Riferimenti montani
I versi di Fondane assillavano Celan, avevano per lui un significato particolare; questo perché aveva deciso di partire per Vienna, e le parole di quest’altro grande poeta che aveva scelto volontariamente l’esilio erano valide anche per lui: «E una sera verrà che partirò / di qui, incerto del cammino e se / mi sia dato marcire o germogliare».1
Il 2 maggio 1947 uscì su Contemporanul la poesia che divenne, nel frattempo, da antologia, Todesfuge (Fuga di morte), tradotta da me con il titolo Tangoul morții (Il tango della morte). Perché la poesia potesse essere data alle stampe, il critico Ovid S. Crohmălniceanu la dovette «spiegare» in una breve introduzione anonima: «La poesia, di cui pubblichiamo la traduzione, è costruita sull’evocazione di un fatto reale. A Lublino, come pure in molti altri “lager nazisti della morte” una parte dei condannati era costretta a suonare musica d’amore, mentre gli altri scavavano le fosse». E un altro particolare significativo per le circostanze in cui apparve la poesia di Celan: un numero di Contemporanul si vendeva al prezzo (esorbitante) di 10000 lei!
Petre Solomon, «Paul Celans Bukarester Aufenthalt», in Zeitschrift für Kulturaustausch, Institut für Auslandsbeziehungen, Stuttgart, n. 3, 1982, «Texte zum frühen Celan. Bukarester Celan-Kolloquium 1981».
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I pochi poemi in romeno di Celan, accanto a pochi altri in tedesco del volume Mohn und Gedächtnis [Papavero e memoria], mostrano abbastanza chiaramente l’influenza di alcuni amici surrealisti come Gherasim Luca, a cui era molto legato a Bucarest, nel periodo tra l’inizio del 1945 e la fine del 1947. Inoltre, possiamo supporre che Celan si sia avvicinato alla poesia di due notevoli scrittori ebrei-romeni, un po’ più anziani di lui: il poeta Benjamin Fundoianu (Benjamin Wechsler), meglio noto come Benjamin Fondane, poeta e filosofo in lingua francese, e il poeta Ilarie Voronca (Eduard Marcus), passato anche lui al francese. Benché fossero stati ignorati nella Romania dominata dal regime antisemita alleato della Germania nazista, questi due poeti si leggevano di nuovo, dal 1945 in poi, nei cenacoli letterari bucarestini, che Celan frequentava spesso.
Edouard Roditi, «Paul Celan and the Cult of Personality», in World Literature Today, vol. LXVI, n. 1, 1992.
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Il motivo per cui Todesfuge – Fuga di morte, a differenza della lirica più tarda, è così affascinante, così «leggibile», è proprio la sua poetica tradizionale: il rapporto tra la parola e il mondo, tra significante e significato, non genera dubbio. Diversamente dalle poesie che Celan ha scritto in seguito, le sole cose che non vengono messe in dubbio in Fuga di morte sono chi parla e da dove parla. Il poema è scritto/detto da un «sopravvissuto» che entra nella pelle di un «wir», che parla al posto di un «wir» – il «noi» degli ebrei uccisi: «Nero latte dell’alba lo beviamo la sera / lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte / beviamo e beviamo / scaviamo una tomba nell’aria…».2
Come possono parlare i morti o come può un «sopravvissuto» parlare per loro, come può qualcuno assistere alla loro morte, ecco delle cose sulle quali la poesia di Celan mette radicalmente il segno del dubbio […].
Fin dall’inizio, la sua scrittura si è diretta verso una condizione postestetica, postumana; già dalle prime opere, per esempio in Todesfuge, Celan imbocca questa strada usando in modo acidamente sarcastico la forma estetica tradizionale. Solo nell’opera più tarda raggiungerà pienamente questa condizione.
Pierre Joris, «Introduction to Paul Celan», in Paul Celan. Selections, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 2007.
