Il liberismo è di sinistra
eBook - ePub

Il liberismo è di sinistra

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il liberismo è di sinistra

Informazioni su questo libro

Il merito, non il censo. Il libero mercato, non le lobby. I diritti del cittadino, non lo spreco di denaro pubblico. Senza meritocrazia le professioni si tramandano ai figli come titoli nobiliari, senza concorrenza il consumatore è ricattato dai grandi monopoli, senza controlli i «fannulloni» continuano a gravare sulle tasche dei contribuenti. Chi è davvero di sinistra? Chi difende le categorie più deboli o chi conserva questo stato di cose?

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Il liberismo è di sinistra di Alberto Alesina, Francesco Giavazzi in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Economia e Economia politica. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2014
Print ISBN
9788842814580
eBook ISBN
9788865763520
Argomento
Economia

1
Destra e sinistra confuse

Da qualche mese in alcuni supermercati e autogrill italiani giovani farmacisti vendono medicinali a un prezzo inferiore del 20-30 per cento rispetto ai prezzi delle vecchie farmacie di città. Chi è più di sinistra? Chi liberalizza commercio e professioni o chi permette che le farmacie si tramandino di padre in figlio consentendo loro di far pagare a prezzi esorbitanti anche medicinali comunissimi come l’aspirina?
All’Università di Lecce il numero dei dipendenti addetti a mansioni tecniche e amministrative supera il numero degli insegnanti; un dato che non deve sorprendere, considerando che lo statuto dell’università prevede che il personale amministrativo abbia il 20 per cento dei voti nell’elezione del rettore. Avendo sprecato risorse in una dissennata politica di assunzioni, l’inverno scorso il rettore è stato costretto a sospendere il riscaldamento, naturalmente nelle aule, non negli uffici amministrativi, dove i termosifoni funzionano anche di pomeriggio, quando le stanze sono deserte. Pochi in città sembrano preoccupati dello stato della loro università: i figli della buona borghesia salentina studiano a Bologna, a Torino, a Milano. All’Università di Lecce sono rimasti i figli di chi non può permettersi un trasferimento al Nord. Chi è più di sinistra? Chi vuole riformare l’università, oppure chi nella Finanziaria ha imposto di stanziare più fondi per il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici per mantenere lo status quo? E infatti puntualmente i salari degli impiegati pubblici sono aumentati con riferimenti solo generici al merito e alla produttività dei dipendenti.
In Danimarca, prima dell’intervento di varie forme di assistenza pubblica, le famiglie a rischio di povertà sono 32 su 100: l’intervento dello Stato le riduce a 12 (i dati, fonte Eurostat, si riferiscono al 2003). Ciò significa che il welfare danese riesce a spostare 20 di quelle 32 famiglie fuori dall’area a rischio. In Gran Bretagna, un paese anglosassone in cui lo stato sociale è relativamente «leggero», le famiglie a rischio di povertà passano da 26 a 18 dopo un intervento statale che costa relativamente poco ai contribuenti. In Italia le famiglie vicine alla soglia di povertà sono 22, ma lo Stato riesce ad aiutarne solo 3 (in Italia, usando i dati del 2003, una famiglia composta da due genitori e due figli è definita a rischio di povertà se ha un reddito annuo inferiore a 15.000 euro). Quando si tratta di aiutare chi ne ha davvero bisogno, siamo meno efficienti della Turchia, un paese che non è certo un modello nel welfare e tuttavia sposta 5 famiglie fuori dall’area a rischio: da 30 a 25.
Chi è più di sinistra? Chi vuole riformare alla radice il nostro sistema di welfare nell’interesse dei poveri e dei giovani, oppure chi difende i fortunati che hanno un lavoro a tempo indeterminato e vanno in pensione a 57 anni?
Ridurre i vincoli ai licenziamenti riduce la disoccupazione, non la aumenta come molti vorrebbero far credere. Le imprese sono più disposte ad assumere se sanno di non entrare in una situazione contrattuale irreversibile. L’esempio di alcuni paesi nordici e dei paesi anglosassoni parla chiaro: la disoccupazione cala quando ci sono sussidi temporanei per i disoccupati e si liberalizzano i licenziamenti. Nessun economista serio potrebbe argomentare il contrario. Chi è più di sinistra allora: chi vuol ridurre la disoccupazione o chi vuol difendere quelli che un lavoro ce l’hanno già a scapito di giovani che il lavoro non ce l’hanno? Ma forse non possiamo aspettarci molto, se si pensa che le proposte sulla flessibilità del mercato del lavoro contenute nel nostro libro Goodbye Europa sono state definite «provocatorie» (nel senso negativo del termine) dal senatore Tiziano Treu, responsabile per i problemi del lavoro della Margherita, che ha preso le difese dell’illicenziabilità.
