
eBook - ePub
Letteratura mondiale e metodo
Con un saggio di Guido Mazzoni
- 312 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro
Erich Auerbach ha scritto uno dei libri decisivi del xx secolo: il suo
Mimesis (1946) racconta i modi in cui le diverse epoche hanno dato una forma letteraria al mondo. Molti lo considerano il capolavoro assoluto della critica novecentesca, la sola opera che abbia pienamente resistito allo scetticismo del nostro tempo e alle sue guerre culturali. Letteratura mondiale e metodo raccoglie gli scritti teorici che hanno reso possibile Mimesis. Sono saggi che non hanno perso nulla della loro profondità e acutezza, e che aiutano a pensare meglio i temi fondamentali del dibattito contemporaneo: la possibilità di fare storia di lunga durata e di confrontare culture e tradizioni di origine diversa, la legittimità dei canoni, l'esistenza e i limiti della world literature. Il volume si apre con un saggio di Guido Mazzoni sull'attualità di questi scritti e dell'opera di Auerbach.
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Informazioni
Vico alle prese con Descartes [1921]
[“Vicos Auseinandersetzung mit Descartes” è una dissertazione dattiloscritta per Ernst Troeltsch, la cui edizione, curata da Matthias Bormuth, è apparsa nei Gesammelte Aufsätze. Si tratta con ogni probabilità della “dissertazione non pubblicata” di Auerbach che Troeltsch, parlando di Vico, cita in una nota di Lo storicismo e i suoi problemi (Der Historismus und seine Probleme, 1922), trad. it. di G. Cantillo e F. Tessitore, Guida, Napoli 1985, vol. 1, pp. 167-168.]
I. Il ruolo di Descartes in questo contesto
II. La critica vichiana del metodo geometrico
III.La sua critica del punto di partenza cartesiano
IV. La sua gnoseologia e il fondamento della matematica
V. La sua cosmologia
VI. Il suo fondamento della filosofia della storia
VII.L’andamento vichiano della storia
VIII. Prospettive di estetica e di storia del diritto1
Quando si comincia a leggere Vico e si superano le perplessità relative al suo periodare sovraccarico, alla sua terminologia incerta, al suo debole per le etimologie di fantasia, si approda in tempi rapidi a un sentimento di partecipazione intima e intensa. Vico è una figura tragica: professore di secondo piano nella Napoli spagnola, profondamente timido e incline all’imbarazzo, in lotta col suo tempo; incompreso persino nella sua opposizione di principio allo status quo (e questa fu la sua fortuna); personalità ardente, traboccante con tutto l’impeto della solitudine profetica, eppure incapace di esprimere quel che voleva in modo da essere capito dalla propria epoca – poiché da un lato non riuscì a scuotersi di dosso l’atmosfera in cui viveva, pur creando un nuovissimo mondo fatto di cose concrete, mentre, dall’altro, i contemporanei non gli diedero ascolto anche quando questo gli riuscì, oppure si limitarono ad accettare o biasimare soltanto il suo grado di erudizione.
A ben guardare, o piuttosto nel tentativo d’immedesimarsi in lui, si scopre che l’opposizione nei confronti della propria epoca alla fin fine è solo apparente. Si trova soltanto nelle parole, e il quadro cambia di colpo se pensiamo non a Hobbes, Descartes, Grozio e Montesquieu bensì a Bach, o Fischer von Erlach. Eppure tracciare questa linea interiore, l’unica autentica, che unirebbe Spinoza e Leibniz con Vico e Silesio, nonché con i grandi architetti e musicisti del Barocco, è un compito a cui, in questa sede, bisogna rinunciare. Già i contrasti meramente oggettivi, espressi in parole ragionevoli (Vico parlerebbe di lingua epistolare), risultano molto difficili da individuare poiché egli, come abbiamo accennato, non fu in grado di svincolarsi del tutto dalle tendenze razionali dell’epoca. Inoltre tentava di dimostrare qualcosa che era impossibile da dimostrare con mezzi eruditi e filosofici, e che al massimo poteva essere intuito. Motivo per cui la sua opera è piena di passi pochi chiari e contraddittori, il che lascia al critico odierno ampio arbitrio nel decidere quale sia il punto cruciale. Cos’è essenziale in Vico? Quali sono i suoi pensieri originali e quali strumenti inadeguati, a cui noi possiamo invece rinunciare, gli hanno fornito le circostanze del suo tempo? Questa è la domanda più importante, e persino Croce pare non essere stato in grado di rispondervi come si deve.
