Movimento I
L’Acqua come origine della forza
Nel Cielo è il freddo,
sulla Terra è l’acqua,
nelle strutture corporee sono le ossa,
negli zang sono i reni,
negli aspetti colorati è il nero,
nei suoni è il sospiro,
nel movimento reattivo a una alterazione è il brivido,
negli orifizi è l’orecchio,
nei sapori è il salato,
nei voleri è la paura.
La paura reca danno ai Reni.
(Huangdi Neijing Suwen, cap. 5)
Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza.
(S. Weil)
Nella teoria dei wu xing, i cinque movimenti, l’origine, si esprime come Acqua. Senza forma precisa, di natura fluida, il movimento Acqua manifesta la forza di una potenzialità generativa e rigenerativa, che non può essere racchiusa né confinata in schemi, ma procede per onde e vortici. Precedendo qualsiasi forma, crea le possibilità energetiche perché le forme si sviluppino. Nel suo naturale movimento di discesa verso il basso, raggiunge ciò che è più profondo, nutrendolo, tanto nel microcosmo quanto nel macrocosmo. Allo stesso tempo, ciò che va in basso è destinato a ritornare verso l’alto, come il vapore acqueo che forma le nubi. Le oscillazione tra duro e fluido costituiscono l’andamento dell’acqua: congelandosi, sembra bloccare i flussi, che, in realtà, si aggregano in strutture, come quella ossea, non perdendo, nell’apparente stasi, una forma di dinamicità interna. Riscaldandosi, invece, riprende fluidità. Come fase iniziale e finale di ogni ciclo, costituisce la riserva da cui attingere per intraprendere la realizzazione di qualsiasi tipo di azione.
L’energia dell’acqua si esprime spaziotemporalmente nel Nord e nell’inverno, in cui la vita pare immobilizzarsi, stretta dalla morsa del freddo. È associata al colore nero delle profondità oceaniche, da cui la vita deriva.
Nel corpo umano, rappresenta l’eredità delle generazioni precedenti che scorre in noi (精 jīng) e, come inizio di ogni nuovo ciclo, le esperienze pregresse, che hanno formato ciò che in questo momento ci troviamo a essere. Si esprime in forma yin, come organo (zang) nei reni, sede di 精 jīng, l’essenza prenatale, che riceviamo dalle generazioni passate e che, modificata dalle nostre esperienze, trasmetteremo alle generazioni future. 精 jīng rappresenta la nostra continuità generazionale, la storia che si fa, letteralmente, corpo: in essa si narra anche la nostra salute psicofisica e il potenziale della nostra forza. Non in maniera assoluta però, perché, come in ogni percorso, c’è sempre possibilità di modificarsi e trasformarsi. I reni sono anche, infatti, sede di 志 zhì, la volontà, la determinazione che permette di agire e “si aprono” verso l’esterno nelle orecchie, come capacità di ascolto e quindi di introiezione di voci e suoni che permettono di apprendere l’ignoto e trasformare ciò che è già noto. Il canale di Rene (肾 shèn) scorre nella parte più interna delle gambe, originandosi sotto al piede, come a tracciare una continuità con le energie più profonde, e giunge fino all’altezza dell’organo da cui il canale prende il nome. In forma yang, come viscere (fu), l’acqua si manifesta nella Vescica (膀 páng), il cui canale scorre lungo l’interezza della parte posteriore del nostro corpo, dall’angolo dell’occhio fino alla punta del mignolo del piede, determinando postura e andamento con cui stiamo e ci muoviamo nel mondo. La sua energia costruisce le ossa, struttura portante del corpo, i midolli, i denti e i capelli; nelle nostre percezioni, si lega al sapore salato, come le acque marine. L’emozione patologica connessa all’acqua è il contro altare della volontà, ovvero la paura, e il lamento il suo suono. Quel lamento del lutto e della perdita, quella paura che si associa alla morte, che pietrifica, ghiaccia, impedendo alla volontà di esprimersi in azione. Una paura profonda, abissale, oscura, in cui non permea luce. Tuttavia, questo è il momento in cui la vita si origina: la sua co-appartenenza con la morte viene posta come presupposto a ogni esistenza che si dà come flusso, come mutamento continuo, di cui l’immobilità, la stasi non sono che necessarie, ma transitorie, manifestazioni.
