Fiume
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Fiume

L'avventura che cambiò l'Italia

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Fiume

L'avventura che cambiò l'Italia

Informazioni su questo libro

Il 12 settembre 1919 Gabriele d'Annunzio occupa con un migliaio di uomini il porto adriatico di Fiume. In pochi giorni il suo e-sercito di «disertori» si moltiplica. È una sfida al mondo intero: alle potenze alleate che non vogliono riconoscere l'italianità di quella città e al governo italiano che non si sa imporre al tavolo della pace di Versailles. L'occupazione dura quasi sedici mesi e Fiume diventa un laboratorio rivoluzionario politico, sociale, economico ma anche let-terario e teatrale. D'Annunzio governa con un'invenzione al giorno, affinando le sue doti di seduttore e addomesticatore di folle. Fiume diventa la «città di vita», dove tutto è concesso e vissuto fino in fondo: le donne votano, l'omosessualità è tollerata, si può divorziare, l'esercito si democratizza e una Costituzione, La Carta del Carnaro, elaborata dal rivoluzionario Alceste De Ambris e riscritta da d'Annunzio, sovverte le regole borghesi e monarchiche. Pier Luigi Vercesi narra in queste pagine la storia di quest'avventura, dal settembre del 1919 in cui ebbe inizio sino alle giornate di sangue del Natale 1920, quando il governo italiano, dopo aver firmato un accordo con la Jugoslavia, ordinò al generale Caviglia di bombardare dal mare il Palazzo del governo di Fiume. Una straordinaria avventura che il fascismo, di lì a poco, tenterà di fare sua, riproponendo i cerimoniali inventati da d'Annunzio per conquistare le folle. L'anima più autentica del fiumanesimo, tuttavia, non soltanto non aderì al fascismo, ma si schierò dall'altra parte.

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Informazioni

Editore
Neri Pozza
Anno
2017
eBook ISBN
9788854516274
Argomento
History

Bellezza di un’idea

A un cenno, il motore si fermò. Il motoscafo scivolò lento, mentre le onde della laguna lambivano, aggressive, i gradini degli approdi. La «mano d’avorio» del poeta si alzò per salutare la donna velata apparsa su una terrazza arabescata di glicine.
Nelle pochissime righe autobiografiche lasciate da Keller c’è, vivida, quest’immagine della partenza da Venezia alla volta di Ronchi, evidentemente rimastagli negli occhi più delle azioni disperate compiute in guerra, pilota della squadriglia di Baracca, a Fiume e, più tardi, nei cieli della Turchia, di Berlino e dell’America latina, in Brasile, Cile, Perù e Venezuela, dove sperava di coalizzare le repubbliche sudamericane contro la supremazia degli Stati Uniti.
Fosse nato nel Regno Unito avrebbe avuto la sorte, o almeno l’epica posteriore, di Lawrence d’Arabia, avendo la stessa indole profondamente solitaria e malinconica. Lottava per sopravvivere all’incapacità di integrarsi nel mondo ordinario. E vi riusciva solo con azioni spericolate, sfide alla moralità comune, beffe che sedavano la sua intolleranza per l’ipocrisia dominante.
In Francia avrebbe oscurato la parabola di Antoine de Saint-Exupéry. Psicologicamente era l’incarnazione del suo Piccolo principe. E come tutti questi personaggi, facile prevederlo, era destinato all’autodissoluzione. In Italia poteva essere un personaggio letterario. Per un libro di Emilio Salgari era perfetto. Nella vita reale, però, era accettabile solo come esperienza adolescenziale da cui distaccarsi con il progressivo adattamento alla vita adulta.
Su Keller, discendente da una famiglia aristocratica elvetica, sono stati versati fiumi d’inchiostro per denigrarlo (i più) o osannarlo (gli amici); incarnò l’autentico spirito fiumano e fu il prediletto del Comandante. In lui d’Annunzio vedeva se stesso emendato dalle zavorre terrene che spesso rendevano prosaiche le sue aspirazioni poetiche.