Il nome Descartes non ricorre qui in sé e per sé, ma quale rappresentante della sua epoca. Il suo ideale di un sistema di opinioni limpido, mosso da una ragione mite, è quello che caratterizza due interi secoli. Contava solo il codice dell’honnête homme, della società colta. Tale orientamento disprezzava sia la fantasia, sia la sensualità quale costrutto organico; dichiarava la tradizione un’accozzaglia di erudizione poco chiara, spuria e indimostrata; offriva una visione meccanicistica della natura, atomistica della società e utopica della migliore condizione possibile. Essenziale per noi è il fatto che si trattasse di una visione dualistica: spirito e corpo, realtà e idea, esperienza e ragione, φύσις e ϑέσις, stato e religione, essere umano e Dio smisero di compenetrarsi e si separarono, netti e riconoscibili, ciascuno al suo posto. La sontuosa impalcatura dell’insieme, mai assente almeno tra i grandi, era solo pensata, quindi una ragione non sensoriale inaccessibile all’istinto. In nessun caso, nemmeno in Leibniz, l’elemento isolato ed empirico ottiene il diritto di essere unico, simbolo della totalità.
Per la coscienza etica generale e la pratica che ne scaturiva, ciò ebbe una conseguenza (preparata da tempo): l’essere umano perse, irrimediabilmente e per secoli, la consapevolezza viva del proprio essere vincolato. Divenne un singolo mosso da forze meccaniche contro le quali ci si poteva indignare senza incorrere in sanzioni; perse i legami verso il basso – terra e città, popolo e stato – così come quelli verso l’alto, Dio e il destino; perse la consapevolezza della propria dignità divina e della propria anima immortale. Non gli restò che la ragione calcolante; se quest’ultima constatava che l’esistenza empirica era cattiva, allora la si poteva modificare così come si sposta un mobile che sta tra i piedi. La storia divenne tradimento, il mito superstizione, e, una volta convertito il mondo intero, avrebbe avuto inizio lo stato utopico, scaturendo da un calcolo razionale.
Ma anche tra i pensatori cristiani, quali Bossuet o Selden, le cose non erano molto diverse. O lo stile della superiorità di Dio era tale da manifestarsi solo nei suoi incontri esclusivi con Luigi XIV, cosa del tutto infruttuosa, oppure, ed era questa la sua caratteristica saliente, la Provvidenza era pressoché identica alla ragione umana e faceva uso di mezzi meccanico-razionali: per esempio, era accaduto che un profeta ebraico dovette recarsi ad Atene e fu così che Platone divenne parte integrante del suo sapere.
Del tutto da solo, “sempre più isolato dietro di sé come davanti a sé”2, Vico cerca la via divina nella storia: lo fa nel solco della tradizione stessa, nella lingua e nel mito, nella religione e nella storia del diritto. Eppure, prima di cominciare dovette creare i presupposti affinché gli fosse dato ascolto. Nacque così la sua opposizione a Descartes, che gli sembrava a ragione l’intellettuale dominante dell’epoca. Iniziò, spaventato e umile, ad avanzare alcune riserve sulle conseguenze pratiche del razionalismo (in De nostri temporis studiorum ratione, 1708)3.
È davvero giusto, si domanda Vico, insegnare ai fanciulli il primum verum e la logica ancor prima che dispongano di un’esperienza cospicua a cui applicarli? La fantasia e la memoria sono la prima espressione del talento umano. Sulla loro base si costruisce il sensus communis, ovvero la capacità di afferrare e formulare il molteplice: è allora necessario per ogni fenomeno ricavare possibilmente tutte le cause e non, viceversa, ricondurle tutte a una. Nel secondo caso si pecca d’inettitudine, approdando a quella sofistica vuota e arrogante che tutto dimostra e nulla sa. La naturale conseguenza è sotto gli occhi di ognuno: la poesia e la storia, l’eloquenza e il diritto vanno in pezzi, mentre le scienze naturali hanno raggiunto i propri grandiosi risultati grazie al metodo empirico di Bacone, non tramite quello geometrico di Descartes. Si pensa forse di giovare alla medicina, usandolo? Il sillogismo non fa bene a nessun malato. E alla meccanica, alla fisica? In questo frangente, agli occhi di Vico “i fisici contemporanei rassomigliano a coloro che hanno ereditato un edificio dove nulla manca quanto a lusso e comodità e che perciò possono soltanto cambiare la posizione dei mobili o abbellire l’edificio con qualche leggera modifica secondo la moda del tempo”4. Il metodo geometrico può dimostrare ciò che è già stato scoperto, non può scoprire5, e quando ci si prova lo stesso in spregio alla probabilità (l’esperienza) per dedurre fatti nuovi in chiave geometrica, ecco che crolla il fondamento stesso delle scienze naturali. Questo perché la natura non si dimostra. E ora arriva l’importante frase in cui si annida tutto Vico: “Geometrica demonstramus, quia facimus; si physica demonstrare possemus, faceremus”6.
