Dolph Heyliger
Ora scelgo la città dell’armonia dove ho dimora. Tutta Kilborn mi sia testimone, se non fui generato nel pudore ed educato alla semplicità. E che qualcuno porti davanti a me – senza confondersi – un solo cane che possa dire che l’ho malmenato; o un solo gatto che sia in grado di testimoniare che gli ho arrostito la coda. Ebbene, a costui o a costei, come sanzione, offrirò una corona.
Il racconto della botte
Nei primi anni della provincia di New York1, la città si lamentava sotto la tirannia del governatore inglese Lord Cornbury2, che spingeva la sua crudeltà verso gli abitanti olandesi a tali estremi da non permettere a nessun pastore e insegnante di parlare nella propria lingua se privo di un particolare permesso. In questo periodo viveva nell’accogliente e antica città di Manhattoes3 una signora disponibile e generosa, nota con il nome di Dama Heyliger. Era vedova di un capitano marittimo olandese, morto inaspettatamente di febbre per il lavoro troppo duro e per le mangiate troppo luculliane, nei giorni in cui tutti gli abitanti, terrorizzati, si affannavano a fortificare la provincia contro l’invasione di una piccola nave corsara4. L’uomo la lasciò senza denaro e con un bambino, unico superstite di molti figli.
La coraggiosa donna doveva fare i miracoli per sbarcare il lunario e condurre così un’esistenza dignitosa. Nonostante ciò, visto che il marito eramorto per l’esagerata dedizione al sostegno della comunità, fu deciso all’unanimità che “si doveva collaborare per aiutare la vedova”; e grazie a questo “collaborare” la donna visse dignitosamente per alcuni anni; nel frattempo tutti mostravano disponibilità e parlavano bene di lei e ciò l’aiutava a tirare avanti.
La vedova abitava in una piccolissima casa in una via similmente minuscola chiamata via del Giardino, molto probabilmente perché in quel posto, tempo addietro, doveva esserci stato un giardino. Siccome i suoi bisogni crescevano di anno in anno e, da parte della comunità, la parola “collaborare” veniva pronunciata sempre meno, lei fu costretta a cercare una qualche maniera per far crescere i suoi modesti mezzi finanziari e mantenere la sua autonomia, alla quale teneva molto.
Vivendo in una citta mercantile, ne aveva in parte acquisito lo spirito; di conseguenza si era decisa ad azzardare un pochino nella grande avventura del commercio. Per cui, inaspettatamente e con grande meraviglia dei vicini, apparvero dietro la finestra della sua casa, in esposizione, re e regine di pan di zenzero con le mani sui fianchi secondo la ben nota moda reale. C’erano anche diversi bicchieri sbeccati, alcuni ricolmi di zuccherini, altri pieni di biglie; si vedevano, altresì, dolciumi di vario genere, e caramelle d’orzo e bamboline olandesi, e cavalli di legno, nonché, in giro ovunque, libri illustrati con copertine dorate, e di tanto in tanto un gomitolo di filo, oppure una libbra di candele appese al soffitto.
Alla porta della piccola abitazione sedeva la gatta della brava donna, un essere pieno di piglio che pareva guardare ogni passante per criticarne il modo di vestire; e di tanto in tanto la gatta allungava il collo per scrutare lontano, stuzzicata da quello che stava capitando all’altro lato della via; ma se per caso un pigro cane randagio passava nei pressi mostrando un comportamento scorretto – ohibò! ohibò! – arruffava il pelo, e ringhiava, e soffiava, e batteva energicamente le sue zampine! La sua irritazione andava ben oltre quella di una vecchia e sgraziata zitella che vede avvicinarsi un qualche ostinato casanova.
Ma nonostante la gentile signora fosse stata obbligata ad umiliarsi con questi miseri mezzi di sussistenza, difendeva quel motivo di dignità familiare che le derivava dal suo essere una discendente dei Vanderspiegel di Amsterdam; per questo fece dipingere e incorniciare il suo stemma araldico per esibirlo sopra la mensola del caminetto. A onor del vero, le persone piú umili del circondario la rispettavano molto e la sua abitazione era luogo di ritrovo di tutte le serve della zona, che andavano a trovarla nei pomeriggi invernali, mentre sedeva a sferruzzare a un lato del focolare, con la gatta che, al lato opposto, faceva le fusa, e il bricco del tè che fischiava; e le comari discorrevano con lei fino a tarda sera.
C’era sempre una poltrona per Peter de Groodt, talora chiamato Long Peter, e talaltra Peter Longlegs5, il religioso sacrestano della piccola chiesa luterana; l’uomo rappresentava il vecchio saggio per la vedova ed era infatti il profeta del focolare. Non solo, ma il pastore stesso, ogni tanto, non rifiutava di entrare nell’abitazione per informarsi del suo stato di spirito e per bere anche un buon bicchiere di ottimo brandy di ciliegie. E infatti il curato non dimenticava mai di passare a Capodanno per augurarle un felice anno nuovo; e la gentile signora, che su certe cose era un pizzico vanitosa, si compiaceva sempre di poter offrire all’ospite una porzione di dolce uguale a quella che riceveva dagli altri abitanti della provincia.