«Mio caro Guido» gli scriveva d’Annunzio nel 1927 dal Vittoriale, «la costante tua condizione è la inafferrabilità! La tua fede si dissolve nell’ironia! La tua ironia s’irraggia nella prodezza; la tua prodezza si allevia nel giorno mortale. La tua mania perpetua è l’evasione. Tu evadi nell’alto cielo, o nello spazio lirico. Il tuo regno non è di questa terra. Né questa terra è il mio. Per ciò, simili, ci amiamo e ci abbominiamo. L’ala è evasione, non azione. Così cangio la tua sentenza. Oggi ogni sforzo ideale è vano, o troppo ingenuo».
Al suo ritorno in Italia il fascismo lo marchiò come inaffidabile, se non nemico, tanto da togliergli il passaporto e costringerlo a implorare prima Italo Balbo e poi Mussolini in persona di concedergli la possibilità di raggiungere la madre in Brasile, dove riposavano le spoglie del fratello morto giovanissimo.
Proprio nei giorni in cui il nuovo Duce d’Italia si stava decidendo a lasciargli spiccare il volo, moriva in un incidente stradale. Fu l’unico giorno non avventuroso della sua vita. D’Annunzio telegrafò immediatamente a Mussolini: «Guido Keller era una grande anima infelice, come tu sai. Meritava una morte violenta ma gloriosa, poiché non sapeva adattarsi alla vita comune. Ingiustamente disconosciuto da tanti, egli fu ieri tradito dalla sorte vile. Domando a te, combattente, che al suo feretro siano resi onori solenni». Provvide.
Appena giunti a Fiume, mentre il Vate languiva febbricitante all’Albergo Europa, Keller si precipitò dal presidente del Consiglio nazionale Grossich e lo convinse a offrire tutti i poteri civili al Comandante. D’Annunzio non aveva contemplato questa ipotesi, immaginava di occupare la città e di presidiarla con le sue truppe per garantirne l’assegnazione all’Italia. Quando Keller gli anticipò la proposta, il Vate parve meravigliato: «Come, io governatore?» Evidentemente l’idea gli piacque e, anzi, più tardi si pentirà di non essere andato oltre nelle sue prerogative.
Senza questo primo colpo di mano, probabilmente la vicenda di Fiume avrebbe imboccato un’altra strada, più consona alle finalità di Giuriati, Sinigaglia e anche di Nitti.
Seduto alla sua scrivania nel Palazzo del governatore, il Comandante testimoniò al pilota la sua benevolenza nominandolo segretario particolare. Keller aggrottò la fronte. «Non sei contento?» incalzò d’Annunzio. «Segretario? Ah no! Non voglio sprofondare in una poltrona a smistare chiamate telefoniche». «E allora sarai il mio segretario di azione». «Segretario in azione, questo sì, lo posso accettare». E cominciò a mettere in atto una serie di stravaganze non si sa fino a che punto vere perché, da quel giorno, i suoi detrattori, nelle sale del comando, furono infinitamente superiori ai sostenitori. Lui lasciava che la sua vena di follia li terrorizzasse, alimentandola con la leggenda nera di un teschio, portato sempre con sé, rocambolescamente rubato in un cimitero.
Pare abbia scritto a tutti i manicomi d’Italia di inviargli soggetti comunemente denominati “maniaci” perché, affascinato dalla psicoanalisi, pensava di poter trarre da loro il meglio. Nessun documento lo conferma, comunque. E non vi sono nemmeno evidenze della leggenda secondo la quale un volontario venne mandato in un macello della città per imparare ad ammazzare i maiali. Quando il ragazzo apprese la tecnica, lo fece partire per Roma con un incarico speciale. La storia si concluse con una lettera del volontario, inviata a Keller prima di suicidarsi, in cui si scusava per non essere riuscito a portare a termine la missione: uccidere «quel maiale» del presidente Nitti.
