I Volti Della Guerra
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I Volti Della Guerra

  1. 379 pagine
  2. Italian
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I Volti Della Guerra

Informazioni su questo libro

Dalle notti madrilene squarciate dalle bombe della Guerra civile spagnola, nel 1936, alle guerre in America Latina degli anni novanta, percorrendo le paludi del Vietnam e battendo i deserti del Medio Oriente, "I volti della guerra" narra le storie - di ferocia, amore e sofferenza - dei despoti e delle vittime dei conflitti del secolo scorso. Martha Gellhorn - antesignana delle corrispondenti di guerra, tra i primi a testimoniare l'orrore del campo di concentramento di Dachau - ha raccontato, con i suoi reportage, i fronti più caldi del XX secolo. Una scrittura immediata e realistica - sensibile ai suoni, agli odori, alle parole, ai gesti dei luoghi visitati - e un'infallibile capacità di cogliere e custodire l'estrema varietà di esperienze vissute hanno dato forma alla "visione umana del mondo" della grande reporter. Questo libro è ormai un classico del giornalismo moderno. Martha Gellhorn l'ha scritto non perché fosse interessata ai generali e ai politici, ma perché coltivava un forte impegno nei confronti della gente normale che dalle guerre viene schiacciata.

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Informazioni

QUARTA PARTE
La Seconda guerra mondiale
1. La Seconda guerra mondiale
Stavamo bevendo daiquiri in un piccolo bar pidocchioso sul confine messicano e discutevamo dell’allevamento di bestiame in Arizona. Un cencioso bimbetto indiano entrò reggendo alcuni giornali e disse in tono mite: «Con la guerra, la guerra». Sulle prime, nessuno gli prestò particolare attenzione. Poi, la parola fece presa, lo chiamammo e gli comprammo un giornale, messicano, umido del suo stesso sudore. Un titolo dal sapore scandalistico annunciava l’attacco di Pearl Harbor e la dichiarazione di guerra da parte dell’America. Per un grande paese, ci parve un modo tremendo di entrare nel conflitto: all’improvviso, con una flotta già colata a picco.
Da quel giorno al novembre 1943, quando finalmente raggiunsi l’Inghilterra (colma di gioia per il fatto di trovarmici nuovamente, di sentirmi ancora una volta a casa mia, nel mondo), fui paralizzata da un conflitto di emozioni: il mio dovere privato da un lato, il disgusto pubblico dall’altro e un enorme e generale desiderio di dimenticare entrambi e di unirmi a coloro che in quel momento pativano le conseguenze della guerra. Starsene seduti all’esterno a guardare qualcosa su cui non si può esercitare la propria influenza, né tantomeno cambiare, è troppo difficile; è molto più facile chiudere gli occhi e la mente e tuffarsi nel mare della sofferenza, là dove non esiste quasi la scelta, dove sei soltanto in magnifica compagnia.
L’Inghilterra era un paese nuovo, la patria di un nuovo popolo. Gli inglesi sono una nazione sorprendente e credo sia vero che nulla si confà loro più della catastrofe. Quando vi si oppongono, quando vi si oppongono davvero, le loro qualità negative si trasformano in positive grazie a una sorta di metamorfico salto mortale. La flemma, la diplomazia e la compiacenza si trasformano in sopportazione, nel rifiuto di cedere al panico e in orgoglio, padre dell’autodisciplina. Ciò che «non va» è dimostrarsi ipocriti o codardi; ed essi conservano la capacità di ridere, non importa di cosa. In epoca recente, Edmund Wilson ha usato un’immagine per definire la Russia: «Il vertice morale del mondo, dove la luce non si spegne mai del tutto»; questo era l’Inghilterra, durante il conflitto.