Liberalizzare è di sinistra per molte ragioni. La prima, ovvia, è che creare vera concorrenza in certe professioni, come farmacisti, notai, avvocati, tassisti, riduce prezzi e tariffe anche per i consumatori meno abbienti ed evita che i privilegi di queste professioni si tramandino di padre in figlio. La sinistra, soprattutto quella più radicale, dovrebbe essere in prima fila in questa battaglia. Invece non lo è e non lo è stata mai. Perché? Perché teme che dopo aver liberalizzato le professioni si cominci a parlare di liberalizzazione del mercato del lavoro, toccando gli interessi di quello zoccolo duro di lavoratori anziani illicenziabili e di impiegati pubblici (compresi quelli improduttivi, i «fannulloni» di Pietro Ichino), superprotetti dall’attuale legislazione. Ecco allora che si crea un’alleanza «diabolica» tra ordini professionali e sinistra estrema, contro il giovane, il consumatore e il contribuente. La seconda ragione è che liberalizzare il mercato del lavoro, proteggendo i disoccupati con sussidi ben congegnati, ma senza impedire alle imprese di licenziare chi non è più adatto alle necessità aziendali, privilegerebbe i giovani relativamente meno abbienti rispetto ai lavoratori anziani e ben protetti, e favorirebbe il merito e non le rendite di posizione, cioè le rendite di chi un lavoro ce l’ha già. Non solo, ma farebbe anche aumentare l’occupazione.
Da alcuni anni, da quando cioè l’Europa ha fatto qualche passo avanti verso la liberalizzazione del mercato del lavoro, si è registrato un aumento delle assunzioni. Tra il 1980 e il 1995 nell’Unione europea (dei 15 paesi) sono stati creati 12 milioni di posti di lavoro; nello stesso periodo gli Stati Uniti, un paese di dimensioni analoghe, ne hanno creati quasi 26 milioni. Tuttavia, nel decennio successivo, quando in Europa è stata introdotta qualche timida liberalizzazione, come la legge Biagi in Italia, il numero di nuovi posti di lavoro è salito a 18 milioni, esattamente lo stesso dei nuovi posti creati negli Usa nel medesimo decennio.
Facciamo un esempio concreto che riguarda il nostro paese. L’Alitalia è da tempo sull’orlo del fallimento e due sono le alternative per risolvere una situazione di cui si è parlato fino alla nausea. Una è proteggere la compagnia con regolamentazioni vantaggiose e sussidi pagati dai contribuenti per mantenerla in vita e «difendere l’occupazione», compresa quella dei piloti, una categoria di benestanti, certo non a rischio di povertà. Il fatto che i consumatori abbiano pagato a caro prezzo un servizio scadente – spesso inevitabile, considerato il monopolio pressoché totale di Alitalia su certe rotte (che peraltro esclude i meno abbienti che non possono permettersi tariffe così alte) – non entra nei calcoli.
La seconda alternativa è lasciarla fallire o comunque lasciare che sia il mercato a deciderne la sorte. Chi rimanesse disoccupato riceverebbe sussidi anche generosi per un certo periodo di tempo, magari sussidi in proporzione più generosi per i meno abbienti. Nel frattempo, altre compagnie nuove o già esistenti entrerebbero nel mercato. Molti ex dipendenti Alitalia verrebbero assorbiti da queste nuove compagnie, le quali offrirebbero un servizio migliore e più economico. Non solo la di-soccupazione non aumenterebbe, ma diminuirebbe, dato che i prezzi inferiori attirerebbero nuovi viaggiatori. Qualche giovane in cerca di un primo impiego troverebbe lavoro e questa trasformazione di mercato favorirebbe chi è veramente produttivo, chi lavora con impegno e non chi ha goduto per decenni di un posto protetto, indipendentemente dalla produttività. E i sussidi temporanei alla disoccupazione degli ex dipendenti Alitalia costerebbero ai contribuenti meno rispetto ai contributi che per anni sono serviti a coprire le perdite della compagnia (200 milioni di euro nel 1998, altri 400 nel 2004, 500 nel 2005 e così via).
Naturalmente un adeguato controllo delle Autorità per la concorrenza dovrebbe assicurare che ad Alitalia non si sostituisca un’altra compagnia monopolista. Non a caso, quando il governo ha cercato (fallendo) di privatizzare Alitalia, il sindacato dei piloti, tra i vari acquirenti possibili, ha espresso la propria preferenza per Air One. La compagnia che si verrebbe a costituire avrebbe il monopolio della tratta Milano Linate-Roma Fiumicino, una gallina dalle uova d’oro che, grazie alla sua rendita monopolista, consentirebbe di salvare i privilegi dei piloti. Vedremo se governo e Antitrust faranno l’interesse dei cittadini o quello dei dipendenti Alitalia. E non si dica che la deregolamentazione dei servizi aerei fa aumentare gli incidenti. Il mercato americano, tra i primi a essere stato deregolamentato, ha la minore percentuale di incidenti aerei rispetto agli altri paesi per numero di miglia viaggiate. È relativamente facile garantire criteri di sicurezza attraverso opportuni regolamenti, e per una linea aerea il timore di perdere la credibilità è in assoluto la prima garanzia.
