, disposti lì sul pavimento, tra l’albero e il presepe, era preceduta da quella breve notte di sonno, iniziata alla conclusione della messa di mezzanotte. Dunque, quella messa era una sorta di rito sospeso tra la vigilia e la festa, tra l’aspettativa e la soddisfazione, tra l’attesa e la conferma. Ma era anche una cerimonia di solennità, carica di un peso abnorme di luce e musica, di oro e incenso, di paramenti e canti. Ricordo soprattutto quella luce abbagliante, direi abbacinante, che si rifletteva dai grandi lampadari alle centinaia di candele, all’oro degli stucchi e degli arredi. E il profumo penetrante e lisergico (avrei detto, se avessi conosciuto il termine all’epoca) dell’incenso, profuso con generosità. L’atmosfera era intensa e compatta, il tepore denso e solido, fino a farsi caldo e confortante e talora addirittura oppressivo. I pueri cantores, in quell’occasione, indossavano sotto la cotta bianca una vesta rossa, e si ritrovavano dietro l’altare maggiore, seduti disordinatamente negli scranni che vi si trovavano. Secondo il ritmo della messa e i suoi diversi passaggi venivamo chiamati a entrare sull’altare, collocandoci nel lato sinistro dello stesso (per chi ci guardasse dai banchi dei fedeli). Nel corso di una di quelle messe solenni, all’età di dieci, undici anni, un episodio significativo lasciò una traccia indelebile nella mia biografia e nella nostra storia familiare. Io partecipavo a tutti quei momenti e movimenti liturgici in uno stato di semicoscienza, in condizioni di sonnolenza avanzata, tra brevi veglie e momenti di lucidità. Mi accodavo tardivamente agli altri quando entravano sull’altare, mi serravo alle loro file e tentavo di unirmi sommessamente alle loro voci, mi allontanavo dietro di loro quando dovevamo uscire di scena. Tutto filò più o meno liscio fino all’ultimo nostro ingresso, quando eseguimmo il canto successivo alla comunione, terminato il quale la celebrazione si avviava verso la conclusione e l’ite missa est. Il sonno si era ormai impadronito di me e dunque non riuscii a smuovermi dalla panca sulla quale mi ero abbandonato, al riparo dalla vista dei fedeli grazie ai cantores che mi stavano davanti. Quando questi ultimi si allontanarono io rimasi là, piegato sulla panca e perfettamente addormentato.
La messa si concluse, celebranti e chierichetti si diressero verso la sagrestia, lasciandomi sulla panca, nella luce vivida delle candele e dei lampadari. La mia famiglia, che aveva seguito con trepidazione tutta la scena, tra le prime file dei banchi, rimaneva come in attesa che qualcosa accadesse. Poi mio padre si fece animo e lentamente si diresse verso l’altare, salì gli scalini e venne verso la panca, mi scosse il braccio con decisione e mi prese per mano, aiutandomi ad alzarmi. Se ne parlò a lungo. E, tuttavia, la scena si ripeté l’anno successivo, con poche varianti.
Poi, o per inappellabile decisione paterna («Basta! Facciamo ridere») o per una più accorta gestione dei movimenti sull’altare o, più improbabilmente, per una mia maggiore resistenza al sonno, quella scena patetica non si ripeté più. E, tuttavia, esordi così maldestri e goffi non costituirono un ostacolo sufficiente a bloccare l’ulteriore percorso della mia carriera di corista, della quale il passaggio cruciale e l’apogeo furono rappresentati dal viaggio a Lourdes. Di quel viaggio non ricordo molto: ho memoria precisa, tuttavia, dell’atmosfera della grotta. E se la chiesa parrocchiale San Giuseppe di Sassari rimane nella mia mente come una sorta di trionfo di luci abbaglianti, della grotta di Lourdes, conservo un ricordo altrettanto forte. È il ricordo di un’atmosfera tutta acquatica, umida, rugiadosa. Più che un’atmosfera: un clima, una condizione, uno stato emotivo e fisico condiviso, tutto irrorato e, direi, ruscellato dal flusso sonoro dell’acqua che non si interrompeva mai (poco lontano scorreva il fiume) e che assumeva tonalità diverse, cupe o leggiadre, a seconda della collocazione di chi prestava orecchio; come se si trovasse alla foce di un corso d’acqua o nello scintillio della cortina di gocce di una cascata. In quello spazio umido e poroso, ci si muoveva come bagnanti su una spiaggia affollata. Una spiaggia per persone modeste e raccolte (non so se infelici), dalle fisionomie severe e aggrottate, dai colori grigi e lividi (era la fine degli anni ’50), impegnate nell’adempimento di un dovere ineludibile, quasi fatale, e svolto tuttavia con una determinazione che rivelava una qualche fiducia, se non proprio speranza. Quei bagnanti, seguendo disposizioni precise e rigorose, si mettevano in fila, si accalcavano, premevano per poter infine raggiungere la riva del mare e l’acqua: le vasche in cui abbandonarsi per alcuni istanti e in cui cercare ristoro e sollievo. E quei bagnanti comunicavano, nonostante tutto, una tranquilla normalità: mutilazioni, protesi, infermità, deformazioni, in qualche caso mostruosità, sofferenze fisiche e psichiche evidenti, tutto appariva interno, profondamente e lietamente, a una condizione esistenziale accettata. Non rassegnata necessariamente, bensì accolta. Tanto più che malati e sani, persone integre o con gravi handicap, disabili non autosufficienti e loro accompagnatori, tutti si mischiavano nella celebrazione di quel rito acquatico. Anche la mia memoria di quel rito è, nei suoi contorni vaghi, quieta, ravvivata da due tracce significative. La prima è, ancora una volta, di natura musicale: quell’atmosfera, quell’ambientazione, tutto intero quel viaggio, e anche quella folla e quei gesti e quelle attese, sono accompagnati da un canto ininterrotto. I pueri cantores della parrocchia San Giuseppe di Sassar...