parte prima
settembre 2001
I giorni del terrore
«C’è stato un incidente. Un piccolo aereo, uno di quelli da turismo; è andato a sbattere contro una delle Twin Towers. Lo ha appena detto la Cnn. Un guasto... il pilota deve aver perso quota». La voce di Lisa è offuscata da una nota di apprensione. Quasi trent’anni di servizio, segretaria “storica” del console generale, una colonna portante dell’istituzione. Ne ha viste di tutti i colori, Lisa, in tanti anni. Non è certo il tipo che, mentre stai in macchina e sei diretto proprio al consolato, ti chiama al telefono per un nonnulla. In effetti, c’è un che di singolare nella notizia. Un aereo che nel cuore di New York si schianta contro una delle due Torri. Un incidente? Così dice il telegiornale. Sarà, ma non mi persuade. E probabilmente non deve aver persuaso neppure Lisa.
Guardo l’orologio. Mancano cinque minuti alle 9.00. È una bella giornata di settembre, radiosa di sole. Sto raggiungendo la sede del Consolato generale d’Italia, al numero 689 di Park Avenue. Dista dieci blocchi, più o meno un chilometro, dalla mia casa. Un bel primo piano sulla Fifth Avenue, la casa, all’angolo della settantanovesima, vista su Central Park, il Metropolitan Museum... è del nostro governo, proprietà demaniale, comprata una ventina di anni fa per diventare la residenza del console generale. Ci sono venuto ad abitare con mia figlia Veronica nel novembre 1998, quando ho assunto l’incarico. Ora c’è anche Genny, la mia compagna. In questi giorni è venuto a trovarci anche mio figlio Alessandro. La famiglia può dirsi al completo.
Un piccolo aereo. Un incidente? Certo, tutto può essere, ma qualcosa non mi quadra. Meglio però non lavorare troppo di fantasia, dare corpo a congetture; al momento nulla lo autorizza. È una giornata come mille altre. Magari anche un po’ più bella di mille altre. Tutto procede sui binari consueti. Mi sono svegliato presto, come ogni mattina. La colazione, una rapida scorsa ai quotidiani, New York Times in testa, Herald Tribune, Washington Post.
Alle 8.30 ero pronto e alle 8.45 l’autista mi ha aperto la portiera della macchina. Dieci blocchi; col traffico intenso di New York significa all’incirca un quarto d’ora. Alle 9.00 sarò nel mio ufficio. Magari, se avrò tempo, cercherò qualche informazione supplementare per capire se la mia sensazione ha qualche fondamento. Non c’era stato, sette... no, otto anni fa, un attentato? E sì, proprio alle Torri Gemelle. Un furgoncino carico di esplosivo parcheggiato all’interno della Torre Nord. Ci furono alcuni morti – sei mi pare – e qualche decina di feriti. Una storia non del tutto chiara. Un piccolo aereo...
Entro in ufficio. Ho la testa alle pratiche da sbrigare. La routine di un console generale in un grande paese. Ma dentro mi ronza qualcosa, una sensazione vaga, quasi un presentimento. La televisione è accesa, come sempre; è la prima fonte di informazioni nel mio lavoro. I gesti abituali: sistemo alcune carte, dalla finestra osservo un attimo la strada affollata di macchine. Il pandemonio consueto. Faccio per sedermi, ma l’occhio coglie sullo schermo un aereo che punta dritto su una delle due Torri. Già, l’incidente. Adesso ci servono il replay. Chissà quante volte ce lo faranno vedere durante la giornata. Ma guarda! Sono incuriosito e fisso con più attenzione le immagini.
È il sonoro a darmi la scossa. Lo speaker parla in maniera distinta di “secondo aereo”. Secondo aereo? Altro che fantasie! È un attacco vero e proprio, in piena regola! L’aereo si infila come un coltello nel burro nella Torre Sud. Quindi, pochi minuti prima, era stata la Nord a essere colpita. Non regge proprio l’idea che si tratti di una terribile coincidenza. È chiaramente un attacco programmato. L’orologio segna le 9.04.