Keller era insofferente alla divisa e agli alti gradi che la indossavano. Si allontanò quindi dalle residenze degli ufficiali per vivere negli spazi aperti attorno alla città. Spesso dormiva sugli alberi, era vegetariano e si sostentava con miele e cocaina, che cominciò ad assumere, come molti altri piloti, durante le spericolate missioni di guerra. Propugnava il mito dell’uomo magro.
Nei primi giorni dell’occupazione, alcuni militari, quasi tutti arditi, si crearono un loro pittoresco accampamento nei cantieri navali abbandonati della città. Erano ragazzoni insofferenti alla disciplina militare. Keller li assoldò, conquistandoli con il suo carisma e le sue idee di democrazia militare, trasformandoli nella guardia personale del Comandante: La Disperata. Quando si ritirò, presero il suo posto prima il conte Elia Rossi Passavanti e poi Ulisse Igliori (che, insieme a Italo Foschi, fonderà nel 1927 la società di calcio A.S. Roma), entrambi eroi di guerra. Nella Disperata venne inquadrata anche una crocerossina della Grande Guerra, la marchesa Margherita Incisa di Camerana; sfilava in gonna grigioverde e giacca con i risvolti neri. Era sempre al fianco del comandante Rossi Passavanti, molto più giovane di lei. Si sposeranno e la loro storia d’amore durerà fino all’ultimo giorno di vita della nobildonna. Turati, inorridito, scriveva alla Kuliscioff: «Fiume è diventato un postribolo, ricetto di mala vita e di prostitute più o meno high life. Nitti mi parlò di una marchesa Incisa, che vi sta vestita con tanto di pugnale. Purtroppo non può dire alla Camera tutte queste cose, per l’onore dell’Italia».
Tra le molteplici stravaganze di Keller, il suo animale “domestico”: un’aquila che gli stava appollaiata sulla spalla sprofondando il becco nella sua folta capigliatura nera. L’aveva battezzata Guido. Erano inseparabili. Un giorno d’Annunzio, per gioco, la fece rapire e tutta la città si mobilitò per ritrovarla, fino a quando Keller comprese lo scherzo e si presentò dal Comandante. Furono autentici attimi di tensione.
Per contro, il poeta sventò una burla che avrebbe potuto avere conseguenze drammatiche. Fin dai primi giorni dell’occupazione, Keller aveva stretto amicizia con un giovane ufficiale del genio, futuro apprezzato scrittore: Giovanni Comisso. «Le prime parole che ci scambiammo» racconta Comisso «furono: “Così non può andare”. Parlammo di fare una rivoluzione che incominciasse a mutare l’ordinamento dell’esercito, di abolire i gradi superiori al capitano, di ricreare le antiche compagnie di ventura di tradizione italiana, di prendere l’ardito come tipo esemplare del vero soldato italiano».
Comisso era stato sedotto da una frase di Keller: «L’arte di comandare è di non comandare». Un pensiero simile l’avrebbe espresso molti anni dopo Ernesto Che Guevara: «Chi sa sa. Chi non sa è un capo».
Nemici comuni di Keller e Comisso erano i vari Giuriati, Ceccherini e così via. Ma anche la compagna del poeta, la pianista Luisa Baccara. Aveva influenza sul Comandante e si era espressa contro la spedizione in Dalmazia. Si convinsero che fosse una spia di Nitti e decisero di toglierla di mezzo. Keller sentenziò: «Dobbiamo metterla in una gabbia come una gallina e portarla in un’isola deserta».
L’idea però venne a Comisso. Ricordando di una festa tradizionale della sua Treviso, il Castello d’amore, architettò uno stratagemma per mettere in pratica il proposito di Keller. Il Carnevale del 1920 cadeva tra il 15 e il 17 febbraio: nella Città di vita le feste erano irrinunciabili. Comisso propose di trasformare lo stabilimento balneare sul molo in un castello medioevale e di farlo difendere dalle più belle dame di Fiume. Al Comandante sarebbe piaciuto. Dal mare, legionari travestiti da pirati avrebbero dato l’assalto al castello e alle castellane, tra le quali Luisa Baccara. Nel trambusto generale, tra danze e baccanali, pochi arditi di assoluta fiducia avrebbero rapito e portato lontano da Fiume la pianista e anche «gli uomini del passato dannosi alla celebrità dell’impresa di Ronchi». Ma d’Annunzio non autorizzò la messinscena: troppo antiquata «sembra la mia Francesca da Rimini. Penserò io a qualcosa di nuovo». Raccontò tutti i dettagli della congiura lo stesso Comisso, mesi dopo, sul giornale «Yoga. Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione», fondata dai due amici negli ultimi mesi dell’impresa fiumana.
