
eBook - ePub
Non è triste Venezia
Pietre, acque, persone. Reportage narrativo da una città che deve ricominciare
- 232 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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Non è triste Venezia
Pietre, acque, persone. Reportage narrativo da una città che deve ricominciare
Informazioni su questo libro
"A Venezia esistono le condizioni per prefigurare un organismo urbano del futuro: perché non cresce e non consuma suolo, perché non spreca risorse, perché riusa tutto (dall'acqua ai materiali edili) e si è sempre ricostruita su sé stessa, utilizzando moduli costantemente replicabili e mai monotoni, perché insegna la manutenzione, perché è ospitale, multiculturale e multietnica, perché si circola senza macchine, perché coltiva gli spazi pubblici, perché anche gli elementi più privati di un edificio hanno una dimensione pubblica, perché ha conservato per secoli (tranne che nell'ultimo) un'eccezionale relazione fra il costruito e il suo ambiente, cioè la Laguna."
Francesco Erbani passeggia per calli e campielli e poi al Lido in sella a una bicicletta, osserva l'Hotel des Bains attraverso le grate del cancello, guarda le navi da crociera seduto su una panchina alle Zattere...
E ricostruisce la trama intima di una delle città più celebrate al mondo: le architetture, l'assetto urbano, le facciate dei palazzi che si specchiano nei canali, i campi dove si realizza un ideale di spazio pubblico;e poi il Mose, colossale, costosissimo progetto che non si è certi se funzionerà e che è stato oggetto di un'inchiesta giudiziaria; la Laguna maltrattata e snaturata; la dimensione civica minacciata da un turismo incontrollato e pervasivo, dallo spopolamento, e che tuttavia resiste, rivendica la propria specificità, una storia di saperi e di manualità, e si sente inclusiva e accogliente, a misura dei soggetti più deboli.
Venezia rischia di diventare il non luogo per antonomasia, quello ricostruito a Disney World, a Las Vegas o a Macao, ed è invece profondamente autentica, città più di altre città, un territorio unico e al tempo stesso esemplare che può costituire un modello di inclusione sociale e di progettazione urbana.
Dietro i mille sistemi complessi e affascinanti che Venezia ha trovato per vivere con la sua inedita morfologia, Erbani mette sempre al centro l'uomo.
Un libro per capire che cosa si perde se si perde Venezia.
Domande frequenti
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Informazioni
Mangiata dal turismo
L’ovovia è una sfera irregolare, in parte metallica, in parte a vetri, appiattita su un lato. La parte metal-lica è color amaranto. È agganciata al ponte della Costituzione, sulla fiancata destra, per chi lo imbocca dalla stazione di Santa Lucia. È lì, a pochi metri dal punto in cui il ponte si appoggia sulla fondamenta. La condensa rende opachi i vetri, sui quali sono appiccicati tantissimi adesivi, alcuni sberciati, altri appena appena visibili. L’interno si distingue a malapena. Devono esserci, mi pare di capire, un cruscotto con dei comandi, una panca e una piattaforma semovente. Dovrebbe ospitare due persone. È costata 1.632.000 euro, ma non è servita a quello cui sarebbe dovuta servire: trasportare al di là del canale una persona disabile, impossibilitata a percorrere il ponte, e un suo accompagnatore, scorrendo su una rotaia sistemata lungo la fiancata del ponte stesso.
Consentire l’attraversamento alle persone disabili era un obbligo di legge, previsto anche da una normativa europea. Ma nessuno si preoccupò di farlo rispettare e neanche ci pensò chi stava progettando il ponte. Si realizzò l’ovovia in gran fretta quando il ponte era già completato. Ora gli adesivi, i vetri sporchi e alcune tracce di ruggine sottolineano quanto questo aerodinamico attrezzo abbia sofferto vita stentata. E, non avendo mai sufficientemente assolto ai compiti cui era destinato, sia velocemente scivolato, dopo un decennio di esistenza, a reperto di archeologia tecnologica, godendo persino di un vezzeggiativo: l’ovetto.
