La Bara Rossa
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La Bara Rossa

Informazioni su questo libro

1939: il mondo è sull'orlo del baratro e l'Unione Sovietica è impreparata ad affrontare la futura offensiva del Terzo Reich. L'asso nella manica di Stalin è il nuovo carro armato T-34, soprannominato dai collaudatori "la bara rossa". Ma il progetto di quest'arma rivoluzionaria è ancora incompleto. Quando il suo creatore, il colonnello Nagorski, muore in un misterioso incidente, Stalin si rivolge all'investigatore più fidato, Pekkala, detto L'occhio di smeraldo. Mentre i tecnici russi lottano contro il tempo per completare il T-34, L'occhio di smeraldo deve scoprire i piani degli assassini di Nagorski, prima che si scateni il conflitto con la Germania.

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Informazioni

La motocicletta arrivò in cima alla collina e i raggi del sole scintillarono sugli occhialoni del pilota. Per difendersi dal freddo di quell’inizio di primavera indossava un cappotto di pelle a doppiopetto e una cuffia da motociclista agganciata sotto il mento.
Era sulla strada da tre giorni e si era fermato solo per fare il pieno. Le sue borse erano piene di cibo in scatola che si era portato da casa.
Di notte non si fermava nelle città, ma spingeva la moto in mezzo agli alberi. Era un modello nuovo, una Zündapp K500, con telaio in acciaio stampato e forcella a parallelogramma. Di norma non avrebbe mai potuto permettersela, ma quel viaggio da solo avrebbe ripagato tutto quanto, e anche di più. Ci pensava quando sedeva solitario tra gli alberi, mangiando zuppa fredda in scatola.
Prima di nascondere la moto sotto rami e frasche, toglieva la polvere dalla sella in cuoio molleggiata e dal grosso serbatoio a goccia. Sputava su tutti i graffi che trovava e li ripuliva con la manica.
L’uomo dormiva per terra, avvolto in una tela cerata, senza il conforto di un fuoco e neppure di una sigaretta. L’odore di fumo avrebbe potuto rivelare la sua posizione, ed era un rischio che non poteva permettersi.
A volte veniva svegliato dal rombo dei camion dell’esercito polacco che passavano sulla strada. Nessuno si era mai fermato.
Una volta sentì un rumore tra gli alberi. Estrasse la rivoltella dal cappotto e si sedette, mentre un cervo passava a pochi passi da lui, quasi invisibile, come se le ombre stesse avessero preso vita. Per il resto della notte l’uomo non dormì. Tormentato da incubi infantili di sagome umane con antenne sulla testa, voleva solo andarsene da quel paese. Da quando aveva attraversato il confine tedesco entrando in Polonia, aveva sempre paura, anche se a guardarlo nessuno avrebbe potuto intuirlo. Non era la prima volta che faceva quel viaggio, e sapeva per esperienza che la paura non l’avrebbe abbandonato fino a quando non fosse tornato tra la sua gente.
Il terzo giorno entrò in Unione Sovietica, attraversando un solitario posto di frontiera presidiato da un soldato polacco e un soldato russo, nessuno dei quali parlava la lingua dell’altro. Entrambi uscirono ad ammirare la sua motocicletta. «Zündapp» canterellarono sottovoce, come stessero pronunciando il nome della fidanzata, e l’uomo strinse i denti mentre quelli accarezzavano le cromature.
Pochi minuti dopo aver passato la frontiera, accostò al margine della strada e sollevò gli occhialoni sulla fronte, rivelando due pallide lune di pelle sul viso dove la polvere della strada non si era posata. Riparandosi gli occhi con una mano, scrutò la campagna ondulata. I campi erano arati e fangosi, e i semi di segale e orzo dormivano ancora sotto la terra. Sottili pennacchi di fumo si alzavano dai camini di isolate fattorie, i cui tetti d’ardesia erano punteggiati del verde brillante del muschio.
L’uomo si chiese cosa avrebbero fatto gli abitanti di quelle case se avessero saputo che il loro sistema di vita sarebbe presto finito. Probabilmente, si disse, avrebbero tirato avanti come avevano sempre fatto, sperando in qualche miracolo. Il che, pensò, era esattamente il motivo per cui meritavano di estinguersi. Il compito che era venuto a svolgere avrebbe avvicinato quel momento. Dopo quel giorno, non ci sarebbe stato più niente che potessero fare per evitarlo. Poi ripulì il manubrio dalle ditate dei doganieri e ripartì.
Era vicino al luogo dell’incontro. Sfrecciava lungo strade deserte, attraverso banchi di foschia che impregnavano gli avvallamenti come macchie d’inchiostro nell’acqua. Sulle sue labbra affioravano frammenti di parole di vecchie canzoni. A parte quello non parlava, come fosse l’unico essere sulla faccia della Terra. Era così che si sentiva, guidando in quella campagna desolata.
Infine arrivò nel posto che stava cercando. Era una fattoria abbandonata, dal tetto infossato come la schiena di un vecchio cavallo. Abbandonata la strada, condusse la Zündapp attraverso un’apertura nel muro di pietra che delimitava l’aia. Grossi alberi circondavano la fattoria, gli spessi tronchi coperti d’edera. Uno stormo di corvi si alzò sparpagliandosi dai rami, le loro sagome spettrali riflesse nelle pozzanghere.
Quando spense il motore il silenzio lo avvolse. Togliendosi le manopole, si grattò via il fango secco che gli aveva cosparso il mento. Si staccò a scaglie, lasciando spazio alla sottostante barba di una settimana.