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Celan era deciso a redimere la lingua dei carnefici del suo popolo, una lingua che, come affermava, dovette «passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte».3 Le sue poesie, di un ermetismo amaro, spinto all’estremo, sono inoltre rappresentazioni di un secolo sanguinoso, ma anche esplorazioni dei più profondi recessi della coscienza. Celan era conosciuto come un uomo chiuso e silenzioso. Il poeta polacco Zbigniew Herbert ricorda che per un’intera notte, fino al sorgere dell’alba, passeggiarono per le strade di Parigi, senza dire una parola.
Michael André Bernstein, professore di letteratura comparata a Berkeley, sostiene che l’oscurità della Shoah «è penetrata nello stesso linguaggio del poeta, indirizzandolo verso una nuova forma di discorso: una reticenza del parlare in cui la sofferenza è riconoscibile più dalla mancanza delle parole che dal grido».
Christopher Merrill, «Paul Celan. Writing in the Language of the Enemy», in San Francisco Chronicle, 1º aprile 2001.
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Uno dei momenti più dolorosi della vita di Paul Celan fu quando si vide diffamato da Claire Goll, nel modo che conosciamo. Ma il peggio non fu l’inizio di questa aggressione, inattesa e imprevedibile, nell’agosto del 1953, bensì l’anno 1960, quando la calunniatrice tornò vergognosamente alla carica. […] Si noterà, intanto, che questa nuova campagna diffamatoria poteva essere vissuta da Paul Celan non tanto come una causa di sofferenza ma, al contrario, come la prova dell’ammirazione e dell’apprezzamento di cui godeva assai ampiamente nei paesi di lingua tedesca. Non solo gli spiriti migliori si mobilitarono per dimostrare l’assurdità delle accuse di plagio che gli erano state mosse e il loro carattere deliberatamente menzognero, […] ma l’Accademia tedesca di Lingua e Letteratura prese subito le difese dello scrittore diffamato e decise di insignirlo del Premio Büchner, una delle onorificenze più alte nella Germania contemporanea. […] Al termine di questa prova Paul Celan avrebbe dovuto sentirsi rassicurato, avrebbe potuto dimenticare ciò che non era stato altro che un’occasione perché la verità emergesse. E tuttavia noi sappiamo che egli non dimenticò, e che il suo dolore e la sua inquietudine non fecero che crescere col passare del tempo. […] L’accoglienza favorevole non aveva fatto altro che rendere più dolorosa la ferita rimasta aperta. […] Amici ne aveva anche in Francia, […] ma resta il fatto che in Francia la sua opera era inesistente. Paul Celan, durante la sua vita, a Parigi, in Francia, fu poeta solo per sentito dire. Ciò che sapeva di essere, non poteva viverlo che con pochissime persone, consapevole d’altronde che gli sarebbe stato molto difficile far comprendere, anche a coloro che lo desideravano di più, il lutto che, in quanto ebreo, aveva segnato la sua esistenza. […] Mi pareva dunque naturale, in conclusione, che questo esule cacciato da ogni dove si dibattesse in questa inquietudine senza fine.
Yves Bonnefoy, Ce qui alarma Paul Celan, Galilée, Paris 2007.