L’ovovia del ponte disegnato da Santiago Calatrava e completato nel settembre del 2008 (sindaco Massimo Cacciari) è diventata un’inattesa attrattiva. Alcuni di coloro che arrivano a Venezia con il pullman, sbarcati in piazzale Roma, infilano il ponte di Calatrava (pochi veneziani gli riconoscono la denominazione che gli sarebbe propria, ponte della Costituzione, preferendo designarlo con l’attribuzione all’architetto di Valencia) e, superato l’impatto con la sua forma slanciata e curvilinea, non resistono allo choc prodotto dall’ovetto. E prendono a fotografarlo, convinti di rubare un’immagine che rientra assai poco nel canone veneziano e che va dunque catturata.
Storia piena di traversie quella dell’ovetto, vissute in sintonia con le peripezie capitate al ponte e rimaste scolpite nella memoria dei veneziani (un utilissimo resoconto di esse lo trovo in Il ponte di debole Costituzione, scritto nel 2011 da Nelli-Elena Vanzan Marchini, e pubblicato nella collana “Occhi aperti su Venezia” della Corte del Fontego). Ha funzionato poche volte e almeno dal 2016 mai più. Problemi con le batterie, con l’inclinometro, con le eccessive vibrazioni. Problemi per il caldo insopportabile patito d’estate da chi saliva a bordo. Problemi con Calatrava, che mai l’avrebbe voluto. E poi problemi d’ordine politico-amministrativo: assumere una decisione sull’ovovia, dalla sua riparazione al suo smantellamento, avrebbe comportato una spesa che si sarebbe aggiunta a quella per realizzarlo, che già era più che doppia rispetto al preventivo e comunque esorbitante visto il risultato, e sulla quale pendeva la minaccia di un’accusa di danno erariale formulata dalla Corte dei Conti. Dunque l’ovetto resta lì, strapagato, ma rassegnato, bersaglio dell’umidità, usato come bacheca di adesivi e triste fondale di un selfie.
Il ponte di Calatrava, fabbrica inquieta, infinita e strapagata anch’essa (12 milioni ai quali potrebbero aggiungersene altrettanti se non di più reclamati dall’impresa che l’ha realizzato), flagellato dagli indesiderati effetti statici, dalle cadute per scivolamento, contestato per la misura dei gradini, per i materiali utilizzati, per i corrimano arroventati dal sole, ha un posto di rilievo, una specie di poltrona in prima fila nello spettacolo del turismo veneziano. In quanto oggetto del turismo e in quanto suo strumento. Mette infatti in connessione due punti nevralgici: piazzale Roma, dove si fermano molti pullman, dove le auto vengono ricoverate in un grande parcheggio e dove giunge il people mover, un trenino volante che parte dal Tronchetto, altro terminal per le auto e per i pullman; e la stazione di Venezia Santa Lucia, dal cui piazzale parte la lunga via che a un certo punto si chiama Strada Nova e che immette verso San Marco. È un fascinoso, svolazzante magnete che distrae chi arriva in piazzale Roma dagli altri possibili accessi a Venezia, li cattura con le sue forme sinuose, con una vistosa pretesa tecnologica e si propone come il più seducente, modernissimo viatico per visitare la città storica. Qualcuno potrebbe infilarsi nei giardini Papadopoli, proprio di fronte alla fermata dei pullman e da lì, superata la chiesa di San Nicolò dei Tolentini, raggiungere i Frari, campo San Polo e via di seguito. Come si poteva fare prima che venisse costruito il ponte di Calatrava. Ora si può sempre scegliere questo itinerario, ma il ponte ha una potenza figurativa invincibile al fine di conquistare il centro della città storica.
Ma prima della città storica, toccata l’altra sponda del Canal Grande, ecco uno spazio commerciale, “il più grande polo cittadino per lo shopping e i servizi”, recita un’informazione pubblicitaria, l’unico vero centro commerciale in città alla portata di un consumatore medio, con una trentina fra negozi, bar e ristoranti (ma anche alcuni spazi vuoti). Sorge nei locali a pianterreno di un edificio che era delle Ferrovie dello Stato, poi ceduto alla società Grandi Stazioni (nel cui capitale era presente il gruppo Benetton) e da questa prima affittato e poi venduto alla Regione Veneto con una sostanziosa plusvalenza.