Dal novembre 1943, con una pausa inevitabile nella primavera del 1944, seguii la guerra ovunque riuscii a raggiungerla. Gli addetti alle pubbliche relazioni dell’esercito statunitense e i proprietari di riviste e giornali americani non erano che un dogmatico manipolo di individui contrari al fatto che una donna potesse lavorare come corrispondente al fianco delle truppe di combattimento. A quell’epoca mi sentivo già una specie di veterano della Guerra di Crimea, ed ero stata inviata in Europa per svolgere il mio lavoro, che non era certo scrivere articoli sulle retrovie o spiegare il punto di vista delle donne. Gli addetti alle pubbliche relazioni di stanza a Londra divennero definitivamente ostili quando mi imbarcai come clandestina su una nave ospedale per vedere da vicino qualcosa dell’invasione della Normandia. Da quel momento, potei scrivere solo articoli su fronti secondari, insieme ad ammirevoli stranieri che certo non si mettevano a pignoleggiare sulle credenziali e i permessi di viaggio ufficiali. Per mezzo di imbrogli e azioni furtive riuscii a infiltrarmi in Olanda per assistere alle operazioni dell’82a Divisione dell’aviazione statunitense; ma fu soltanto durante la Battaglia del Saliente e da allora in poi, che osai affiancarmi alle unità di combattimento americane. Forse la guerra aveva ammorbidito gli addetti alle pubbliche relazioni, o forse, con la fine del conflitto ormai vicina, a loro non importava più cosa facevano gli altri.
Gli articoli che seguono non costituiscono in alcun modo descrizioni adeguate delle indescrivibili sofferenze della guerra. La guerra era sempre peggio di come ne parlavo, sempre. E, probabilmente per un istinto di autoconservazione, si tendeva più spesso a scrivere degli atti di coraggio e di aspetti della vita decenti e decorosi. Forse oggi i miei articoli sulla Germania e la Gestapo, sulle SS e le altre sezioni dell’esercito tedesco sembreranno anacronistici peana all’odio. Non facevo altro che riportare ciò che vedevo, e l’odio era l’unica reazione che quelle visioni potessero scatenare.
La dottrina nazista celebrava la «paura» come arma, come mezzo per raggiungere il fine della vittoria. La razza umana è ancora intossicata dal veleno di tale dottrina, dai crimini commessi ovunque, a cui si risponde con altri crimini. Davanti a noi abbiamo il ricordo e la lezione: non illudiamoci che qualcuno possa usare la paura per una buona causa.
Londra, 1959
2. I ragazzi dei bombardieri
Novembre 1943
Sono calmissimi. Intorno a loro c’è parecchio rumore, ma la cosa non li riguarda. Un camion passa sferragliando, trascina una fila di carrelli portabombe. Il personale di terra sta ancora caricando le dirompenti da cinquecento chili, simili a enormi salsicce color ruggine. Una voce alta e chiara della Waaf impartisce ordini in inglese, mescolandosi al clangore, mentre una luce nel vano bombe spalancato rende il buio intorno all’aereo ancora più buio. La luna è velata di nuvole, lungo il perimetro del campo i grandi Lancaster neri attendono e gli uomini si affannano a terminare gli ultimi preparativi. Ma gli equipaggi che dovranno pilotare gli aerei sembrano non avere nulla a che fare con tanto zelo e tanta fretta. Imponenti e sbilanciati nei loro Mae West2 o nelle loro tute elettroriscaldate, questi uomini sembrano statue fuori taglia. Se ne stanno in gruppo accanto al proprio aereo.
A bordo della sua auto, una specie di coleottero, il capitano ha percorso velocemente la pista perimetrale del campo, controllando che tutto procedesse a dovere. Appare come a volte appaiono le persone, sbucando all’improvviso dal vuoto piatto e nero del campo, e dice: «Venga, andiamo a trovare i ragazzi». Il pilota della squadra ha ventun anni, è alto e magro, ha un’espressione decisamente troppo sensibile per questo genere di lavoro. Racconta: «Sono stato nove mesi nel Texas. Grande, grande». Nel senso che il Texas era meraviglioso. Gli altri mi dicono: Piacere, come va. Sono educati e gentili, distanti. Chiacchiere superficiali. Ognuno di loro è sprofondato in se stesso, concentrato; aspetta, pronto, la nuova missione, e i sette assegnati a questo gruppo formano un’unità solida e compatta; chi non ha mai fatto ciò che fanno loro e non andrà mai dove stanno per andare loro non può capire e non ha il diritto di intromettersi. Può soltanto starsene lì al buio e al freddo, sforzandosi di percepire l’intensità della loro attesa.