Due anni più tardi, nel 1710, segue il suo attacco di principio al presupposto cartesiano della coscienza razionale7. Cogito, ergo sum: in tal modo Descartes crede di passare dal dubbio alla verità. Nessuno scettico potrà mettere in discussione il fatto di pensare e di essere: si tratta senza dubbio di un fatto universalmente noto. Ne è convinto persino Sosia nell’Anfitrione di Plauto, qui citato da Vico; ma se la coscienza esiste, significa anche che è vera? È una verità scientifica? Al che lo scettico ribatterebbe: “Scire enim est tenere genus seu formam, quo res fiat; conscientia autem est eorum quorum genus seu formam demonstrare non possumus”8; e anche se pensiamo in maniera conscia, non conosciamo la causa del pensiero, né come si è originata. Se chiediamo ai cartesiani, ecco che precipitano nell’imbarazzo, in quanto la relazione tra corpo e anima è il loro punto debole (“illaeque spinae in quas offendunt et quibus mutuo compunguntur subtilissimi nostrae tempestatis Metaphysici”9). Ma forse il cartesiano intende dire che la scienza dell’essere si può ottenere dalla consapevolezza del pensare? La scienza, tuttavia, può solo scaturire da qualcosa di indubitabile, non dalla mera coscienza. Sapere significa conoscere con certezza le cause grazie alle quali nasce una cosa: “at ego qui cogito, mens sum et corpus: et si cogitatio esset causa quod sim, cogitatio esset causa corporis”10. Il pensiero non è causa dell’essere, bensì solo signum o techmerium che io possiedo una mente.
Descartes incappa, a detta di Vico, in uno scambio tra esse ed existere. Existere significa essere scaturiti da qualcosa, fondarsi su qualcosa (star sovra); l’altra cosa su cui ci si fonda è la sostanza (star sotto), e l’essentia dipende solo da questo. Quindi Descartes avrebbe dovuto dire: cogito, ergo existo: penso quindi ho un’esistenza, mi fondo su qualcos’altro che è, che esiste in sé e ha essentia. Dalla propria existentia segue quindi l’essentia (non l’existentia) di Dio11. In un’altra occasione, Vico esprime così il proprio modo di vedere: se si parte dal presupposto, con Malebranche, che Dio produca le idee dentro di noi, allora andrebbe detto: “Quid in me cogitat, ergo est; in cogitatione autem nullam corporis ideam agnosco: id igitur quod in me cogitat, est purissima mens, nempe Deus”12.
Con questo rifiuto della coscienza cartesiana e la chiara conclusione che ne consegue, l’intero sistema delle scienze contemporanee ne esce scosso. È la fine del primato della ragione. La scoperta di Dio sulla base della ragione è ὕβϱις, quindi Dio diventa un presupposto dogmatico. Viene a mancare la superiorità delle scienze deduttivo-analitiche nei confronti della tradizione e dell’esperienza: ogni conoscenza è parimenti incompiuta, coscienza e non scienza, certum o probabile, ma non verum. I confini eretti da Descartes sono crollati: dato che ogni cosa è indimostrabile, la via è libera per la speculazione, per lo scetticismo, per il dogmatismo ecclesiastico. Lo stesso Vico trae prima di tutto la conseguenza che gli sta più a cuore: ci si può occupare di filologia e storia, di sociologia e dei suoi fondamenti, le scienze dell’autorità, senza attirare a sé l’accusa di ascientificità; questo perché qualsiasi conoscenza umana è, in termini rigorosi, non scientifica. Fa un’unica eccezione per la matematica, in apparente sintonia con Descartes; ma solo apparente. Per vie traverse e bizzarre approda a una conclusione caratteristica nonché determinante per tutto il suo stile di pensiero.
Il presupposto dogmatico che solo Dio abbia essentia e solo lui possa al contempo capire di essere il creatore di tutto lo conduce alla relazione tra creare e conoscere con certezza. Si può conoscere con certezza solo ciò che si crea personalmente; dato che Dio ha creato la totalità delle cose, abbraccia con lo sguardo anche la totalità delle cause e dei nessi; così in lui actus, voluntas e intellectus sono indissolubilmente legati; l’essere umano invece, con l’aiuto della topica, nella migliore delle ipotesi riesce a scoprire in maniera frammentaria qualche elemento delle cose, qua e là; la sua capacità di scoperta non è intelligere, non si verifica senza impulso (sine conatu) né a colpo d’occhio (uno visu); si tratta di un cogitare, un ratiocinari13. In tal modo Vico riesce a far collimare verum e factum. Nel latino antico le due parole avevano il medesimo significato, e in Dio sono complete: è il Verbum della teologia cristiana. Ne segue che, come già si accenna nel suo primo scritto, gli uomini non sono fondamentalmente in grado di conoscere la natura. Dio l’ha creata, e solo lui può farlo.