Il ponte di Calatrava sembra uno scivolo che immette nel centro commerciale della stazione, tanto che negli anni scorsi molti veneziani non lo intitolavano né alla Costituzione né al progettista spagnolo: era il ponte Benetton. Un ponte, il quarto sul Canal Grande, dopo quello dell’Accademia, di Rialto e degli Scalzi, che sorge ad appena poche centinaia di metri da quest’ultimo e che, sintetizza l’urbanista Eddy Salzano, «fa risparmiare sì e no tre minuti nel tragitto fra piazzale Roma e Strada Nova». Ma che, soprattutto, induce i turisti, gettato uno sguardo alle vetrine del centro commerciale, a ingolfarsi lungo l’asse che li porta a San Marco. Il ponte suggerisce un tragitto, lo rende appetibile, e un po’ lo impone. E così Venezia s’intasa.
In tanti, a Venezia, hanno raccontato il profilo urbanistico del ponte di Calatrava e i suoi effetti, chiamiamoli così, distributivi (ho già citato il volumetto di Nelli-Elena Vanzan Marchini, al quale va affiancato un altro titolo della collana “Occhi aperti su Venezia”, Benettown, di Paola Somma). Ma a renderli plastici, quegli effetti, sono arrivati i tornelli. Proposti in via sperimentale, nelle intenzioni del sindaco Luigi Brugnaro, i tornelli – strani attrezzi in metallo nero traforato, simili a cestini per le cartacce, ma in una forma allungata – dovevano servire a regolare i flussi turistici del primo lungo week-end della primavera 2018, fra il 25 aprile e il Primo maggio. Se il numero di turisti fosse stato eccessivo, i tornelli sarebbero stati chiusi, e i turisti dirottati su altri percorsi. Ma non ce n’è stato bisogno. In ogni caso: dov’era sistemato il primo dei due gruppi di tornelli? In piazzale Roma, ai piedi del ponte di Calatrava, a pochi metri da dove mi trovo, nel punto considerato dunque la vera porta d’accesso alla città.
E, a completare il proprio circuito simbolico, ecco che il ponte diventa anche luogo del conflitto. È qui, infatti, che i militanti del centro sociale Morion hanno organizzato una manifestazione e i tornelli li hanno smontati, esponendo striscioni con su scritto: “Ci servono case, non check point. Venezia non è una riser-va, non siamo in via d’estinzione”. Poi sono arrivati i vigili e hanno rimesso in piedi i tornelli. Erano utili, erano inutili i tornelli? Il sindaco Luigi Brugnaro ritiene riuscito l’esperimento e annuncia che in estate i tornelli sarebbero tornati e sarebbero rimasti a lungo.
Come spesso le accade, Venezia si affaccia sulle cronache nazionali e nei servizi televisivi, rimbalza in rete e sui social quando succede qualcosa a valle. L’asfissia da turismo risalta quando uno sconsiderato si denuda e si tuffa in acqua da un ponte, compreso quello di Calatrava. Oppure quando si adottano mi-sure, come i tornelli, che si segnalano perché anomale e bizzarre. Si accendono i fari, ma ventiquattr’ore dopo si spengono, si zittisce il clamore e la lunga durata dell’asfissia da turismo resta inesplorata.
Osservo il ponte di Calatrava pochi giorni dopo l’episodio dei tornelli, ora rimossi. È una mattina di metà settimana, calda, soleggiata e sul ponte passa un fiume di persone, da una parte e dall’altra. La prova, per chi l’ha voluto e lo difende, di quanto sia funzionale e di quanto serva anche in direzione piazzale Roma, dove ad accogliere chi lo percorre c’è un capiente supermercato della Coop. Il ponte non ha forme né sgradevoli né pretenziose. Ma non è l’estetica in questione. Il ponte mi pare un segno tangibile, persino sottolineato dall’architettura di qualità, oltre che dal suo costo e dall’ostinata, travagliata storia costruttiva, di come le trasformazioni in atto a Venezia siano dettate in larga misura dal suo adattarsi alla pressione turistica.
Non è il turismo che si adegua alla città. È la città che si dispone per il turismo. Il turismo si siede al tavolo dove si pianifica la città, e alza la voce quando c’è da definire i percorsi, disegnare i tracciati, stabilendo fra loro una gerarchia, come per il ponte di Calatrava. Detta regole per la destinazione di un intero edificio o di un appartamento, mettendo sul piatto la convenienza di un uso piuttosto che un altro. Fissa un decalogo dei palazzi da vendere e uno delle merci da vendere, propone i propri gusti per le vetrine e le insegne. Delibera la fine delle panetterie e la nascita dei take away. E poi compie un salto di scala: si presenta come il principale imprenditore della città, la più ospitale, accogliente, energica delle industrie e mette la sordina a tutti.
