#1
Il libero mercato non esiste
Cosa ti dicono
I mercati devono essere liberi. Quando lo stato interferisce per dettare cosa possono o non possono fare i partecipanti al mercato, le risorse non vengono allocate nel modo più efficiente. Se la gente non può fare ciò che giudica più redditizio, perde ogni incentivo a investire e innovare. Così, se il governo impone un tetto agli affitti, i proprietari non sono più incoraggiati a fare manutenzione agli immobili o a costruirne di nuovi. Oppure, se pone delle restrizioni al tipo di prodotti finanziari che possono essere venduti, due contraenti in grado di trarre vantaggio da operazioni innovative corrispondenti ai loro particolari bisogni non potranno cogliere i potenziali guadagni del libero contratto. Le persone devono essere lasciate «libere di scegliere», come recita il titolo del famoso libro di quel visionario del libero mercato che fu Milton Friedman.
Cosa non ti dicono
Il libero mercato non esiste. Ogni mercato ha regole e confini che limitano la libertà di scelta. Un mercato sembra libero solo perché accettiamo le restrizioni che lo sottendono in maniera tanto incondizionata da non vederle più. Non si può stabilire con oggettività quanto un mercato sia «libero». Si tratta di una definizione politica. La pretesa degli economisti liberisti di voler difendere il mercato dalle interferenze dello stato dettate da motivi politici è errata. Lo stato è sempre coinvolto e gli araldi del libero mercato sono motivati politicamente come tutti gli altri. Superare il mito del «libero mercato» oggettivamente definito è il primo passo per comprendere il capitalismo.
Il lavoro deve essere lasciato libero
Nel 1819, il Parlamento britannico discusse una nuova legislazione sul lavoro minorile, il Cotton Factories Regulation Act. Incredibilmente «leggero» per gli standard moderni, esso proibiva l’impiego dei bambini, o almeno di quelli di età inferiore ai 9 anni, mentre i ragazzi più grandi (da 10 a 16 anni) potevano lavorare, ma con un orario limitato a 12 ore al giorno (sì, erano davvero benevoli verso quei ragazzi!). Queste nuove regole valevano solo per le fabbriche di cotone, considerate eccezionalmente pericolose per la salute degli operai.
La proposta suscitò un’enorme disputa. I contrari vi videro un attacco al sacro principio della libertà di contrattazione, e dunque la distruzione del fondamento stesso del libero mercato. Nel corso del dibattito, alcuni membri della Camera dei Lord si opposero, obiettando che «il lavoro deve essere lasciato libero» poiché i bambini vogliono (e hanno bisogno di) lavorare e gli imprenditori vogliono assumerli. Dov’è il problema?
Oggi, anche ai più accesi sostenitori del libero mercato, in Gran Bretagna come negli altri paesi ricchi, non verrebbe mai in mente di reintrodurre il lavoro minorile in quei pacchetti di liberalizzazioni che tanto propagandano. Nondimeno, fino a fine Ottocento/inizio Novecento, quando in Europa e in Nord America fu introdotta la prima seria regolamentazione del lavoro minorile, molte persone rispettabili la consideravano contraria ai principi del libero mercato.
Vista in questo modo, la «libertà» del mercato è come la bellezza: è negli occhi di chi guarda. Se credete che il diritto dei bambini a non lavorare sia più importante del diritto degli industriali a impiegare manodopera più conveniente, la proibizione del lavoro minorile non vi sembrerà certo una violazione della libertà del mercato del lavoro. Se credete il contrario, vedrete un mercato «non libero», vincolato da una regolamentazione scriteriata.
Non c’è bisogno di tornare indietro di due secoli per trovare norme che oggi diamo per scontate (e accettiamo come «rumore di fondo» del libero mercato) ma che, quando furono introdotte, vennero furiosamente contrastate. Quando le normative ambientaliste (cioè le regole sulle emissioni inquinanti di auto e fabbriche) fecero la loro comparsa qualche decennio fa, molti le contestarono come una seria violazione della libertà di scelta, riflettendo che se la gente vuole guidare auto più inquinanti o se le aziende trovano più redditizi i metodi di produzione inquinanti, perché lo stato dovrebbe impedirlo? Oggi queste regole sono date per scontate dalla maggior parte delle persone, poiché è ovvio che le azioni che provocano danni agli altri, anche se non intenzionalmente (come l’inquinamento), debbano essere regolamentate; è giusto usare le risorse energetiche con accortezza, perché molte di esse non sono rinnovabili; è opportuno ridurre l’impatto umano sul cambiamento climatico.
Se persone diverse possono vedere differenti gradi di libertà in un medesimo mercato, non esiste un modo obiettivo per definire quanto un mercato sia libero. In altre parole, il libero mercato è un’illusione. Se alcuni mercati sembrano liberi, è solo perché ne accettiamo ciecamente le regole.
Le corde dei maestri di kung fu
Da piccolo ero affascinato da quei maestri di kung fu che sfidavano la gravità nei film di Hong Kong. Come molti bambini, immagino, ci rimasi male quando venni a sapere che in realtà erano appesi a delle corde.
