Rapporto confidenziale sui moti del Maggio
Scopo di questo rapporto è risalire alle cause storiche delle doglianze che esplosero nelle sollevazioni del maggio 2035. La nostra tesi è che esse siano state organizzate dalla generazione che iniziò a lavorare dopo il 1996, l’anno in cui entrò in vigore la riforma contributiva delle pensioni. A quel tempo fu creata una cassa dell’Inps, denominata «gestione separata», alla quale tutti i lavoratori non subordinati furono obbligati a iscriversi. Nel giro di venti anni questo esperimento sociale iniziò a produrre i primi effetti imponendo ai lavoratori indipendenti l’obbligo di versare il 27 per cento dei contributi sui loro guadagni. La cassa andò subito in attivo, si dice che già nel 2011 avesse raggiunto i 10 miliardi di euro; oggi il suo bilancio è quintuplicato. Questa enorme liquidità finanziò le pensioni dei lavoratori dipendenti e la cassa integrazione dei lavoratori privati, che si era allungata a dismisura a causa della crisi dovuta all’esplosione della bolla immobiliare, che durò venti anni e provocò una disoccupazione di massa di lunga durata. Tutti i governi europei, le forze politiche di maggioranza e di opposizione, concordemente ai sindacati e alle associazioni datoriali convenivano sulla necessità di mantenere in vita questo sistema squilibrato per assicurare la tenuta della società.
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La segretezza di questo rapporto e l’obbligo alla serietà avalutativa nel compiere le ricerche ci impongono il dovere di sollevare un problema che il governo dovrà considerare in tutta la sua estrema gravità: oggi la maggioranza della forza-lavoro, che per una vita ha svolto mansioni domestiche o addirittura servili, è giunta all’età della pensione, ma pur avendo versato i suoi contributi alla gestione separata non ha diritto ad alcun assegno di sostentamento. Tutte le risorse, ingentissime, accumulate in questa cassa previdenziale sono vincolate a tenere in vita le generazioni precedenti e non possono essere allontanate da questo impegno. Siamo consapevoli che un ordine sociale concepito su queste basi è difficile da alterare, ma la situazione è un rischio per la sicurezza degli Stati membri dell’Unione Europea.
Tutto iniziò alla metà degli anni Novanta, dopo la riforma contributiva del sistema previdenziale, quando venne definito il ventaglio dei trentatré «contratti atipici» tutt’ora esistenti. Allora si imponeva anche il blocco delle assunzioni a tempo indeterminato nella pubblica amministrazione, inizialmente ridotta di 300 mila unità (500 mila in Inghilterra), poi a meno di un terzo rispetto agli anni Ottanta. Ciò comportò l’esplosione di una forma di vita ibrida che alternava rapporti di lavoro parasubordinato a rapporti di tipo autonomo e dipendente, aggiuntosi al lavoro autonomo svolto nei servizi. Nel 2008, all’incirca 3 milioni di persone si trovavano in questa situazione.
Sondaggi più recenti hanno aggiunto a questa cifra anche i soggetti che non conducono un lavoro professionale riconosciuto, gli «atipici» e gli «intermittenti» di ogni genere e foggia, compresi quelli che svolgono attività informali o al nero. In questo caso il totale sfiora gli 8 milioni di persone. L’incertezza dei dati è sempre stata grande, ciò prova l’inaffidabilità della statistica ufficiale, oltre che delle scienze sociali, a comprendere un fenomeno che investe più di un terzo della forza-lavoro attiva in Italia (il 32,7 per cento). Questi numeri sono cresciuti in tutto il mondo negli ultimi venti anni e sono destinati a crescere ancora. Solo negli Stati Uniti il lavoro autonomo, intermittente e temporaneo è aumentato fino a superare la metà della forza-lavoro attiva: nel 2010 erano 42 milioni di persone, oggi più del doppio.
Nel disinteresse della maggioranza dell’opinione pubblica, venne a crearsi una muta umana di circa 8 milioni di persone ben istruite, senza la minima possibilità di essere occupata dignitosamente. A seguito della ricollocazione dell’Italia nelle fasce medio-basse dei mercati globali, frutto di una non troppo ponderata scelta di deindustrializzazione iniziata negli ultimi anni del XX secolo, i governi decisero di ridimensionare l’offerta formativa che era stata penalizzata da numerosi insuccessi: il numero dei laureati non aumentava, mentre cresceva la quantità di quelli che non trovando altra occupazione dovevano accettare retribuzioni inferiori alla media europea di almeno mille euro.