«Yoga» nacque dalle riflessioni di Keller e Comisso durante le lunghe passeggiate per i boschi e nelle notti passate all’addiaccio sotto i cieli stellati del Quarnaro. A loro si unì Mino Somenzi, granatiere mantovano di tendenze futuriste. Aveva avuto l’incarico dal Comandante di erigere un monumento all’àncora in una piazza di Fiume. Curò lui il Primo quaderno della «Yoga»: Il ballo di S. Vito «scritto e stampato in 24 ore», a beneficio dell’organizzazione studentesca. I testi erano di ispirazione futurista. Gli autori si proponevano, come obiettivo minimo, di rinnovare il mondo dalle radici. Si riunivano sotto un vecchio fico nella piazzetta davanti alla sede del movimento: una volta parlavano di abolire il denaro, un’altra del libero amore, un’altra ancora dell’uomo di governo, dell’ordinamento dell’esercito, dell’abolizione delle carceri, dell’abbellimento delle città.
Keller e Comisso scrissero al Comandante: «Presto partiremo con uno dei tuoi aeroplani per richiamare i barbari alla distruzione dell’Europa, sicuri che da queste rovine soltanto possa sorgere una nuova forza spirituale a dare un’armonia alla vita dell’uomo». D’Annunzio cominciò a spazientirsi: «Mentre voi state appollaiati sugli alberi, io sono nel tormento della creazione di un nuovo ordine sociale».
I due non si arresero e si concentrarono su obiettivi meno universali. Con la rivista «Yoga», che ha un chiaro riferimento all’ascetismo indiano, avrebbero condotto una strenua battaglia contro le «persone» per far emergere gli «individui». Si scagliarono contro: gli occhiali d’oro con stanghetta; gli «Addio caro»; le r gorgées; la posa; tutti i limiti di spazio e di tempo.
Keller e Comisso affiggevano manifesti sui muri per illustrare le loro teorie bislacche e distribuivano volantini in cui attaccavano gli ufficiali superiori dell’esercito legionario. A ogni reazione di Ceccherini o di qualunque colonnello, il numero degli aderenti all’Unione Yoga aumentava.
Questa non è più la Fiume della marcia di Ronchi: la Città olocausta, divenuta Città di vita, ora è una Città lacerata. I nazionalisti da tempo hanno compreso che la situazione è fuori controllo. I fiumani sono esasperati dagli stenti e dagli abusi. Gli ufficiali più alti in grado preparano l’uscita meno dannosa per la loro immagine. Fiume è realmente un bordello a cielo aperto, dove tutto è concesso in attesa dell’apocalisse. Comisso descrive «una città effettivamente italianizzata nel sangue. Le donne si disputavano l’italiano»; i fiumani vedevano gli arditi «accompagnati alle loro donne vestite di grigioverde. Nel disordine degli amori, le malattie serpeggiavano diffondendosi. Andato all’ospedale per cercare un mio soldato, visitai il reparto degli ammalati venerei ed era per vero un ambiente da non potersi immaginare».
Non bastasse, si verificarono casi di peste bubbonica, fortunatamente con una sola vittima, l’artigliere Giuseppe Grossi. L’aveva portata in città un piroscafo proveniente dal mar Nero.