Il libero mercato è un po’ così. Accettiamo in modo talmente incondizionato la legittimità di certe regole che non le vediamo più. A un esame più attento però, i mercati si rivelano essere sorretti da regole. Molte regole.
Per cominciare, esiste una lunga serie di norme su che cosa può essere scambiato, e non sono solo divieti su cose «ovvie» come droghe o organi umani: nelle economie moderne, voti elettorali, incarichi governativi e decisioni legali non sono in vendita, o almeno non apertamente, anche se in passato in molti paesi lo sono stati; le cattedre universitarie non possono essere vendute, se non in qualche nazione dove possono essere comprate sia (illegalmente) pagando i selezionatori sia (legalmente) facendo una donazione all’università; molti paesi vietano il commercio di armi da fuoco o bevande alcoliche; per motivi di sicurezza, i medicinali devono essere esplicitamente autorizzati dal governo prima di poter essere commercializzati. Tutte regole discutibili, proprio come lo era il divieto di vendere esseri umani (la tratta degli schiavi) un secolo e mezzo fa.
Ci sono limitazioni anche su chi può accedere ai mercati. Oggi, le norme sul lavoro minorile vietano ai bambini il mercato del lavoro. Chi esercita professioni con un’influenza significativa sulla vita umana, come i medici e gli avvocati, deve avere un’abilitazione (che può essere rilasciata da ordini professionali invece che dal governo). In molti paesi solo alle imprese che dispongono di un certo capitale è permesso fondare banche. Perfino il mercato azionario, la cui insufficiente regolamentazione è stata fra le cause della recessione globale del 2008, ha norme per l’accesso agli scambi. Non si può entrare nella Borsa di New York con una valigetta piena di azioni e venderle. Le aziende devono rispondere a certi requisiti e soddisfare rigidi controlli contabili per diversi anni prima di poter offrire le proprie azioni. La negoziazione dei titoli viene condotta solo da agenti di cambio e mediatori autorizzati.
Anche le modalità del commercio sono soggette a regolamentazione. Una delle cose che mi sorpresero quando mi trasferii in Gran Bretagna a metà degli anni ottanta fu che si poteva chiedere il rimborso integrale di un prodotto che non soddisfaceva anche se non aveva alcun difetto, cosa allora impossibile in Corea, se non nei negozi più esclusivi. In Gran Bretagna, il diritto del consumatore a cambiare idea era considerato più importante del diritto del venditore di evitare il costo della restituzione dell’articolo indesiderato (ma funzionante) al produttore. Molte altre regole disciplinano diversi aspetti del rapporto di scambio: affidabilità del prodotto, mancata consegna, insolvenza e così via. In molti paesi sono anche necessari permessi per l’ubicazione dei punti vendita, per esempio ci sono vincoli per le bancarelle o limitazioni ad avviare attività commerciali in zone residenziali.
E poi ci sono le regolamentazioni sui prezzi. Non parlo solo di fenomeni molto visibili come i controlli sugli affitti o sui salari minimi che gli economisti liberisti si divertono a odiare.
Nei paesi ricchi i salari sono determinati più dai controlli sull’immigrazione che da qualsiasi altro criterio, inclusa la legislazione sui salari minimi. Come viene stabilito il tetto massimo di immigrati? Non dal «libero» mercato del lavoro, che, se lasciato a se stesso, finirebbe per rimpiazzare l’80-90 per cento dei lavoratori locali con manodopera straniera più conveniente e spesso più produttiva. La soglia d’immigrazione è in gran parte stabilita dalla politica. Se avete ancora qualche dubbio sul ruolo massiccio dello stato nel libero mercato dell’economia, provate a pensare che tutti i nostri salari sono, in fondo, determinati dalla politica (vedi #3).
In seguito alla crisi finanziaria del 2008, il costo del denaro (sia per i nuovi prestiti, ammesso che si riesca a ottenerne uno, sia per quelli in essere a tasso variabile) è diventato decisamente più basso in molti paesi grazie al continuo taglio dei tassi d’interesse. Come mai? Forse la gente non voleva più prestiti e le banche hanno dovuto abbassare i prezzi? Certo che no, i tagli sono il risultato della decisione politica di stimolare la domanda. Anche in tempi normali, nella gran parte dei paesi i tassi d’interesse sono fissati dalla Banca centrale, il che significa che possono essere influenzati da considerazioni politiche. Perciò, anche i tassi d’interesse sono determinati dalla politica.
Se salari e tassi d’interesse sono (in larga parte) determinati dalla politica, allora lo sono anche tutti gli altri prezzi, visto che dipendono direttamente da essi.
Il libero commercio è anche equo?
Ci accorgiamo di una regolamentazione solo quando non ne condividiamo valori e implicazioni morali. Gli alti dazi doganali sugli scambi commerciali imposti dal governo degli Stati Uniti nel XIX secolo fecero infuriare i proprietari di schiavi, che non vedevano nulla di male nella libera compravendita di persone sul mercato. Per chi pensava che le persone fossero una proprietà, vietare il commercio degli schiavi era criticabile quanto limitare lo scambio delle merci. Probabilmente i negozianti coreani degli anni ottanta hanno pensato che l’obbligo al «rimborso incondizionato» fosse una regola statale ingiustamente gravosa che limitava la libertà del mercato.