Ci dirigiamo verso la stazione di controllo, sembra un caravan a scacchi gialli e neri, e anche se non c’è vento il freddo ti divora le viscere. Stanno scaldando i motori, sentiamo il loro ronzio greve. I grandi aerei neri si muovono, rollano lungo il perimetro del campo e vanno a posizionarsi sulla pista di decollo. Una luce verde lampeggia e nel cielo si ripercuote il rombo echeggiante di quattro motori. Il primo aereo sparisce inghiottito dall’oscurità, non sembra muoversi velocemente, vediamo le luci di coda sollevarsi, e poco dopo i tredici apparecchi galleggiano in aria come se il cielo fosse fatto d’acqua. Poi si trasformano in stelle lente e distanti. Fine. I ragazzi sono partiti. Se ne staranno là fuori tutta la notte. Sono partiti per sorvolare la Francia, per sorvolare città note e amate, città che loro non vedranno e che ora nemmeno li interessano. Sono diretti verso sud, per bombardare gli scali di smistamento, per distruggere, se possibile e anche se per poco, una delle due linee di collegamento ferroviario tra la Francia e l’Italia. Se ce la faranno, faciliteranno il compito della fanteria di stanza in Italia meridionale.
Diverse centinaia di aeroplani, migliaia di bombardieri, stanno decollando dai campi sparsi in questa porzione d’Inghilterra verso la luna tremolante. Voleranno nella notte puntando verso le coste francesi e le loro difese, verso catene di montagne che svettano a tremila metri d’altezza, dove l’inverno non è mai pietoso; e poi, naturalmente, ci sarà il bersaglio. Questa missione, tuttavia, va sotto il nome di piece of cake, che nel magnifico linguaggio Raf significa giochetto da ragazzi. Se le prospettive del viaggio fossero state pessimistiche, allora l’avrebbero etichettato come un long stooge, che in pratica significa soltanto una noia tremenda e insopportabile. Nessuno si sarebbe sognato di attribuire alla missione un’importanza superiore. Eppure erano tranquillissimi, e ora che se ne sono andati il campo sembra così spoglio; l’attesa ha cambiato forma: prima aspetti che vadano, poi aspetti che ritornino.
Probabilmente questa è una tipica base bombardieri, non so. Probabilmente ogni base è diversa, come è diverso ogni individuo. È una base Raf e gli equipaggi in volo questa notte sono formati da inglesi e canadesi, più un sudafricano, due australiani e un pilota americano di Chicago. Il pilota più giovane ha ventun anni e il più anziano trentadue e prima della guerra sono stati varie cose: disegnatore pubblicitario, insegnante, investigatore, impiegato statale, imprenditore. Ma nessuna di queste notizie ci dice qualcosa di più sul loro conto. So solo che avevano l’aria stanca, e che sembrano più vecchi di quel che sono. Volano di notte e cercano di dormire di giorno, e quando non sono di turno c’è sempre qualcosa da fare, senza contare che l’attesa del decollo dev’essere estenuante, sapendo cosa significa volare. Dunque, hanno l’aria stanca, però non ne fanno parola e se sei tu a notarlo ti dicono che hanno a disposizione molto tempo per riposare e che si sentono tutti benissimo.
La terra in cui vivono è piatta come il Kansas, adesso fa freddo e dominano i toni spenti del grigio. Sembra una terra inutilizzata e disabitata, ma il cielo è perennemente trafficato. Al tramonto vedi una squadriglia di Spitfire tornare alla base contro il cielo abbronzato della sera, sembrano piccole barche a remi dirette verso casa in formazione compatta e ordinata. Nel pallore mattutino, i bombardieri diurni rombano invece verso La Manica. L’aria è satura di rumori e di presenze e anche il campo si anima. Ma la vita domestica di questi uomini è tranquilla.
Dicono che se all’ora del tè li trovi tutti in mensa a leggere significa che in serata sono previste delle missioni. Questo pomeriggio sono seduti nell’enorme sala adibita a mensa, nella villa che li ospita, sembrano tanti bravi bambini impegnati a fare i compiti. Se ti concentri su ciò che leggi, ti allontani da te stesso e da chi ti circonda e smetti di pensare alla notte che ti aspetta. La mattina hanno effettuato un test di volo in notturna, sono decollati per controllare che gli apparecchi fossero a posto. L’intervallo fra il test e la consegna delle istruzioni di volo è il momento delle voci di corridoio, il periodo durante il quale qualcuno scopre quanto carburante viene caricato nei serbatoi e tutti cominciano a fare congetture su quale sarà l’obiettivo, basando le ipotesi sulle miglia percorribili con un gallone. Le istruzioni di volo (riguardanti la destinazione e il bersaglio) terminano in genere verso il tardo pomeriggio, segue una cena operativa e quindi un pugno di ore angoscianti prima del decollo. È una routine che tutti conoscono e che hanno imparato ad affrontare adottando come stile di vita questa tranquillità ordinata e pacata.