Liberalizzare è di sinistra anche per una terza ragione: una maggiore concorrenza riduce le barriere all’entrata e consente a nuovi imprenditori di entrare nel mercato aumentando la produttività del sistema e riducendo le rendite di posizione che si accumulano nelle tasche dei monopolisti. Ciò abbassa prezzi energetici, tariffe, costi finanziari. Non per nulla molti insiders monopolistici o semi-monopolistici non sono certo grandi liberalizzatori. Anche in Confindustria parlare di concorrenza non è sempre benaccetto. Provate per esempio a spiegare che sarebbe opportuno obbligare l’Eni a cedere la rete di distribuzione del gas.
Molti lettori a questo punto solleveranno un’obiezione: a fronte di tutti questi vantaggi, il mercato tuttavia produce eccessiva disuguaglianza e può rendere difficile per le fasce meno abbienti della popolazione uscire dalla povertà. Prima di tutto va chiarito che vi è una differenza fondamentale tra disuguaglianza e povertà, una differenza spesso trascurata, a volte strategicamente. La povertà si può ridurre e ciononostante la disuguaglianza può salire, cosa che infatti spesso accade. I «poveri» di oggi nei paesi Ocse sono molto più ricchi di quanto non lo fossero un paio di decenni orsono (e ciò vale anche per la stragrande maggioranza dei cittadini di paesi in via di sviluppo nonostante la retorica anticapitalista). Questo non significa che la disuguaglianza sia diminuita, anzi, in certi paesi è aumentata. Ma il vero nemico è la povertà, sebbene la disuguaglianza, quando diventa eccessiva, sia socialmente controproducente e moralmente da molti non accettabile.
La preoccupazione per la disuguaglianza è da prendere molto sul serio e a maggior ragione oggi, quando le cosiddette economie industrializzate si stanno trasformando in economie di servizi. In queste economie la di-suguaglianza spesso aumenta perché spariscono molte professioni tradizionali. Per esempio ci sono, in proporzione, sempre meno operai specializzati e sempre più camerieri di fast food che servono il pranzo a un numero crescente di giovani laureati arricchitisi nella finanza. Questa è una delle cause principali dell’aumento della disuguaglianza in Usa e Gran Bretagna, paesi che sono in testa a questa trasformazione. Ma i cambiamenti della struttura economica cui stiamo assistendo sono in larga parte inevitabili, data anche l’ascesa di economie come India e Cina. Non è possibile opporvisi. Secoli di storia economica ci insegnano che per i paesi più avanzati chiudersi al commercio internazionale è controproducente. L’ultima volta che il mondo scelse questa via fu negli anni trenta del secolo scorso, uno dei periodi di maggiore crisi del capitalismo mondiale, che poi sfociò nella Seconda guerra mondiale.
In conclusione, mercato e concorrenza vanno salvaguardati e protetti. La povertà e l’eccessiva disuguaglianza (soprattutto la prima) vanno mitigate con un sistema di trasferimenti e di protezione sociale efficaci. Questi andrebbero finanziati con una tassazione progressiva sì, ma efficiente, cioè che non disincentivi a lavorare, produrre e investire. Perché se non c’è crescita la povertà non si riduce. Il welfare italiano è ben distante dall’avere queste caratteristiche di efficienza. È troppo sbilanciato a favore delle pensioni e protegge poco e male chi veramente ne ha bisogno. Le pensioni assorbono il 61,3 per cento del totale della spesa pubblica per il welfare. Se alle pensioni aggiungiamo la spesa previdenziale per malattia e salute (cioè interventi di sostegno motivati dalle condizioni di salute del cittadino, non la spesa sanitaria) si raggiunge il 93,3 per cento del welfare. Per tutti gli altri interventi (sostegno ai poveri, alle famiglie, ai disoccupati) rimane solo il 6,7 per cento. Alle famiglie bisognose va il 4,4 per cento del welfare, circa la metà della media europea, 7,8 per cento. Ai sussidi per la disoccupazione il 2 per cento, contro il 6,5 per cento della media europea. In Italia la percentuale di lavoratori che hanno accesso a qualche forma di sussidio quando perdono il lavoro è solo il 28 per cento del totale.
Ma quando si parla di riformare il nostro sistema di welfare i conservatori della sinistra si allineano alla destra sociale e si arroccano in una difesa dello status quo. Sarebbe questa una posizione di sinistra che difende i deboli? A noi pare proprio di no.