Se la narrazione dell’Asia orientale osserva la ciclicità, anche nei corpi, in un continuum spiraliforme in cui ogni inizio si riattua in forme diverse, altra via ha percorso il pensiero “europeo”, o, almeno, quello che è divenuto il discorso dominante, relegando in flussi carsici altri possibili racconti. Una via teleologica, rettilinea, che cerca un punto stabile di origine e s’indirizza verso un fine. Una strada alla luce del sole, che vuole dimenticare, così sembra, l’oscurità da cui è nata e da cui riattinge ciclicamente. Una Storia, documentabile, visibile, che assume prima la forma di una voce, di un canto – vibrazione che passa dalle orecchie – che diviene, poi, testo. Si cerca quindi quel punto fisso da cui far partire il senso – inteso anche come direzione – che si è scelto di darsi nelle produzioni umane dei cantori, dei poeti. L’origine della narrazione che la nostra storia “occidentale” – quella in cui abbiamo imparato a rappresentarci come cultura – fa della forza viene cantata, secondo Simon Weil, nel primo dei Poemi Omerici, l’Iliade, definito con grande acume poema della forza, «l’unica vera grande epopea dell’Occidente» (Weil 2013, p. 81).
Nel denso lavoro che Weil le dedica, l’Iliade rappresenta la vera espressione del genio greco, il testo più antico, onesto e rappresentativo di una logica politica, etica e sociale divenuta senso comune, ma anche riflesso di una visione cosmologica, che si incentra sulla forza e che trova inveramenti lungo l’intero corso della storia del cosiddetto Occidente. Assume i connotati di un racconto fondativo, di un logos che cerca di portare alla luce il senso profondo del mythos che, per sua stessa natura, rimane oscuro e celato, ma che si concretizza lungo l’intero corso della “nostra Storia”.
Il mythos, secondo Panikkar, rappresenta quella forma di coscienza simbolica, contemplante che soggiace alla conoscenza logica, discorsiva, il logos, ma che non si esaurisce in essa, non si dice nei suoi termini: «Con la parola mythos io intendo quello che tradizionalmente significava, vale a dire un modo diverso che gli uomini hanno di esprimere una convinzione, o piuttosto una verità che non è necessariamente “chiara e distinta” alla ragione e che, ciò nonostante, si accetta come ovvia e quindi non ha bisogno di essere dimostrata» (Pannikkar 2002, p. 3). Il mythos costituisce l’orizzonte in cui si articola il logos, la comunanza del sentire attraverso cui una cultura si è configurata e che ha trasmesso nel tempo i valori che ha deciso di esprimere, il senso che vuole darsi. L’orizzonte del mythos non costituisce una fase pre-logica del pensiero, ma una sua diversa declinazione, la falda acquifera da cui sorge, che l’assolutizzazione di un’unica dimensione – quella pertinente al logos, per l’appunto – ha adombrato. Il mythos non può dirsi totalmente nei termini del logos, poiché, in un certo qual modo, ne fonda la possibilità: è in quel non detto, in quel sostrato oscuro che precede discorsi, filosofie, scienze, religioni, politiche, ma che, in un certo qual modo, le pre-determina, accettando elementi ed escludendone altri, che occorre cercare il senso che queste decidono di esprimere, la direzione in cui si muovono. Come nel movimento Acqua nei wu xing, che nelle ossa e nell’energia del canale di Vescica, in cui si esplica la nostra postura, articola la struttura e la modalità del nostro agire.
L’Epopea dell’Iliade, dice Weil, è proprio la narrazione più limpida e profonda del mythos da cui il cosiddetto Occidente si origina. E il vero protagonista di questo racconto, si diceva, è la forza:
La forza usata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae. L’anima umana vi appare di continuo alterata dai suoi rapporti con la forza: trascinata, accecata dalla forza di cui crede di disporre, curva sotto il giogo della forza che subisce. Chi aveva sognato che, grazie al progresso, la forza appartenesse ormai al passato, ha potuto scorgere in questo poema solo un documento; chi invece, oggi come allora, individua nella forza il centro di ogni storia umana, trova qui il più bello, il più puro degli specchi. (Weil 2013, p. 39)
Specchio che, come la superficie dell’acqua, riflette la forma che si mostra alla luce grazie all’oscurità che regna nelle sue profondità, punto di confine che permette di intuire la co-appartenenza delle due. Per comprendere il senso profondo di ciò che vogliamo indagare non ci si può accontentare del riflesso di superfice, da cui spesso si configurano immagini deformate. Non si può pensare reale l’immagine speculare, anche quando chiara e distint...