Naturalmente, nelle serate libere il paese più vicino offre qualche occasione di svago: una sala da ballo e le ragazze del posto con cui danzare, i pub con la birra annacquata della guerra e i cinema in cui proiettano vecchi film. Alle undici termina ogni divertimento e il paese chiude le porte. Nessuno potrebbe affermare che si tratta di una breve e romantica avventura; è un’esistenza che si colloca piuttosto fra la vita di collegio e quella di convento. Questi uomini sono qui per fare il loro lavoro e prendono le cose come vengono, senza starci a rimuginare su troppo. L’unico pensiero chiaro e universale è: arriva in fondo. Vinci la guerra e falla finita con tutto questo. Ne hanno già avuto abbastanza, ne hanno avuto fin troppo. Adesso bisogna vincere, bisogna vincere e il più in fretta possibile.
La vecchia vita che forse, quando c’era, appariva piatta e noiosa, diventa bella e preziosa ogni volta che ci ripensano. Nessun pilota o aviatore è in grado di fare progetti precisi; non ha senso contare quanti ponti si sono già attraversati senza morire quando ne rimangono ancora tanti da superare. Ma ognuno pensa vagamente a quel passato non troppo remoto e quasi incredibile in cui nessuno faceva nulla di speciale, nulla di spettacolare o di fatale, in cui le giornate erano lunghe ed esisteva un numero impressionante di modi piacevoli per trascorrerle. È un passato che desiderano ancora, di nuovo, per quanto si tratti di una vita abbellita dalla forza del ricordo. Desiderano un futuro buono quanto immaginano lo sia stato il loro passato.
Quando aspetti che gli aerei rientrino dall’Europa, te ne stai lì ad ascoltare il freddo e la notte non passa mai, eppure sai che prima o poi dovrà finire. Verso le quattro di mattina, gli ufficiali di servizio si recano alla torre di controllo. I responsabili operativi camminano avanti e indietro, fumano la pipa e si dicono cose senza importanza, mentre l’attesa si trasforma in una presenza tangibile. Poi, il primo aereo si mette in contatto con la sala di controllo. Due Waaf rimaste in piedi tutta la notte e che ancora conservano un’aria perfettamente sveglia, le guance deliziosamente rosate, nessuna traccia di assideramento, cominciano a dare disposizioni per l’atterraggio. La voce delle ragazze ci sembra davvero notevole (difficile decidere per quale motivo, forse solo perché sembrano così composte, così tranquille); dicono: «Hello George, pancake over, atterraggio spanciato eseguito». Nella sala circondata da vetrate panoramiche arrivano le risposte dei piloti. Poi di nuovo la ragazza: «Hello Queen, trecento sopra». Improvvisamente la notte acquista un che di soprannaturale, la luna ancora alta in cielo, le stelle che brillano, i grandi riflettori sporgenti come alberi sulla pista, in lontananza le luci di posizione dell’aereo e poi, sempre più vicino, il rumore dei motori che si spostano sul campo d’atterraggio, le ambulanze che partono e le voci delle ragazze che risuonano, risuonano, fredde, efficienti, sempre uguali. «Hello Uncle, trecentosessanta sopra.» Vuol dire che un aereo, U (Uncle), deve sorvolare il campo a trecentosessanta metri di quota fino all’okay per l’atterraggio. Gli apparecchi si avvicinano dapprima lentamente, quindi sono in cinque o sei a sorvolare la pista e ad atterrare. Più gli aerei si annunciano e vengono segnati sulla lavagna nera, peggiore si fa l’attesa. Ma nessuno lo dà a vedere. Nessun cambiamento interviene nelle voci, nessuno si concede un gesto diverso dal normale, la routine procede come sempre, quasi fossimo in coda davanti a un botteghino per comprare biglietti di teatro. Nessuno lascia trasparire alcuna emozione, nessuno dice nulla.
Alla fine gli aerei rientrano tutti alla base, tranne P (Peter) e J (Jig). Sono in ritardo. Era un giochetto da ragazzi, un piece of cake. Dovrebbero essere già qui. Naturalmente torneranno. Ma certo. Ogni minuto è buono. Nessuno commenta il ritardo. Ci avviamo verso la sala rapporti, il capitano della squadra annuncia senza alcuna enfasi che si tratterrà ancora in torre di controllo fin quando saranno al completo.