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Essendo in rapporti di amicizia sia con Adorno sia con Celan, Szondi sapeva bene ciò che l’uno rappresentava per l’altro: «Così l’evocazione dei campi di sterminio non è solo il fine della poesia di Celan, ma anche la sua condizione. Stretto [Engführung, in Grata di linguaggio] è, in un senso molto preciso, la confutazione della tesi di Adorno, divenuta troppo celebre, secondo cui “dopo Auschwitz è divenuto impossibile scrivere poesie”. Adorno, che da anni voleva scrivere un lungo saggio su Celan, che considerava il più importante poeta del dopoguerra insieme a Beckett, sapeva perfettamente quanto la sua tesi potesse andare incontro a malintesi, e forse era consapevole della sua stessa falsità. Dopo Auschwitz si può fare poesia solo sulla base di Auschwitz».4
[…] Si direbbe che Adorno voglia mostrare nel capitolo «Meditazioni sulla metafisica» che la poesia di Celan ha giocato un ruolo decisivo nella riformulazione del suo giudizio: «Quel che i sadici nei lager annunciavano alle loro vittime: “domani volerai in cielo come fumo da questo camino” denota quell’indifferenza della vita di ogni singolo verso cui la storia si muove: già nella sua libertà formale egli è fungibile e sostituibile, come poi sotto i calci dei liquidatori. […] La sofferenza incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò sarà stata un errore la frase che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie. Non invece sbagliata la domanda meno culturale se dopo Auschwitz ci si possa lasciar vivere, se ciò in fondo sia lecito a chi è scampato per caso e di norma avrebbe dovuto essere ucciso. Per sopravvivere egli ha già bisogno della freddezza, il principio basilare della società borghese, senza cui Auschwitz non sarebbe stato possibile: questa è la colpa drastica di chi è stato risparmiato».5
Theodor W. Adorno e Paul Celan, Solo, con me stesso e le mie poesie. Lettere 1960-1968, a cura di Joachim Seng, Archinto, Milano 2011, pp. 19-20.
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Le poesie di Celan vogliono dire, tacendo, l’orrore estremo. Il loro stesso contenuto di verità diventa qualcosa di negativo. Esse riproducono un linguaggio al di sotto di quello disarmato degli uomini, anzi di ogni linguaggio organico, il linguaggio della pietra e della stella proprio di ciò che è morto.
Theodor W. Adorno, Teoria estetica, a cura di Fabrizio Desideri e Giovanni Matteucci, Einaudi, Torino 2009, p. 437.
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Per Celan, il famoso verdetto di Adorno riguardo alla «barbarie» di scrivere poesie dopo Auschwitz costituì non tanto un motivo di irritazione, quanto una provocazione che si incontrava anche con il proprio dilemma formulato nei non meno famosi versi di giovinezza: «und duldest du, Mutter, wie einst, ach, daheim, / den leisen, den deutschen, den schmerzlichen Reim?» [«E tolleri, madre, ah come in passato a casa, / la dolce, la tedesca, la dolorosa rima?»].6 In «Conversazione nella montagna» l’intensificarsi del confronto con la propria ebraicità risalta con immediatezza; le letture di Martin Buber, Gershom Scholem, Franz Rosenzweig, la scoperta della poesia di Osip Mandel’štam, ma anche l’inquietudine crescente provocata da attacchi considerati da Celan antisemiti e rintracciati da lui soprattutto nella Germania federale, lo assillano e lo preoccupano sempre più. […] L’incipit del testo («Una sera che il sole, e non soltanto lui, era tramontato, si mise in cammino, uscì dalla sua casupola e si mise in cammino l’ebreo, l’ebreo e figlio di un ebreo, e con lui camminava il suo nome, l’impronunciabile, camminava e venne…») introduce, accanto alla suggestione dell’eterna «erranza» ebraica, paragonabile alla condanna di Sisifo per l’assenza di una qualsiasi speranza di redenzione, un percorso di lettura intertestuale, confermato qualche riga più sotto: «camminava come Lenz, attraverso la montagna…». Lenz altri non è che il personaggio del frammento in prosa per il quale Georg Büchner trasse ispirazione dalla figura di Jakob Michael Reinhold Lenz, letterato contemporaneo di Goethe, colpito assai precocemente da una alienazione mentale che gli fu, a quanto pare, fatale. La prima proposizione del testo di Büchner: «Il 20 gennaio Lenz traversò la montagna»7 avrà colpito Celan prima di tutto per la data fatidica, memento dell’«ammutolire orrendo»8 che essa ha inaugurato per lui stesso, come pure per i milioni di uomini condannati allora, come lui, a morte. I due «ebrei» erra...