Poi quando a valle la città si blocca cresce l’allarme, si sollevano le proteste ed ecco i tornelli, ecco ripetere l’invocazione di un ticket d’ingresso. Ecco introdotti gli accessi riservati ai residenti sui vaporetti, le norme più rigide per salvaguardare il decoro urbano, il divieto d’indossare abbigliamento succinto nei luoghi monumentali, ecco i provvedimenti contro le intemperanze notturne, contro la vendita di prodotti contraffatti e contro il cibo take away, una pratica che induce molti a consumarlo ovunque disperdendo rifiuti a casaccio.
Guardo chi attraversa il ponte partendo da piazzale Roma, ma non mi riesce di misurare quanti siano quelli che entrano a Venezia per lavorare o studiare e quanti i turisti. I trolley sono un indicatore, insufficiente però a quantificare la gran parte di chi visita Venezia, cioè gli escursionisti, chi ha pernottato a Mestre o in un territorio che ora arriva fino a Padova e a Vicenza, e che a Venezia trascorrerà cinque, sei ore. Altro indicatore: il gruppo. Altro indicatore ancora: l’abbigliamento. Oppure: l’andatura. Mi fermo prima di precipitare in un’odiosa lettura fisiognomica. E anche perché il valore statistico di questa indagine è simile allo zero.
D’altronde, sebbene sul ponte sembrino di gran lunga la maggioranza, i turisti che arrivano a Venezia non sono misurati da un contatore ufficiale, verificabile e preciso. Da tempo se ne cerca uno. Intanto si dedica a quantificarli un professore veneziano che insegna negli Stati Uniti, al Worcester Polytechnic Institute, dopo essersi laureato al Mit. Si chiama Fabio Carrera, è un ingegnere elettronico, esperto però di Urban Planning. Nel 1988 Carrera ha fondato il Venice Project Center e compie studi di varia natura sulla città lagunare. Si è occupato di moto ondoso e di trasporti sull’acqua. E ha messo a punto un sofisticato sistema per contare, in diretta, giorno per giorno, gli arrivi e le presenze. Si chiama Dashboard, cruscotto. Quanto sia attendibile non lo so.
C’è chi dice che contare i turisti è necessario, ma che è sufficiente gettare un occhio su Riva degli Schiavoni in un pomeriggio di luglio per provare una fitta claustrofobica. Oppure basta scrutare l’agitarsi delle onde in Canal Grande, alla Giudecca o in bacino San Marco, un moto perpetuo prodotto da barche a motore di tutte le dimensioni che s’incrociano pericolosamente con i vaporetti dell’Actv, l’azienda municipalizzata dei trasporti, e ne ostacolano l’attracco ai pontili.
Venezia e la Laguna erano l’ambiente ideale per il remo. Poi sono venuti il vapore e poi il motore. Passaggi ineludibili, certo, che però hanno imposto, a Venezia e alla Laguna, uno stress grandissimo, soprattutto perché questi mezzi sono incuranti delle norme, delle regole, dei limiti, dei divieti che via via si è cercato di fissare. Il moto ondoso è provocato in parte dal trasporto di cose e di merci, in massima parte dal traffico turistico e da quello altolocato, in specie. Le conseguenze le trovo esposte da Giannandrea Mencini in Fermare l’onda, uscito nella collana “Occhi aperti su Venezia” della Corte del Fontego. E sono: la messa ai margini della navigazione a remi, un’antica tradizione che l’ostinazione di alcuni giovani (come quelli che hanno dato vita a Venice on board) tenta di riproporre; lo sconvolgimento della morfologia lagunare; il dissesto di rive e fondazioni di edifici.