Supero lo sconcerto, non c’è da perdere un secondo. Chiamo immediatamente i miei collaboratori diretti, console, viceconsole. Un rapido consulto nel mio ufficio. Raccomando loro di tenere sotto controllo la situazione: cerchiamo di capire cosa stia succedendo. La prima preoccupazione è per i connazionali. «Telefoniamo subito, – dico: – comune, polizia, pompieri. Facciamoci spiegare cosa è accaduto. Cerchiamo di sapere se ci sono italiani coinvolti». È il nostro preciso dovere, il motivo per cui lo stato ci ha piazzati qui. Mi metto in contatto con la sede locale dell’Istituto per il commercio estero: mi serve sapere quanti uffici italiani hanno sede nelle Torri Gemelle o nelle aree attigue.
Le agenzie battono la notizia di altri due aerei sequestrati. La televisione offre un replay, questa volta autentico. Sullo schermo scorrono le immagini del primo urto, sulla Torre Nord. Spaventoso. Il “piccolo aereo” ha tutta l’aria di un normale aereo di linea, un Boeing, direi.
Decido l’immediata chiusura dell’unica scuola italiana di New York, la Guglielmo Marconi. La palestra potrà servire ad accogliere i feriti. Non c’è da farsi illusioni. Potrebbero essere centinaia. E i morti... Bisogna sentire subito la Farnesina. Chiamo l’Unità di crisi, l’Ufficio del segretariato generale. Sono già in allerta. Oggi c’è una confortante sintonia; le indicazioni che danno da Roma, vanno esattamente nella direzione delle misure che ho preso. Parlo in viva voce con il segretario generale e il capo di gabinetto. Spiego in due parole come mi sono mosso, che stiamo già raccogliendo notizie su eventuali italiani dispersi.
Sto con gli occhi incollati alla televisione. Negli Stati Uniti il flusso di informazioni è ininterrotto. Se accade qualcosa di importante, di grave, sai quasi in tempo reale quello che succede. Vaglio le notizie per decidere i passi successivi. Ogni dubbio, se mai ne fossero rimasti, è dissolto. Le Twin Towers colpite...
Rudolph Giuliani, il sindaco della Grande Mela, un cognome che ne denuncia l’origine italiana, ha ordinato che vengano chiusi tutti i ponti che portano a Manhattan e ha bloccato tutti i decolli negli aeroporti della città. Un crescendo di sirene lacera l’aria. Il traffico, sempre caotico, sta assumendo dimensioni di bolgia. Consulto di nuovo l’orologio: sono le 9.21.
Alle 9.30 George W. Bush fa sentire la sua voce. Si trovava in Florida, in visita a una scuola elementare. È stato messo al corrente dal consigliere per la Sicurezza nazionale, Condoleezza Rice. È volato via di corsa. Ora annuncia che l’America ha subito un apparente attacco terroristico. Chiede un minuto di raccoglimento per le vittime. Quanti morti ci saranno in quello sconquasso?
I telefoni del consolato squillano senza sosta. Chiamano da Palazzo Chigi, dalla camera dei deputati, dal senato, chiamano giornalisti e persone comuni. Un intrecciarsi di reazioni, domande, supposizioni, richieste accorate da ogni parte. Ho fatto rafforzare il servizio di centralino. Ma qui, hai voglia a telefonare, le informazioni non filtrano. Ho l’impressione che sia scattato una sorta di blackout totale. Posso capirli. A New York ci sono centonovantacinque consolati, uno per ogni paese rappresentato all’Onu: se dovessero rispondere a ogni chiamata, starebbero freschi.
La Borsa di New York ha interrotto tutte le operazioni. Cerco le associazioni italiane, sono numerose, una fonte di informazione preziosa. Hanno antenne su tutto il territorio, potrebbero fornirci dati, notizie. Ci sono italiani che lavorano alle Twin Towers, e poi i turisti... Ho un brivido. Il mio primo compito è appurare quanti italiani morti possano esserci. Mi viene in mente che proprio questa mattina una scolaresca aveva in programma una visita alle Torri, in quell’inferno...
La televisione continua a mandare le immagini degli aerei che si schiantano contro le Torri. Poi, in diretta, grossi frammenti che cadono dall’alto degli edifici: cristalli, blocchi di cemento, festoni di balaustre. Mi sento come se assistessi al bombardamento della città. Sul canale televisivo New York 1 appare il sindaco Giuliani. Invita alla calma.
