parte prima
Piumaggio nella luce
Quando i tacchini erano draghi
A detta di molti, il Nuovo Mondo pullulava di mostri: giganti, ciclopi, bestie dal muso di volpe, le orecchie di gufo e le chiappe di scimmia. Ma io non ne vidi mai. Solo una volta, esplorando la giungla di Darien, vidi un serpente guizzare con grazia sinistra in un intrico di mangrovie, e mi parve di scorgere una testa – una seconda testa – lì dove secondo natura ci sarebbe dovuta essere una coda.
Ma quando mi avvicinai per guardare non c’era più niente, e tutt’intorno si agitava una moltitudine di creature, scolpite dall’ombra e dalla luce.
Lascia che le chimere si annidino nei loro anfratti, dissi tra me e me.
C’erano i fenicotteri, simili agli aironi che avevo osservato in Inghilterra, ma più grandi e slanciati, e d’un tenue color vinaccia. Come se non gli importasse di volare, bivaccavano tra gli acquitrini. Si aggiravano col becco chino tra piccoli tumuli di fango, nei quali custodivano la covata. Erano bestie timide, e mi rammarico di essermi nascosto tra le foglie e poi d’aver fatto fuoco, anche se il vederli spiccare il volo con pochi colpi d’ala valeva bene un colpo di moschetto.
E c’erano creature meno gentili: branchi di scimmie dai lunghi arti gibbosi, la coda inquieta, il busto esile e il pelo ispido, che al sentirci vicini si fermarono nel folto, poi, scuotendo i rami, scatenarono una pioggia di foglie e presero a pisciarci sulla testa. Benché più agili e irrequiete di noi, ci assomigliavano; proprio per questo, forse, le fuggivamo, e ridevamo di loro.
E più in basso ancora c’era l’armadillo, dal corpo tozzo e il muso appuntito, che durante il cammino si tendeva a sondare il suolo. Avvertendo la nostra avanzata, si rinserrava nella corazza, flessibile in virtù di una struttura a soffietto. Di lui mi colpì la somiglianza con il ratto. Era un ratto dall’aria marziale, chiuso in un’armatura aguzza che la natura aveva, chissà quando, forgiato per lui.
Di quella e altre bestie bizzarre feci descrizioni e disegni in un diario che tenevo in una sezione di bambù sigillata con della cera. La giungla e l’oceano non l’avrebbero mangiato: avrebbero, semmai, offerto altre forme da imprimere sulle sue pagine.
Era il gennaio del 1681, e vagavo sulle coste orientali di Darien, alla latitudine di Panama, in cerca di legno rosso da rivendere in Giamaica. Ma il guadagno non mi interessava poi tanto, perché reagivo alle cose che mi circondavano con fremiti sempre più vivi, dei sensi e dell’intelletto. Un frullo d’ali nel cupo del fogliame, l’oscillazione d’un petalo, il fruscio d’una zampa sull’erba mi solleticavano gli occhi, i muscoli e l’immaginazione. E in quell’entusiasmo muto, in quella mia prontezza a scattare con gli occhi e le gambe, ad accogliere nella mente le mille forme del mondo, potei scoprire chi ero.
Avvenne in modo naturale. Guardando l’uccello di quaum che irraggiava i suoi colori tra i rami, indugiai sulla soglia di un mistero. Ma il desiderio di toccare prevalse. E nell’attraversare l’ombra, nel distinguere i colori, misi a nudo il piumaggio del quaum, lo spogliai dell’aura che lo consacrava. Concepii più nettamente la sua esistenza, e con sorpresa scorsi la sua rassomiglianza con i galli del Somerset: le stesse proporzioni, la stessa apertura alare, gli stessi occhietti vitrei.
E marciando nella giungla mi venne voglia di dire a tutti che il quaum, con il suo corno rosso sangue, splendeva come un astro, ma che a guardarlo da vicino sembrava un uccello da cortile. Pensai che nel dirlo avrei potuto radunare tutti attorno a me: i contadini di East Coker, i mercanti londinesi, i filosofi naturali; persino il Re. Pensai che nel descrivere ciò che avevo visto avrei potuto farmi un nome. Fu così, quasi senza avvedermene, che diventai un naturalista.