Nel rapporto del 2010 di un importante organo di valutazione poi soppresso si leggeva che tra il 2003 e il 2009 il sistema universitario aveva perso 43 mila iscritti all’anno, per un totale di 258 mila studenti. Gli iscritti al primo anno passarono da 338 mila a 293 mila, e la tendenza all’abbandono degli studi superiori crebbe negli anni successivi. In quegli anni la situazione doveva essere osservata dal lato della scuola per comprenderne la drammaticità. Solo il 47,7 per cento degli studenti diplomati sceglieva di continuare gli studi, mentre aumentava il tasso di abbandono durante gli anni universitari. Il drastico ridimensionamento del sistema formativo raggiunse tassi considerevolmente alti in merito alle specializzazioni e ai dottorati. Tra il 2008 e il 2009 gli iscritti ai corsi diminuirono di oltre un migliaio a causa del forte ridimensionamento finanziario dei fondi destinati all’istruzione.
Nei decenni successivi questa tendenza si rafforzò azzerando i fondi per la specializzazione della ricerca e per l’università pubblica e di massa, garantiti dal paese dal 1945 al 2010. Oggi le nostre università sono tornate al livello del primo dopoguerra: un nucleo ristretto di docenti universitari gestisce decine di migliaia di ricercatori ultrasessantenni che svolgono mansioni servili a poco o a nessun costo, perlopiù su base volontaria, senza avere alcuna possibilità di una degna retribuzione, né speranza di accedere a un giusto pensionamento. Mancano dati certi, ma è stato calcolato che nel 2015 almeno 30 mila ricercatori senza dignità scientifica, né qualifica professionale, furono espulsi dal sistema; e 100 mila nel 2005.
Attualmente la ricerca, la tecnologia, ma anche gli insegnanti di lingua italiana e coloro che si dedicano allo studio della cultura del nostro paese vengono importati dall’estero, in particolare dal Medio Oriente e dal Sud Est asiatico, dove sono nate scuole di orientamento italiano che formano personale a basso valore aggiunto, il quale ruota nelle scuole e nei seminari universitari a un ritmo vertiginoso, ma senza lasciare alcuna traccia.
La crisi finanziaria e quella del debito pubblico, che non è mai stato così elevato se non nel periodo delle Grandi Guerre, ha accelerato la svalutazione e la dequalificazione della vita legata alla conoscenza, alla formazione, alla cura, alla relazione. Questa situazione è stata inizialmente limitata alle professioni ad alta qualificazione intellettuale e a valore aggiunto. Tra il 2000 e il 2010 il terziario avanzato, cioè il settore che più aveva contribuito alla crescita produttiva del paese negli anni Novanta aumentando l’occupazione di 2,2 milioni di posti di lavoro, è entrato in una crisi profonda. Il tasso poi scese da 1,3 milioni tra il 1999 e il 2004 a 890 mila tra il 2004 e il 2009. Nei venti anni successivi c’è stata una lunga stagnazione che ha obbligato l’Italia a importare tutti i principali servizi e le competenze per le imprese. Negli ultimi cinque anni, le nuove rilevazioni hanno dimostrato che tutti coloro che hanno svolto queste mansioni si sono riconvertiti all’economia domestica come consulenti di bricolage, suggeritori per gli acquisti, dog e baby-sitter, raccoglitori di figurine e di vecchie copertine di libri per collezionisti.
Questo processo di dequalificazione avviatosi nel 2011 si rese necessario per sgonfiare la bolla formativa creata da mezzo secolo di scuola e di università di massa. La riconversione del lavoro è partita dai primi anni della scuola elementare dove i bambini sono obbligati a compiere scelte professionalizzanti irreversibili. Inizialmente a undici anni, ma sempre più spesso a sei, gli studenti devono scegliere un orientamento tra l’assistenza agli anziani, il giardinaggio, il lavoro edile, la caccia alle farfalle e alle tartarughe nel bioparco. I risultati hanno portato a una crescita della disoccupazione giovanile, incrementata del 30 per cento (dati del 2011), per poi superare il 70 per cento dieci anni dopo.
Oggi nessun giovane tra i 15 e i 35 anni lavora, ma svolge mansioni non riconosciute dal diritto del lavoro. Tutti i governi hanno occultato i dati ufficiali per non allarmare gli investitori stranieri, fino al punto di negarli del tutto. Siamo convinti tuttavia che il governo dovrebbe avviare un’indagine per comprendere le modalità di sopravvivenza di persone che, fino a oggi, hanno mescolato, nella stessa carriera lavorativa, differenti forme di prestazione e di contribuzioni fiscale e previdenziale.
Gli ultimi nati prima e dopo l’inizio del millennio, insieme ai molti che hanno vissuto negli anni dell’agonia de...