Basta l’osservazione empirica, è vero. Ma non si può non rimpiangere le accurate indagini sul turismo che compiva il Coses, l’ultimo dei quali credo risalga al marzo del 2009, autori Isabella Scaramuzzi, Giuseppina Di Monte, Cristiana Pedenzini, Giovanni Santoro. Il Coses era, l’abbiamo visto, un istituto del Comune di Venezia, dunque pubblico, che per anni ha redatto rapporti sulle questioni cruciali della città, dalla residenza al turismo, appunto. Poi, per motivi di bilancio, il Coses ha smesso di funzionare. E al Comune di Venezia non è stata più avvertita la necessità di analizzare in maniera articolata e con strumenti d’indagine accurati il fenomeno turistico. E dunque mancano numeri con il bollino dell’ufficialità. Il rap-porto del Coses garantiva conteggi affidabili e inoltre mirava a fondare un sistema di prenotazioni sulla base di una serie di variabili, via via aggiornate e registrate su una piattaforma informatica, tutte però legate a un principio di sostenibilità: quanto flusso di visitatori, cioè, la città, i suoi servizi, i suoi musei, le sue calli e i suoi campi erano in grado di sopportare senza soffocare. Prenotazioni a monte, dunque, e non tornelli a valle.
Un’indagine finalizzata a questo obiettivo era stata compiuta nel 1988 da Jan Van Der Borg e Paolo Costa, entrambi docenti di economia e di economia del turismo in particolare. Essa fissava una capienza massima giornaliera di 20.750 turisti (13.000 pernottanti, 7.750 escursionisti), pari a un totale di presenze annue di 7,5 milioni di turisti. Successivamente Costa, in uno studio del 2002 presentato all’Unesco, rivedeva le soglie al rialzo e le fissava in 22.000 presenze giornaliere per un totale annuo di 8 milioni. Secondo il Coses, il limite massimo, invalicabile, era di 35.000 presenze giornaliere per un totale annuo di 13 milioni. Nel giugno del 2018 Jan Van Der Borg sollevava nuovamente l’asticella e la poneva a quota 55.000 giornalieri, 19 milioni annui.
I dati del Coses si riferivano al 2007, anno in cui i turisti a Venezia venivano stimati in 21.604.000, molto oltre il limite di sostenibilità. La media era di 59.000 persone ogni giorno – una media che va però articolata fra periodi caldi o caldissimi, da aprile a ottobre, più il Carnevale, Natale e Capodanno, e periodi freddi. Le fonti alle quali il Coses attingeva erano le Ferrovie dello Stato, l’aeroporto, il porto, il parcheggio di piazzale Roma, le agenzie che muovevano i bus turistici, l’Actv. Dei visitatori, aggiungeva il Coses, coloro che non dormono a Venezia, gli escursionisti, erano poco più di 12 milioni. Già allora, il numero medio dei turisti giornalieri era pari a quello dei residenti. Il Coses poi ai residenti e ai turisti aggiungeva chi a Venezia arrivava per lavoro o per studio e così si toccava una quota, sempre media, di 143.000 persone al giorno.
Senza dati certificati, i numeri oscillano, anzi danzano come palline impazzite in un tubo di vetro. Nel 2014 i visitatori, stando ad altre fonti, sarebbero saliti a 26 milioni, con una media di 74.000 ogni giorno. Paolo Lanapoppi, autore di Caro turista, un altro dei volumetti di “Occhi aperti su Venezia”, ex professore di letteratura italiana negli Stati Uniti, consigliere di Italia Nostra, ritiene che questi dati siano sottostimati e ne propone altri: nel 2007 i visitatori sarebbero stati 28 milioni, che nel 2014, calcolati sulla base di proiezioni, sarebbero diventati 30,25 milioni. 77.000 al giorno il numero stimato nel giugno 2018 da Jan Van Der Borg, per un totale di 28 milioni e poco più.