Ho gia riferito che lei aveva un figlio. Era una compagnia per la sua vecchiaia, ma difficilmente poteva essere identificato come una consolazione, se è vero che, tra tutti i mascalzoni sciagurati della zona, Dolph Heyliger era il piú scellerato. Il ragazzo era sveglio e non è che fosse pieno di vizi, lui era fatto unicamente per il piacere e per la superficialità e possedeva quell’anima impudente e spensierata che, nel figlio del ricco, viene sempre apprezzata e, nel figlio del povero, puntualmente deprecata. Dolph si metteva costantemente nei guai e ad addolorare la madre senza tregua giungevano le rimostranze di coloro ai quali lui aveva giocato qualche buffo tiro; e a casa arrivavano anche i conteggi per i vetri che lui spaccava. In una parola, Dolph non aveva ancora compiuto quattordici anni che tutto il vicinato lo aveva definito “un cane malvagio, il peggiore bastardo della strada!”. Non solo: un anziano gentiluomo, con una giacchetta chiara, e una faccia rossa e affilata, con due occhi da furetto, fu così perentorio con Dama Heyliger da asserire che il giovane sarebbe finito sulla forca, un giorno o l’altro!
Eppure, a dispetto di tutto questo, l’infelice anima della vecchia voleva bene al figlio. Tanto peggio lui si comportava, quanto piú lei pensava di amarlo; e piú il giovane era ben visto dalla madre, piú il mondo esterno sembrava condannarlo. Le madri, si sa, sono esseri fiduciosi e parziali e non sono in grado di riflettere se non attraverso il loro amore materno. Per la poveretta, però, il figlio era l’unica persona al mondo a cui indirizzare il proprio amore, perciò non bisogna condannarla se lei non dava ascolto a quegli amici che cercavano di farle capire che Dolph avrebbe fatto una brutta fine.
A discolpa del giovane, va precisato che egli era oltremodo affezionato alla madre, alla quale, per nessuna ragione, avrebbe voluto dare angoscia. E ogni volta che si comportava male, non poteva fare a meno di osservare gli occhi addolorati e tesi della madre fissi su di lui e di sentirsi il cuore invaso da tristezza e rimorso. Fatto sta che Dolph era una peste e non sapeva resistere a ogni nuova tentazione di piacere e di monelleria, per nessun motivo. Sebbene fosse capace d’imparare velocemente, ogni qualvolta era costretto a impegnarsi, era sempre disponibile a farsi trasportare dalle cattive compagnie, per cui spesso marinava la scuola per andare a caccia di nidi, rubare gli ortaggi o raggiungere l’Hudson e farsi una bella nuotata.
In questo modo divenne un ragazzo forte e scriteriato; e la madre cominciò a essere in ansia per il suo futuro e su come educarlo a cavarsela da solo, ben sapendo che Dolph aveva una tanto brutta nomea che nessuno sembrava intenzionato a offrirgli un lavoro.
Molti furono gli scambi di punti di vista che lei ebbe con Peter de Groodt, il chierico e religioso, che era il suo principale confidente. Peter non era meno perplesso di lei, in quanto non aveva una grande considerazione del giovane, e pensava che Dolph non avrebbe mai realizzato nulla di buono. In un primo momento le suggerì di far arruolare il figlio su una nave, metodo consigliato per i casi piú disperati. Ma Dama Heyliger non ne volle sapere; non riusciva a pensare a Dolph che si allontanava dalla sua vista.
Un giorno, mentre lei, assai pensierosa, era seduta presso il caminetto a sferruzzare, entrò il chierico con un’aria insolitamente vivace e pronto a nuove proposte. Era appena tornato da un funerale. Si era trattato di un giovane, morto di deperimento, che aveva l’età di Dolph e che era stato apprendista presso un affermato medico tedesco. Correva voce che il defunto fosse morto a causa del dottore, che ne aveva fatto la cavia di sperimentazioni con cui studiava l’efficacia di un nuovo preparato artigianale, o di un intruglio calmante. Ma forse questi pettegolezzi rientravano nella consueta e volgare maldicenza. A ogni modo, Peter de Groodt ritenne opportuno non riferire queste voci, interessate a spargere sospetti. Per quanto, se avessimo tempo per filosofare, sarebbe una interessante materia di discussione valutare perché la famiglia di un medico ha l’inclinazione a essere anemica ed emaciata, e quella di un macellaio vivace e florida! Come dicevo, Peter de Groodt entrò nell’abitazione di Dama Heyliger spinto da un inusuale fervore. Durante le esequie, gli era venuta un’illuminazione folgorante sulla quale aveva meditato nel rivangare il terriccio sulla fossa del discepolo del medico. Aveva considerato che, visto l’incarico a disposizione lasciato dal giovane defunto, Dolph avrebbe potuto occuparlo. Il giovane aveva l’inclinazione per quel lavoro, sapeva usare il pestello e girare nella città per sbrigare commissioni; e cosa si vuole di piú da un apprendista?
Il consiglio di Peter il saggio aprì alla madre una visione di onore e gloria. Già vedeva Dolph, con una cannuccia al naso, un picchiotto alla porta, e la scritta “Dott.” prima del nome. Una delle autorità riconosciute della città!
La scelta, una volta fatta, fu subito concretizzata. Il religioso aveva un certo ascendente sul medico, avendo i due uomini diversi affari in comune per via delle rispettive professioni. Così, il mattino seguente lui passò a prendere il giovanotto che, vestito con gli abiti della festa, fu attentamente esaminato dal dottor Karl Lodovick Knipperhausen6.
Trovarono il medico accomodato in poltrona in un angolo del suo ambulatorio con un massiccio volume a caratteri gotici davanti. Era un omino pingue, con una faccia scura e squadrata, resa ancora piú buia da un copricapo di velluto nero. Aveva il naso camuso, non molto diverso dalla forma dell’asso di picche, con un paio di occhiali che baluginava...