2
La meritocrazia è di sinistra

Una storia che viene dal Kenya insegna molto più di tante parole. Tre economisti, Michael Kremer di Harvard, Ted Miguel di Stanford e Rebecca Thornton dell’Università del Michigan, hanno fatto il seguente esperimento. Hanno studiato circa 120 scuole elementari in una regione del Kenya e, tra queste, ne hanno scelte (a caso) come campione la metà. Le restanti servivano da «controllo statistico», ovvero per osservare le differenze tra le scuole «trattate» con l’esperimento e le altre. Grazie ai finanziamenti di un’organizzazione non-profit olandese, al primo gruppo di scuole è stata offerta una somma di denaro da usare per attribuire un premio al 15 per cento delle allieve di quinta elementare che avessero ottenuto i voti migliori nel test di fine anno (test identico per tutte le scuole). Il premio, circa 12 dollari, avrebbe consentito alle loro famiglie (nel caso lo avessero desiderato e come di fatto è avvenuto) di finanziare due anni di scuola aggiuntivi per le bambine stesse. Veniva inoltre dato un riconoscimento pubblico e un piccolo premio in denaro alla scuola con il maggior numero di vincitrici.
I risultati sono stati strabilianti. Nelle 60 scuole sottoposte all’esperimento non solo i voti delle bambine che hanno vinto sono migliorati rispetto alla media degli anni precedenti, ma sono cresciuti con la stessa percentuale quelli di tutte le bambine, comprese le non premiate. Cosa ancor più curiosa, si sono alzati anche i voti dei maschi, esclusi dall’esperimento. Inoltre l’assenteismo degli insegnanti – che nei paesi poveri è un problema endemico – è diminuito grazie alla competizione tra le varie scuole. Ecco un esempio di come la meritocrazia giovi a tutti, non solo ai vincitori ma anche a coloro che, per voler dimostrare di farcela e per un generale istinto di competizione, sono incentivati a impegnarsi di più. Se questo vale per una scuola elementare del Kenya, figuriamoci per un’università di un paese industrializzato!
E a proposito di università, ecco un’altra storia interessante che viene dalla Bocconi di Milano, risultato di un recente lavoro di ricerca svolto da uno di noi (Giavazzi) insieme ad Andrea Ichino dell’Università di Bologna e Pietro Garibaldi dell’Università di Torino. L’Università Bocconi fa pagare tasse universitarie relativamente elevate per gli standard italiani, calcolate in base al reddito familiare. Considerate ora due studenti a caso, uno appena al di sotto e uno appena al di sopra della soglia di reddito cha fa scattare una tassa più elevata. La differenza di reddito familiare è quindi minima. Supponendo che l’unica differenza tra i due studenti siano le tasse universitarie, si può studiare statisticamente il loro effetto sul rendimento scolastico.
Anche in questo caso i risultati sono molto istruttivi. Un aumento delle tasse universitarie di mille euro all’anno produce una riduzione del 6 per cento della probabilità che uno studente vada fuori corso, senza che la media dei suoi voti si abbassi. Il motivo è evidente: un incentivo monetario stimola l’impegno a finire gli studi, senza influire sulla qualità. Semplicemente diventa più costoso «prendersela comoda». Ecco perché spostare il finanziamento delle università dai contribuenti agli utenti (gli studenti e le loro famiglie) ha effetti positivi. E, se questo è accompagnato da borse di studio per i meno abbienti – concepite per incentivare la conclusione degli studi entro i tempi previsti –, non penalizzerebbe i più poveri.
La sinistra italiana (così come la destra in realtà) sembra invece convinta che il «diritto allo studio» sia garantito dalle tasse che i contribuenti pagano allo Stato. È falso. All’università ci va...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione
  3. 1. Destra e sinistra confuse
  4. 2. La meritocrazia è di sinistra
  5. 3. Liberalizzare i mercati è di sinistra
  6. 4. Riformare il mercato del lavoro è di sinistra
  7. 5. Ridurre la spesa pubblica è di sinistra
  8. 6. Il capitalismo di Stato non è di sinistra
  9. 7. Qualcosa comincia a cambiare
  10. Conclusioni