D’Annunzio, a conclusione di una riunione dei capireparto, si avvicinò agli ufficiali più giovani e, lasciando cadere il monocolo, cominciò: «Ho una cosa da dire a voi giovani» racconta Comisso. «Ed è strano che proprio io ve la debba dire, io che ho subìto così potentemente l’impero della giovinezza. Ma posso dirla perché, da quando sono a Fiume, vivo d’una castità francescana. Ma voi, voi sorpassate tutti i limiti». E schiarendosi la voce: «Noi siamo accerchiati, la lotta è forse imminente, occorre tenere ben saldi i muscoli, poi almeno cercate di non andare nei postriboli quando vi sono i soldati».
Naturalmente nessuno credeva alla castità del poeta: tutti sapevano di una porticina segreta varcata, certe sere, da una soubrette di nome Lilì de Montresor. All’alba se ne andava con cinquecento lire in più nella borsetta. A volte, nella camera del Comandante s’infilava una certa maestrina di Merano «dotata di virtù straordinarie». C’era poi il flusso delle ex amanti, desiderose di contemplare il Vate nella nuova veste di principe rinascimentale.
Ciò che più scandalizzava i benpensanti erano gli amori omosessuali, a Fiume consumati alla luce del sole mentre in gran parte d’Europa, se scoperti, venivano puniti con la prigione. D’Annunzio, pur non praticandoli, li guardava con tolleranza, quasi benevolenza. Scrive Comisso: «Un giorno, dalla finestra del suo ufficio vide arditi che se ne andavano due a due presi per mano verso la collina, e li indicò dicendo: “Guardate i miei soldati, se ne vanno a coppie, come la legione tebana”».
A Fiume si uccidevano i padri e le loro convenzioni. Ne veniva eletto uno nuovo, immaginario, nella figura del Comandante. «La sorte mi ha fatto principe della giovinezza alla fine della mia vita» si appagava d’Annunzio, consapevole di ciò. Era diventato la miccia che accendeva giovani che si sentivano spenti.
Ernst Jünger interpretò così lo stato d’animo della sua generazione: «Cosa abbiamo imparato della vita? Che non sappiamo che farcene, che nel fondo del nostro animo siamo degli scontenti. Questo è uno dei motivi per cui ci affascina la guerra, questo nuovo anelito eroico». Nella disperazione, si viveva artificialmente l’idillio di uno stato nascente, di un innamoramento prolungato. Marciare non significava, come per l’ala nazionalista fiumana, conquistare una striscia di terra sulla carta geografica, voleva dire sciogliere ogni legame con un mondo corrotto e in rovina.
Utopie, certo. Ma era un sentire diffuso tra i giovani scolarizzati in quel 1919, che qualcuno battezzò Diciannovismo. Chi non era rivoluzionario nel 1919? Solo chi era profondamente radicato nel mondo di ieri, per dirla con Stefan Zweig, un mondo però spazzato via dalla guerra. La Francia e l’Inghilterra avevano tradizioni democratiche ben più antiche. L’Italia era ancora un’espressione geografica. E i suoi politici, pur preparati, come fa notare Giordano Bruno Guerri nella sua biografia di d’Annunzio, «vivevano ancora nelle arcadie pascoliane, nei classici del Carducci e dei suoi epigoni residuali e continuavano a emozionarsi per le letture deamicisiane, propinate a bambini e ragazzi sui banchi di scuola».
È paradossale che proprio d’Annunzio diventi il padre spirituale di questo movimento rinnovatore. Lui che Filippo Tommaso Marinetti, il pugnalatore del passatismo, aveva messo in testa a tutti i nemici da abbattere definendolo: «Un cretino con lampi d’imbecillità». La creatività inesausta di d’Annunzio si espresse, in quell’occasione, riassumendo il fondatore del Futurismo in: «Un cretino fosforescente».
Fu dunque Marinetti a ricredersi, correndo a Fiume e ammettendo, nella sostanza, che d’Annunzio aveva saputo realizzare ciò che lui si era limitato a teorizzare, vale a dire gli artisti al potere. Pochi giorni dopo la marcia di Ronchi prese alloggio all’Hotel Lloyd. Dal suo balcone assisteva ogni giorno all’incantesimo che avvinceva la massa al Comandante, all’elettricità che tutto vivificava. Aveva deriso il passatista che pretendeva di trasformare il mondo con un giro di parole e ora lo vedeva all’opera.