Ora però devo rallentare il passo. Nel metter mano a questo resoconto mi sono prefisso di andare per ordine, di seguire gli stessi principi che diedero forma al mio primo libro, Il nuovo viaggio intorno al mondo. Mi accorgo tuttavia che gli anni hanno rafforzato alcuni ricordi e ne hanno affievoliti altri. Ho tralasciato dati essenziali, a cominciare dal mio nome: un errore piuttosto strano per chi, come me, disprezza fandonie e inesattezze. È dunque ora che mi presenti e che cerchi di conquistarmi la fiducia di voi che avete deciso di leggere la mia storia, tanto più perché la mia reputazione è stata infangata, e se anche i miei diffamatori sono tutti morti, la loro voce, aggrappatasi alla carta, continua a seminare bugie, ad accusarmi di angherie e negligenza. Ma non fraintendetemi: non è l’orgoglio a muovermi, ed è tardi per il rancore. Il mio fine è un altro. Voglio raccontare la mia avventura, dire di cose che susciteranno l’incredulità di tutti, a cominciare dai filosofi, che troveranno le ragioni per credere proprio in quel che racconterò.
Le troveranno nell’anatomia delle creature che descriverò, nei colori delle loro piume, nel rigoglio in cui spiccano o si nascondono, nell’aria e nell’acqua che attraversano, e nel paese remoto in cui, inseguendole, sono arrivato: questo paesaggio di torri e mastodonti, dove le ali oscurano la terra.
Quanto seguirà, sebbene sia incredibile, non è che la verità. Perché esporsi agli scettici, offrire il fianco ai dubbi, se non è il vero che si vuole raccontare?
Mi chiamo Richard Kenton e sono nato nel 1660 a East Coker, nel Somerset. Mio padre si chiamava Will Kenton, ed era un fittavolo. Non eravamo ricchi, ma avevamo di che vivere. Abitavamo in una casa di pietra sulle terre dello Squire Robert Helyar, ai margini del paese, e a sentire mio padre, che amava gli aneddoti sorprendenti, discendevamo dal ramo cadetto di una famiglia aristocratica: una lontana parentela ci legava nientemeno che allo Earl of Somerset. Ma fin da bambino riponevo poco interesse in quell’improbabile lignaggio, nonostante fosse occasione di storie sgangherate ed erratiche, fitte di duelli tra cavalieri, e i cui fondali si assomigliavano tutti.
Mi interessava piuttosto la macchia di querce che circondava East Coker, un labirinto di sentieri muschiosi che a volte annegavano tra le felci. Lì avrei voluto vagare e fermarmi. Avrei voluto appiattirmi per osservare le talpe, arrampicarmi sugli alberi per guardare il volteggiare dei gheppi, acquattarmi vicino al rosseggiare ispido delle volpi. Dalla loro capacità d’essere ciò che erano, di scavare, volare o fiutare da lontano, ricavavo una meraviglia muta.
Mio padre era un uomo gentile, e incline a vagare con i pensieri, così mi permise di coltivarla. Accompagnava nel bosco me e Jim, il mio fratello minore, e ci lasciava scorrazzare tra i sentieri. Tuttavia, soprassalti di paura lo coglievano all’improvviso, spingendolo a vigilare, a temere l’ombra dei cespugli, così ci richiamava a sé a gran voce per ricondurci a casa. Lo seguivamo attraverso i grandi prati che l’estate era riuscita a rinverdire e lungo stagni irti di giunchiglia. Da lontano, ci indicava il bosco e ci diceva che sarebbe davvero diventato nostro solo dopo che ci avesse insegnato a riconoscere i punti cardinali e a uccidere un cervo.
Non ne ebbe il tempo, perché una mattina, poco lontano dai campi, ebbe un capogiro e cadde. Mentre io e Jim, confusi, gli chiedevamo come stesse, spalancò gli occhi in allarme, come se avesse visto balenare nel sole il profilo di un’armata di demoni e la visione lo avesse atterrito. Poi, però, rivolse le pupille di lato e strinse le palpebre, come a inseguire un altro pensiero: una cosa di poco conto della quale sembrava essersi ricordato solo adesso, con i palmi delle mani arenati sul terriccio. Non sembrava morto, sembrava distratto.