Stanno tutti là. Nell’area attorno ai due giganti feriti. Giuliani, pompieri, polizia, guardia nazionale. Una folla di volontari, accorsi senza esitare. Il sindaco ha stabilito un provvisorio quartier generale in un edificio poco distante dalle Torri. È in contatto con il governatore dello Stato, George Pataki. Dubito che abbiano anche le idee chiare sul da farsi in un simile pandemonio. E chi le avrebbe? Tra fiamme, fumo, gente che scappa impazzita dalle Torri, nelle strade adiacenti, da tutte le parti. Il fuoco divora gli ultimi sei, sette piani. Chi sta di sotto avrà qualche possibilità di scamparla, per gli altri temo ci sia poco da fare. Sento dire che stanno provando a rimettere in moto gli ascensori della Torre Nord.
Sono passate da qualche minuto le 9.30. Dal Reagan airport di Washington DC fanno sapere che un aereo non identificato sta puntando verso la capitale. La chiusura degli aeroporti è stata estesa a tutto il territorio nazionale. Io proseguo la raccolta di informazioni. C’è da organizzare l’assistenza. I feriti, non solo, anche tutti quegli italiani che erano in procinto di tornare a casa e che sono stati bloccati, con migliaia e migliaia di altri, negli aeroporti inattivi.
Sì, era proprio un Boeing il “piccolo aereo”. Vengono fuori i dettagli, il quadro comincia a precisarsi. Un Boeing 767 della American air lines partito da Boston alle 7.29. Doveva atterrare a Los Angeles e invece è andato a colpire la Torre Nord del World Trade Center. Dirottato, dunque; e certamente anche il secondo.
Elicotteri volteggiano come mosconi impazziti tra sbuffi neri di fumo. I collegamenti non funzionano, non ce la fanno ad avvicinarsi agli edifici. Un soccorso dall’alto a quella povera gente purtroppo è da escludere. Mi è impossibile staccare gli occhi dal televisore. Lo speaker informa con tono concitato che l’aereo diretto verso Washington è andato a schiantarsi sul Pentagono.
Le 9.43. Quasi un’ora che va avanti questa assoluta follia. La più potente nazione del mondo indifesa come un bambino. Un incubo a occhi aperti. Lo schermo si oscura. Una massa nerastra lo invade tutto. Il fumo, ma... no! Sta crollando la Torre Sud. Viene giù lentamente, poi sempre più veloce, in un turbinio di fuoco e polvere. Sarà una carneficina! L’occhio corre ancora all’orologio, ormai è diventato un tic nervoso.
Una carneficina davvero. Il piano colpito si è polverizzato. A occhio si può pensare a qualche decina, forse un centinaio di morti. Ma il crollo scombussola ogni calcolo. Possono essere, sono migliaia. Le Twin Towers ogni giorno sono affollatissime. Qui c’è la mano degli integralisti, non può essere diversamente. Come per l’attentato del ’93. Sì, è chiaro, è opera dei terroristi islamici. Una strage studiata minuziosamente, in un momento che trova tutti impreparati, nel cuore stesso della società occidentale che loro vogliono distruggere.
Ancora! Il quarto aereo è precipitato in una distesa della Pennsylvania. Era partito da Newark alle 8.01 con ventotto passeggeri. Dalle prime sommarie informazioni, sembra che a bordo sia successo qualcosa. Forse una colluttazione tra l’equipaggio e i dirottatori. Così è caduto lontano da ogni bersaglio significativo. L’orologio scandisce imperturbabile le tappe di una storia allucinante.
Sono le 10.03. La Casa Bianca è stata evacuata. Dick Cheney, il vicepresidente, trasferito nel bunker blindato. C’è panico e sconcerto. E la sensazione che la mano omicida dei terroristi possa colpire ovunque. Bush ha dato ordine di abbattere qualsiasi aereo civile che rifiuti di farsi intercettare. Migliaia e migliaia di aerei sono dovuti atterrare in gran fretta. Poi è partito dalla Florida sull’Air Force One, l’aereo presidenziale. Prima di salire a bordo, ha lanciato l’allarme mondiale alle forze militari americane. Si respira aria di guerra.
Nella capitale è allarme rosso. Anche il Dipartimento di stato è stato evacuato e così il Ministero di giustizia e altre imp...