Fiume era un magnifico palcoscenico, ma non era il suo. Con l’ardito Ferruccio Vecchi e il futurista Federico Pinna Berchet, Marinetti trascorreva le giornate al caffè Budai e al bar dell’Hotel Lloyd. A volte balzava su un tavolino e arringava gli astanti. Progettava azioni per diffondere il fiumanesimo in Italia, ma il suo egocentrismo non gli consentiva di stare in seconda fila.
Tornò così a nutrire dubbi sulle capacità politiche del Vate, «maniaco del bel gesto, prigioniero delle belle frasi e degli uomini mediocri che lo incensano e favoriscono le sue manie». E ancora: «È un meraviglioso fattucchiere a fondo cinico, con vanità pederastiche infantili e una forza di volontà-ambizione spaventosa».
Le parole correvano, a Fiume più che altrove. Marinetti dovette giustificarsi con il Comandante: «Tutte le voci sono assolutamente false. Siamo però convinti che la nostra sola presenza a Fiume basti ad allarmare fino a una nevrastenia calunniatrice i paurosi e gli sciocchi».
Il primo ottobre 1919, un paio di settimane dopo l’arrivo, Marinetti e Vecchi salirono su un treno camuffati da ferrovieri e tornarono a Milano. In Italia, il fondatore del Futurismo entrò in rotta di collisione anche con Mussolini, che dopo i pessimi risultati conseguiti nelle elezioni politiche del 16 novembre aveva invertito la rotta e cercato alleati tra gli agrari e gli industriali intimoriti dalle minacce bolsceviche, lasciando persino cadere le pregiudiziali antimonarchiche e anticlericali.
«Noi veniamo dal Carso» dichiarò Marinetti dimettendosi, insieme a Mario Carli, dai fasci di combattimento. «Ma non andremo verso la reazione».
Carli era un altro degli scapigliati che Giuriati e Ceccherini avrebbero volentieri messo al muro. Per giungere a Fiume era evaso da una prigione militare dov’era rinchiuso per le sue intemperanze nei confronti dei superiori. Dopo il primo arresto per aver scritto il manifesto dell’Associazione degli arditi («i militari non si devono occupare di politica»), racconta di essere stato convocato dal generale Caviglia, allora ministro della Guerra, per essere rassicurato che lui, vero combattente, era dalla sua parte.
In realtà Caviglia era preoccupato che le élites delle forze armate, se non imbrigliate, imboccassero la pericolosa china che portava al bolscevismo. Nelle sue memorie annotò: «Come comandante d’Armata, avevo dato parere favorevole per lo scioglimento degli Arditi. Ma quale ministro della Guerra vidi la necessità di conservarle. Nei momenti politici torbidi, che stava attraversando l’Italia, essi costituivano una forza utile nelle mani del governo, perché erano temuti per la loro tendenza all’azione rapida e violenta. Sciogliendoli, sarebbero passati a rinforzare i partiti rivoluzionari».
Carli riuscì a raggiungere Fiume camuffato da «biondino»: si era ossigenato i capelli per il timore di essere identificato. Dopo la dipartita di Marinetti fu lui l’anima futurista di Fiume, dove diresse il giornale «La testa di ferro». Al contrario di Marinetti, nonostante i ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Trama
  3. Autore
  4. Collana
  5. Frontespizio
  6. Colophon
  7. Citazione
  8. Nota
  9. Il porto della discordia
  10. Cosa hanno fatto al povero vecchio signore?
  11. Cronaca di un’occupazione annunciata
  12. Faccia fuoco sul mio petto
  13. Qui rimarremo ottimamente
  14. Non sciupate la vostra impresa
  15. Senza i milioni non si fan rivoluzioni
  16. La filibusta del Comandante
  17. Bellezza di un’idea
  18. Il cardo e la rosa
  19. Un tenorino pronto per la rappresentazione
  20. La sinfonia prima della tempesta
  21. Piove su Fiume
  22. L’aquila a due teste
  23. Catalogo Neri Pozza Editore