Le persiane pendevano marce dalle finestre. La porta era stata buttata giù a calci e giaceva per terra. I denti di leone crescevano nelle fessure delle assi del pavimento.
Mise la Zündapp sul cavalletto, estrasse la pistola ed entrò guardingo. Tenendo il revolver lungo il fianco, avanzò lentamente sulle assi cigolanti. Una luce grigia filtrava dalle fessure delle persiane. Sul caminetto, un paio di alari a testa di drago lo squadrarono arcigni mentre passava.
«Eccoti qui» disse una voce.
Il pilota della Zündapp trasalì, ma non alzò la pistola. Restò immobile, scrutando nella penombra. Poi vide un uomo, seduto a un tavolo nella stanza accanto, quella che una volta era stata una cucina. Lo straniero sorrise, alzò una mano e la mosse lentamente avanti e indietro. «Bella moto» disse.
Il motociclista mise via la pistola ed entrò in cucina.
«In perfetto orario» disse l’uomo. Sul tavolo davanti a lui era posata una pistola automatica Tokarev e due piccole tazzine di metallo, ciascuna non più grande di un guscio d’uovo. Di fianco alle tazzine c’era una bottiglia chiusa di vodka georgiana Ustashi, il cui colore bluverdastro era dovuto all’erba della steppa che si usava per aromatizzarla. L’uomo aveva sistemato una seconda sedia sul lato opposto del tavolo, per far sedere il motociclista. «Com’è andato il viaggio?» chiese l’uomo.
«Ce li hai?» disse il motociclista.
«Certo.» L’uomo infilò una mano nel cappotto e tirò fuori un fascio di documenti arrotolati come un giornale. Li lasciò cadere pesantemente sul tavolo, sollevando una nuvoletta di polvere dal lurido piano di legno.
«È tutto?» chiese il motociclista.
L’uomo diede un colpetto rassicurante sul fascio di documenti. «Lo schema operativo completo dell’intero Progetto Konstantin.»
Il pilota della Zündapp mise un piede sulla sedia e arrotolò la gamba dei pantaloni. Attaccata con un nastro al polpaccio c’era una busta di pelle. L’uomo staccò il nastro, imprecando sottovoce mentre gli strappava i peli della gamba. Poi tolse dalla busta una pila di banconote e la posò sul tavolo. «Contale» disse.
Compiacente, l’uomo contò il denaro, passando la punta delle dita tra le banconote.
Da qualche parte sopra di loro, in mezzo alle travi della casa, alcuni stornelli cinguettarono e sbatterono i becchi.
Quando l’uomo ebbe finito di contare, riempì le tazzine di vodka e ne alzò una. «A nome della Lega bianca, desidero ringraziarti. Un brindisi alla Lega, e al crollo del comunismo!»
L’altro non prese la sua tazzina. «Qui abbiamo finito?» chiese.
«Sì!» L’uomo tracannò la sua vodka, poi prese la seconda tazzina, la sollevò in un gesto di saluto e scolò anche quella. «Credo che abbiamo finito.»
Il motociclista allungò una mano sul tavolo e prese i documenti. Dopo avere infilato l’involto nella tasca interna del cappotto, si fermò per dare un’occhiata alla stanza. Esaminò la volta di ragnatele, la carta da parati sgualcita e le crepe che riempivano il soffitto come linee di sutura su un cranio. Presto sarai a casa, penso tra sé. Poi potrai dimenticare che tutto questo sia successo.
«Ti va una fumatina?» chiese l’uomo. Posò sul tavolo una scatola di sigarette e ci mise sopra un accendino di ottone.
Il motociclista lo fissò, come se avesse già visto quell’uomo da qualche parte ma non ricordasse dove. «È meglio che vada» disse.
«Magari la prossima volta.» L’uomo sorrise.
Il pilota si voltò e fece per tornare alla sua motocicletta.
Aveva fatto soltanto tre passi quando l’uomo afferrò la sua Tokarev, prese la mira con il braccio allungato e senza alzarsi dal tavolo colpì il motociclista dietro la testa. Il proiettile gli attraversò il cranio e una parte della fronte schizzò sul pavimento. Crollò a terra come una marionetta cui avessero tagliato i fili.
A quel punto l’uomo si alzò. Uscì da dietro il tavolo e rovesciò il cadavere con lo stivale. Il braccio del motociclista si spostò e le sue nocche sbatterono sul pavimento. L’uomo si chinò e gli tolse i documenti dalla tasca.
«Berrai adesso, fascista figlio di puttana» disse. Poi prese la bottiglia di vodka e la svuotò sul motociclista, bagnando testa e spalle e versandone un rivolo sull’intera lunghezza delle gambe. Quando la bottiglia fu vuota la scaraventò dall’altra parte della stanza. Il vetro spesso andò a sbattere contro una parete marcia ma non si ruppe.
L’uomo mise in tasca i soldi e i documenti. Poi raccolse la pistola, le tazzine e la scatola di sigarette. Mentre usciva di casa, girò la rotellina metallica dell’accendino e quando il fuoco divampò dallo stoppino lo lasciò cadere sul motociclista morto. L’alcol s’incendiò con il rumore di una tenda gonfiata dal vento.
L’uomo uscì sull’aia e si fermò davanti alla motocicletta, facendo scorrere le dita sullo stemma Zündapp che decorava il serbatoio. Quindi si mise a cavalcioni della moto e tolse caschetto e occhialoni dal manubrio cui erano appesi. Infilò il caschetto e sistemò gli occhialoni sul viso. Le imbottiture in pelle portavano ancora il calore del corpo del motociclista...

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  2. La Bara Rossa