Francesco Cardarelli è rappresentato dall’agenzia letteraria
Duemila battute, di Nicolò Cavallaro.
Via Niso 16, Roma.
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© 2021 iacobellieditore
Prima edizione elettronica: Ottobre 2021
Prima edizione stampa: Novembre 2017
Tutti i diritti riservati
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isbn elettronico 978-88-6252-564-0
isbn stampa 978-88-6252-378-3
Francesco Cardarelli
il triangolo rosso
iacobellieditore
Alla memoria di mio padre,
cui soltanto la morte ha chiuso,
una buona volta,
i ricordi legati alla sua storia
di prigioniero a Dachau.
I lager sono laboratori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana [...]. Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato che tutto può essere distrutto. Ma nel loro sforzo di tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire, né perdonare. Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato con i malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità , dell’invidia, del risentimento e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire.
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, 1951.
CAPITOLO I
Per rimettersi un po’ in carne, Mario ebbe bisogno di più di tre mesi nell’ospedale da campo di Dachau allestito dagli americani; poi lo rispedirono a casa. Quando lo raccontava, Mario aveva sempre cura di omettere che molti compagni, che s’erano salvati come lui dall’inferno, ebbero la malasorte di morire riempiendo troppo lo stomaco: avevano saccheggiato ogni ben di Dio nei casali dei contadini e si erano ingozzati oltre il limite di carico. E così, non tenendo in nessun conto le raccomandazioni dei medici militari, erano morti di malattie intestinali. Un’ironia del destino.
La morte era stata la compagna fedele di Mario per quasi due anni di prigionia. Una presenza così dominante da chiudergli ogni speranza di salvezza. Alle volte, una sensazione di invidia lo assaliva nei confronti dei suoi cari defunti: riposavano nella tomba di famiglia e, nel giorno della commemorazione, quella tomba si ricopriva sempre di fiori e di lumini, ricevendo l’omaggio dei parenti e degli amici. Invece, quel poco che rimaneva di sé – pensava – sarebbe diventato polvere in un forno crematorio o gettato in una fossa comune.
Se era finito in quel campo, la responsabilità , avventata e infantile, era stata soltanto sua. Era appena partito. Era la primavera del ’43. Se era stato inabissato in un campo di sterminio, qualcuno poteva credere che si fosse messo contro i tedeschi e i fascisti. Ma non era stato così: non era ancora trascorso il tempo necessario per diventare un eroe. Da Roma – dove era di stanza per il periodo di addestramento da un paio di settimane – al suo paese, in Abruzzo, c’erano poco più di cento chilometri. La sera del secondo sabato cominciò già a pensare che potesse mettere in atto, dopo la libera uscita, l’idea di prendere il treno per rivedere Velia. Tutto si poteva concertare tra la sera di sabato e la notte di domenica. La domenica mattina infatti, tenendo anche presente l’ora in più di sonno concessa nel giorno festivo, non avrebbe incontrato grossi problemi per rientrare nella grande caserma della Cecchignola prima della sveglia. Risultato: un processo per diserzione e la detenzione nel carcere di Gaeta. Quando a settembre fu firmato l’armistizio, già da tempo Mario era stato trasferito nel carcere di Peschiera. Qui fu preso in consegna dai tedeschi e spedito in Germania.
Mario riapparve in paese tre mesi dopo la fine della guerra, negli ultimi giorni di luglio. Nel frattempo, non s’era per niente preoccupato di far giungere alla famiglia la notizia che lui era vivo e in cura nell’ospedale del campo.
Riapparve con una valigia di cartone, i capelli corti a spazzola e un paio di baffetti all’americana. Indossava una camicia bianca, di quelle che si mettono nei giorni di festa, e un pantalone blu con la piega ancora ben tenuta, ma un po’ abbondante. Tutti i compaesani, per lo più seduti davanti alle abitazioni, lo riconobbero, mentre sulla strada che lo portava a casa calavano le prime ombre della sera. Quello che accadde dopo è facilmente immaginabile: durante tutta la serata, ben oltre la mezzanotte, una marea di gente venne a salutarlo. Nessuno credeva più che potesse essere vivo.
La serata fu lunga. E qualcosa si doveva pur offrire, a tutti quegli ospiti. Allora il padre di Mario, con una contentezza che gli rendeva il volto più paffuto e rubicondo, su due tavoli davanti a casa espose pagnotte, un prosciutto ben stagionato e pronto per essere tagliato, decine di rocchi di salsicce e vino in abbondanza: tutti potevano bere e mangiare, a crepapancia, per festeggiare il ritorno del figlio. La madre rideva e piangeva; aveva già pagato un tributo alla patria con la morte del primo figlio nella campagna di Grecia. Mario sapeva della morte di Giuseppe: lui sì, era stato un eroe.
Nel clima della festa, Mario non tardò molto a riprendere l’adorata fisarmonica, una Castelfidardo acquistata ad Avezzano ancora ragazzo. Suonandola, e ripensando alle tante serenate, cresceva in lui la speranza di vedere apparire Velia, che non abitava poi così lontano. Era impossibile che non avesse ancora saputo del suo ritorno. Ci si avvicinava alla mezzanotte. Era vero che, per colpa della guerra, non c’era stato ancora un fidanzamento ufficiale, ma le due famiglie sapevano di quella storia, ed erano ben contente del legame che univa i due giovani. Qualche serio impedimento che non permetteva a Velia di venirlo a salutare e abbracciare, dunque, doveva esserci stato.
Quando la gente cominciò pian piano a diradarsi, e non rimase più nessuno a ballare per strada, Mario ripose la fisarmonica nella custodia.
La festa terminava e la luna si alzava nel cielo. Mario, in solitudine sull’uscio di casa, spalancò gli occhi per il meraviglioso scenario notturno, acceso da quel discreto bagliore. Si accorse di quanto fossero più belle le cime delle montagne che circondavano la conca del Fucino, quando la luna sembrava velarle di un leggero strato di brina.
Nella sera del suo ritorno, Velia non era stata l’unica persona assente; anche Francesco, uno dei fratelli di Mario, non si era ancora fatto vedere: era in montagna a badare alle pecore, gli aveva detto il padre. Capita, d’estate, di fare tardi la sera, perché il gregge fatica a rimettersi in cammino. Adesso però, a notte ormai fonda, il padre non ebbe più scuse per temporeggiare. Gli si sedette vicino e gli rivelò la dolorosa verità : Francesco non c’era più. La morte l’aveva ghermito pochi mesi prima: un’appendicite tras...