Chi volesse, quel rapporto del Coses del 2009 può recuperarlo in rete, confrontare i dati con altre fonti, valutarne la profondità d’indagine. Scoprendo, per esempio, che già nel 2005 si notava come accanto agli alberghi si andassero moltiplicando altre forme di ospitalità, le case o le camere date in affitto o i bed & breakfast, e che questo trend avrebbe prodotto, appena tre anni dopo, il raddoppio dell’extralberghiero. Altro dato interessante: diminuivano nettamente le prenotazioni negli alberghi da 1 a 3 stelle, perché chi s’indirizzava verso quella fascia di ospitalità trovava assai più conveniente affittare un piccolo appartamento. E ancora: la distribuzione dei posti letto si sovrapponeva alla mappa dei luoghi veneziani più frequentati. Il 31% dei posti letto era a San Marco, il 21 a Cannaregio, il 19 a Castello. Alla Giudecca c’era il 9%, l’8 a Dorsoduro, l’8 a Santa Croce, il 4 a San Polo. Proporzionalmente alla superficie, in testa svettava San Marco, seguito da Santa Croce e Cannaregio. Chiusi i rapporti del Coses, dal 2011 il Comune ha preso a pubblicare un Annuario del turismo. Poche analisi, pochi rilevamenti statistici, poche interpretazioni. Al loro posto tante tabelle. E un limite di fondo: per l’Annuario, il turismo conteggiato è solo quello di chi si ferma almeno una notte. Secondo questa fonte, gli arrivi nella città storica sono stati nel 2016 2,9 milioni (2,1 milioni in alberghi e 770.000 in strutture cosiddette complementari), le presenze 7 milioni (4,9 milioni in albergo, 2,1 nell’extralberghiero). La durata media della permanenza: 2,5 giorni.
L’Annuario restituisce anche una fotografia di quelle che chiama strutture complementari. Limitandosi, ovviamente, a quelle regolarmente dichiarate. Su un totale di 34.000, ben 16.000 posti letto non sono negli alberghi. Di questi, la metà si trova in interi appartamenti.
L’extralberghiero cresce, cresce in maniera tumultuosa. Una parte è regolarizzata, una parte no. Quanto sia consistente il sommerso non è facile stabilirlo. Mi torna in mente il racconto che faceva Alessia. Sembra comunque una fiumara che scorre sotto la città e che alimenta una percezione vissuta dai veneziani con un senso di allarme, di costernata frustrazione. A molti pare che la fiumara debba esondare dai tombini come l’acqua alta o dalle vere dei pozzi e dilagare nei campi. Ad altri sembra invece come se qualcuno stesse rosicchiando i milioni di pali conficcati nel caranto che reggono le fondazioni degli edifici. Gli abitanti diminuiscono, aumentano i visitatori. Hai visto, sento dire da Rosa Salva, uno degli storici bar di campo San Giovanni e Paolo, proprio qui sopra, ci abitavano e ora non ci abita più nessuno. L’appartamento è ristrutturato, arredamento essenziale. Lo affittano per 2.000 euro a settimana. È su internet.
Ma sono la trasformazione di tanti appartamenti e l’affitto ai turisti la causa diretta del calo dei residenti? Su questo punto le opinioni che ho sentito divergono. Nel rapporto del 2009, il Coses sostiene che non c’è una dipendenza secca dell’un fenomeno dall’altro. È vero, si aggiunge, che le serie storiche dell’aumento di turisti e della diminuzione degli abitanti procedono quasi sincronicamente. Ma non c’è la prova che la crescita di visitatori espella residenti. Poi, adottando una formula sprezzante che stona bruscamente con il rigore delle analisi, si dice che queste sono considerazioni da bar. In effetti da tempo il calo dei residenti è da addebitarsi principalmente al saldo demografico, la differenza fra quanti muoiono e quanti nascono. E il turismo dunque non c’entra. Ma non si può dar torto a chi sottolinea che fra i tanti motivi che scoraggiano una giovane coppia a risiedere a Venezia, e che fanno lievitare l’età media dei residenti, c’è che ci sono poche case in affitto e quelle che ci sono costano tantissimo, essendo il mercato tarato sulle locazioni turistiche.
I dati sugli appartamenti affittati a breve o a brevissimo termine li abbiamo visti. Secondo Inside Airbnb, su uno stock di circa 9.000 abitazioni non occupate stabilmente da residenti, su un totale di quasi 40.000 in città, più di 4.600 a maggio 2018 si proponevano come affitto turistico solo sulla piattaforma di Airbnb (sarebbero invece oltre 6.500 stando a un altro portale, Airdna). Altre si rintracciano attraverso agenzie. Il loro numero aumenta quotidianamente, come documenta Ins...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Sommario
- Prologo
- La città ideale
- La Laguna maltrattata
- Senza abitanti
- Mangiata dal turismo
- Una città di crociera
- Il Mose, uno scandalo infinito
- La città che resiste
- Eddy