Gli equipaggi degli undici aerei rientrati sfilano nella sala operativa del pianterreno, pronti per il rapporto. Hanno bevuto il tè nelle loro tazze di porcellana bianca, tazze da barbiere, le hanno riempite di uno spettrale liquido tiepido e dolciastro che a loro sembra prezioso. Le palpebre e le bocche tradiscono la stanchezza, rughe oblique e profonde li solcano sotto gli occhi. Di nuovo, gli interrogatori e i rapporti mi danno la sensazione di trovarmi in una scuola. Gli equipaggi siedono su una panca di legno di fronte a un tavolo di legno, e il funzionario del servizio segreto, dall’altra parte del tavolo, fa le domande. È un botta e risposta in toni tanto dimessi e ordinari da far quasi pensare che il gruppo stia discutendo di un argomento stupido e insignificante. La missione non è piaciuta a nessuno. È stata oltremodo lunga e le condizioni atmosferiche erano terribili; il bersaglio piccolo; un sacco di fumo; non sono riusciti a distinguere bene i risultati ottenuti.
Il capitano in servizio siede su un tavolo e si rivolge ai membri degli equipaggi chiamandoli per nome; dice: «Viaggiato bene?». «Abbastanza, signore.» «È stato un buon viaggio?» «Non c’è male, signore.» «Com’è andata?» «Piuttosto bene, signore.» Niente di meno, niente di più. Poi chiede: «Avete fatto arrabbiare qualcuno?». «No, signore» rispondono sorridendo «non abbiamo incontrato nessuno.» È così che si comportano e che parlano fra loro, è così che vanno le cose qui. Quando veniamo a sapere che sono ormai rientrati anche gli ultimi aerei, senza danni né feriti, il buonumore aumenta visibilmente. Ma sono tutti stanchissimi, ansiosi di terminare il rapporto e di passare in mensa, dove li attendono le famose uova fritte «operative» con patatine, pane, margarina e marmellata – tutta roba che sembra contenere una strana percentuale di sabbia –, per poi andarsene finalmente a dormire.
I ragazzi dei bombardieri si radunano al bar della mensa, in pratica uno sgabuzzino ricavato in una parete, bevono birra e aspettano di fare colazione. Stanno chiacchierando, si scambiano battute personali e ridono di cuore. Sono passate le sette di mattina, è un’ora fredda, scura, ostile. Alcuni hanno riportato indietro qualcosa della loro razione di volo: una lattina di aranciata americana e una stecca di cioccolato, che consumano adesso. Sono beni preziosi. L’aranciata è di buona qualità, il cioccolato è una festa. Ci sono quelli che, non sapendo come andranno a finire le cose, bevono l’aranciata e mangiano il cioccolato appena decollati, per non privarsi almeno di quel piacere.
Mentre si sollevavano nella notte, i Lancaster sembravano enormi uccelli neri e terrificanti; per qualche strano motivo, al rientro mi sono apparsi diversi. Sono partiti da questo campo con un carico di cinquantottomila chili di dirompente e gli equipaggi hanno volato tutta la notte per sganciare la loro zavorra, come da ordini ricevuti. Per un po’, tra la Francia e l’Italia i treni non correranno più, non sui binari bombardati, comunque. E questi sono i protagonisti della Storia, uomini dai capelli scarmigliati e i volti stanchi, che sotto la tuta indossano maglioni sporchi, con gli occhi impastati di sonno, dalle semplici battute cameratesche, che mangiano stecche di cioccolato.
3. Tre polacchi
Marzo 1944
«Al mio paese» dice l’uomo «...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nota dell’autrice
  3. Prime Parte. La Guerra di Spagna
  4. Seconda Parte. La guerra in Finlandia
  5. Terza Parte. La guerra in Cina
  6. Quarta Parte. La Seconda guerra mondiale
  7. Quinta Parte. La Guerra di Giava
  8. Sesta Parte. Interim
  9. Settima Parte. La guerra in Vietnam
  10. Ottava Parte. La Guerra dei sei giorni
  11. Nona Parte. Le guerre in America centrale
  12. Conclusione
  13. Appendici
  14. Note