Questo scontro di valori è anche alla base del dibattito contemporaneo tra libero commercio e commercio equo. Molti americani pensano che, sì, il commercio internazionale della Cina è libero, ma non è equo. A loro giudizio, la Cina, pagando ai propri operai salari inaccettabilmente bassi e facendoli lavorare in condizioni disumane, fa concorrenza sleale. La Cina a sua volta ribatte che è inammissibile che i paesi ricchi, pur sostenendo il libero mercato, tentino d’imporre barriere artificiali alle sue esportazioni nel tentativo di limitare l’ingresso di prodotti fabbricati in condizioni disumane, trovando ingiusto il divieto di sfruttare la sola risorsa che ha in grande abbondanza: la manodopera a basso costo.
Il problema sta nel fatto che non esiste un metodo obiettivo per definire «salari inaccettabilmente bassi» o «condizioni di lavoro disumane». Viste le enormi differenze internazionali nei livelli di sviluppo economico e di tenore di vita, è ovvio che un salario da fame negli Stati Uniti sia un buon salario in Cina (dove lo stipendio medio corrisponde al 10 per cento di quello americano) e una fortuna in India (dove è il 2 per cento). In effetti, gran parte dei fautori americani del commercio equo non avrebbe acquistato i prodotti realizzati dai loro nonni, che lavoravano moltissime ore al giorno in condizioni disumane. Fino all’inizio del XX secolo la settimana lavorativa media era di sessanta ore. A quel tempo (nel 1905 per essere esatti), gli Stati Uniti erano un paese in cui la Corte Suprema dichiarava incostituzionale la legge dello stato di New York che limitava la giornata di lavoro dei fornai a dieci ore, poiché «toglieva ai fornai la libertà di lavorare quanto volevano».
Sotto questa luce, il dibattito sul commercio equo in sostanza riguarda valori morali e decisioni politiche, e non considerazioni economiche nel senso stretto del termine. Anche se concerne una questione economica, il commercio equo non è qualcosa che gli economisti sono particolarmente adatti a padroneggiare con i loro strumenti tecnici.
Tutto questo non significa che dobbiamo assumere una posizione relativista e astenerci dal fare critiche perché va tutto bene. Possiamo avere un’opinione (e io ce l’ho) sull’accettabilità delle condizioni di lavoro in Cina (o in qualsiasi altro paese) e cercare di fare qualcosa, senza pretendere che chi ha un’idea diversa sia per forza in errore. Anche se la Cina non può permettersi salari americani o condizioni di lavoro svedesi, può certamente migliorare i salari e le condizioni di lavoro dei suoi operai, e sono molti i cinesi che non accettano la situazione attuale e chiedono regole più severe. Ma la teoria economica (almeno quella liberista) non può dirci quali dovrebbero essere i «giusti» salari e le «giuste» condizioni di lavoro in Cina.
Non siamo mica in Francia
Nel luglio 2008, quando il sistema finanziario stava crollando, il governo degli Stati Uniti riversò 200 miliardi di dollari in Fannie Mae e Freddie Mac, gli istituti di credito ipotecario, e li nazionalizzò. Il senatore repubblicano Jim Bunning, del Kentucky, denunciò il provvedimento come qualcosa che poteva accadere solo in un paese «socialista» come la Francia.
La Francia era già abbastanza malvista, ma il 19 settembre 2008 l’amato paese del senatore Bunning fu trasformato nel regno del male dal leader del suo partito. Seguendo il piano annunziato quel giorno dal presidente George W. Bush e successivamente denominato TARP, il governo stanziò circa 700 miliardi di dollari di fondi statali per comprare i «titoli tossici» che soffocavano i mercati finanziari.
Il presidente Bush, però, non vedeva le cose nello stesso modo di Bunning: lungi dall’essere «socialista», il piano era semplicemente un’applicazione del sistema americano della libera impresa «basato sulla convinzione che il governo federale debba intervenire sul mercato esclusivamente quando necessario». E, a suo avviso, nazionalizzare una grossa fetta del settore finanziario era proprio necessario.
La dichiarazione di Bush è un caso limite di doppiezza politica, in cui uno dei più grandi interventi dello stato nella storia viene camuffato da operazione di mercato di ordinaria amministrazione. A ogni modo, con le sue parole Bush rivelò la debolezza delle fondamenta su cui poggia il mito del libero mercato. Come la sua dichiarazione dimostra in modo lampante, che cosa sia un intervento necessario dello stato compatibile con il capitalismo liberista è questione di opinione. Il libero mercato non ha confini scientificamente definiti.
Se non c’è niente d’intoccabile nei confini del mercato in qualsiasi epoca, il tentativo di cambiarli è legittimo quanto il tentativo di difenderli. In effetti, la storia del capitalismo è l’eterno scontro sui limiti da porre al mercato.
Molte delle cose che oggi non sono oggetto di scambio sono state rimosse da decisioni politiche piuttosto che dal mercato stesso: esseri umani, posti di lav...