Allora frequentavo la scuola presbiteriana di East Coker, dove mi ero fatto notare per la mia memoria e per la precisione con cui parlavo e ragionavo. Il mio maestro, appassionato di filosofia naturale, mi aveva mostrato un trattato di botanica, un grande libro pieno di steli, foglie ed efflorescenze, e mi aveva permesso di leggerlo. Così le piante avevano gettato i loro semi, suscitando in me la voglia di ridisegnarle. Di molte avevo imparato i nomi e le venature: mi piaceva far sfoggio di ciò che sapevo, mostrarlo al mondo. Ma dopo aver visto mio padre cadere, strabuzzare gli occhi e andarsene con la mente chissà dove, la tristezza mi appesantì la lingua.
Tardavo a parlare e rispondere, e preferivo starmene per conto mio. Specialmente nei mesi caldi, passavo il pomeriggio nel bosco a guardare gli uccelli, sospeso tra l’istinto di immaginare il loro volo e quello di fermarlo con un colpo di fucile per poterli osservare più da vicino. Così anche durante l’inverno, quando il mondo si addormentava. Sedevo per ore ai piedi delle querce. Scrutavo la volta del bosco esaltata dalla luce, mi interrogavo sull’intreccio e la direzione dei rami, e aspettavo che il passaggio d’un falco mi chiamasse verso le nuvole.
Sarei rimasto ancora a lungo nel silenzio se qualcuno, adescandomi con il suo sorriso, non fosse venuto a riportarmi indietro. Un anno dopo, un uomo alto e magro con un lungo naso aquilino, il passo dinoccolato e una sacca da marinaio gettata dietro le spalle – un uomo che a ben guardare mi assomigliava – comparve sulla soglia di casa nostra.
Chiese di parlare con mia madre, che in quel momento era via, mi diede una timida pacca sulla spalla e sedette vicino all’uscio. Quindi, con la mano destra, a cui mancava il dito mignolo, si portò alla bocca una fiaschetta. Dopo qualche sorso ruttò a labbra strette e socchiuse gli occhi. Li riaprì solo quando mia madre fece ritorno.
Era lo zio Elijah, il fratello maggiore di mio padre, che per otto anni era stato in mare ed era tornato, così diceva, per prendersi cura di noi. Una volta in casa sedette, poggiò la fronte sul palmo della mano e si nascose gli occhi. Quando li scoprì sembravano lucidi, come se un decoro virile lo avesse spinto a reprimere le lacrime. Disse di essere addolorato per non aver potuto seguire il feretro; «Povero Will» mormorò. Quindi mi fissò. Sembrava aver scorto in me un dettaglio rivelatore. Vide forse che come lui ero alto, magro e avevo il viso affilato e il naso che iniziava a inarcarsi, e allora mi rivolse un sorriso di complicità, e assecondando quello slancio sorrise anche a mio fratello Jim, che aveva lo sguardo triste e i capelli arruffati; e per completare l’opera gli diede un ganascino sulla guancia. Poi, con fare rispettoso, si rivolse a mia madre e le chiese di poter restare: avrebbe lavorato sodo, onorato la memoria di suo fratello e condiviso con noi poveri ragazzi il suo modesto bagaglio d’esperienze.
Presto fu chiaro: lo zio Elijah era venuto in cerca di rifugio. East Coker, situato nell’entroterra, doveva essere il luogo ideale per sfuggire a una vendetta o una condanna, per nascondere la sua mano dal dito mozzo. Lo zio aveva, o fingeva di avere, un oscuro passato di avventure, del quale lasciava trapelare indizi attraverso i racconti dei suoi viaggi. Aveva calpestato le coste occidentali del Nuovo Mondo, affrontato le acque gelide del passaggio di Drake, non lontano dal Polo Sud – lì dove secondo molti vivevano i giganti – e nel Pacifico aveva fatto sosta su una delle isole dell’arcipelago di Juan Fernandez, sulla quale diceva d’aver trovato tracce d’un piccolo accampamento, come se un naufrago vivesse laggiù da tempo, in solitudine.
Alle sue spalle vedevo mangrovie coperte di lumache verdi e avvolte dalle foschie del mattino, pappagalli color dell’iride che fanno eco alle bestemmie dei marinai, e lucenti mucchi di pezzi da otto. E con la coda dell’occhio lo zio coglieva le mie ...