Finora Vico si è dimostrato molto coerente, ma a ben vedere poco originale: è un fervente cattolico che si oppone all’arroganza razionalista assai influenzata dal pensiero antico e da Bacone. Prima di lui, già Sánchez aveva espresso il pensiero Verum ipsum factum14. Ora però le cose cambiano. Vico non si ferma, come fanno tutti, al dogmatismo ecclesiastico, anzi, l’identità di creare e conoscere con certezza assurge a fruttuosissimo criterio gnoseologico e finisce per fornirgli il fondamento razionale delle sue speculazioni storiche. In tal modo Vico ha realizzato più di quanto avesse mai osato sperare all’inizio della sua carriera di scrittore. A suo tempo aveva infatti definito la natura hominum come omnium incertissima15.
Se l’essere umano vuole conoscere (per causa scire) la verità, allora gli sarà possibile solo laddove egli stesso crei le cose che va a conoscere con certezza. Così Vico approda alla dottrina del primato della matematica16. Mediante l’astrazione, il matematico conquista il punto geometrico e l’uno algebrico che in natura non esistono, sono utrumque fictum; questo accade poiché il punto è privo di estensione, eppure parte della retta estesa o del piano; l’uno non è numerus, bensì virtus numeri. Il matematico definisce il punto e l’uno, e attraverso la moltiplicazione simula il mondo delle forme e dei numeri una volta accordatosi con certi presupposti. Così crea e conosce allo stesso tempo, e la sua conoscenza è verità.
Una cosa salta subito agli occhi: questo fondamento della matematica non ha nulla a che vedere con quello cartesiano. Per giunta, Vico si scaglia più volte, espressamente, contro la clara et distincta idea, “perché nell’atto di conoscersi la mente non si fa e, non facendosi, ignora il genere o il metodo in cui si conosce”17. Croce18 dubita che Vico facesse sul serio con questa sua predilezione per la matematica. Sostiene a ragione che la particolare posizione della disciplina si fonda non sulla verità, bensì sull’arbitrarietà: l’astrazione e la definizione del punto e dell’uno non vengono affatto rappresentate quali necessarie; i principi sono mero accordo; e allora qui non si mette in risalto una ricchezza, ma una povertà. L’essere umano cui è negato l’accesso a tali cose si diverte con i nomi, simula proprio iure un sistema a partire da essi; e questo castello di carte costruito sul nulla dovrebbe essere pura verità, scientiae divinae simile, soltanto perché è stato eretto da lui. L’essere umano prende l’uno e lo moltiplica; prende il punto e fa dei disegni; così tende come Dio (ad Dei instar) all’infinito; e così si elimina il vizio dell’umana conoscenza (vitium mentis) in base al quale essa vede le cose sempre fuori da sé e non riesce mai a conoscerle come vorrebbe. Su una tale deduzione si allunga, a detta di Croce, un’ombra d’ironia. Che, magari non proprio voluta, scaturisce autonomamente.
Noi non crediamo questo. Il modo di pensare di Vico era molto realistico; nella sua opera, i confini tra astrazione logica e realtà metafisica si confondono spesso; inoltre, ci pare che qui emerga in maniera definitiva e oggettiva qualcosa d’importante nel suo pensiero. Se Dio si rapporta alla cosa in sé come la conoscenza umana ai fenomeni, cioè producendola in chiave creativa – allora questo è fenomenismo kantiano, e ciò è incluso in tutta evidenza nella formulazione vichiana della matematica. Eppure nel suo caso si parla di astrazioni, non di fenomeni: l’autore non riesce a seguire la pista fino alla fine. Chiamando la matematica scientia operativa, Vico si avvicina molto alla scoperta che è una scienza pratica. Ma Vico non conosce le idee a priori, per cui deve motivare metafisicamente l’apoditticità della matematica mediante astrazioni, cosa davvero difficile per un nemico del razionalismo. Vico non ricono...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Nota dell’editore
- Frontespizio
- Colophon
- Indice
- Il paradosso di Auerbach di Guido Mazzoni
- Letteratura mondiale e metodo
- Vico, storicismo e filologia
- Spitzer Olschki Curtius Wellek