1998
11 gennaio, domenica
Alla vigilia del processo in Corte d’Assise, fissato per martedì 13 gennaio, una nuova e sofisticata perizia balistica si va ad aggiungere agli indizi che pesano sulla posizione di Ivan Cella. Presso il Ris, Centro di investigazioni scientifiche dei Carabinieri a Parma, con una micro spettrofotometria a raggi infrarossi sono stati comparati i frammenti di plastica recuperati nel cranio di Giuliano Guerzoni con quelli, infinitesimali, reperiti nella canna della calibro 38 sequestrata nella casa di Cella, a Susa. Il responso: entrambi i frammenti sono costituiti dal medesimo polimero. Non basta: sono state analizzate e comparate due ogive di cartuccia calibro 38 special shotshell della Blount Sporting Inc. (un proiettile particolare che Cella usava con quel revolver) e in base alla fluorescenza e al colorante è stato dimostrato che i due reperti sono sovrapponibili. È la prova, secondo la Procura, che la Smith & Wesson di Cella è stata l’arma che ha ucciso Giuliano Guerzoni.
I difensori si preparano a dare battaglia anche su questo punto: è una tecnica, dicono, che non è mai stata usata finora per un accertamento giudiziario. Aggiungono che il loro assistito attende il processo “consapevole della gravità della sua situazione”.
Per quanto riguarda l’altro principale imputato, Domenico Cante, i suoi difensori hanno depositato in cancelleria l’elenco dei testi a difesa; da esso si deduce che a un detenuto Giorgio Arimburgo avrebbe confidato di aver ricevuto un miliardo e 200 milioni e non 135 come l’imputato ha sempre sostenuto. Quei soldi sarebbero serviti in parte per ricompensare “l’organizzazione”. Il resto doveva andare in Costarica, meta finale di Guerzoni e Ughini.
13 gennaio, martedì
A Torino inizia il processo in Corte d’Assise, presieduta da Costanzo Malchiodi. I pubblici ministeri Boselli e Malagnino svolgono la loro relazione introduttiva con la quale per due ore e tre quarti ricostruiscono nei dettagli le modalità del furto e del delitto.
L’avvocato Antonio Forchino, difensore di Domenico Cante, protesta, con un tocco di autoironia che il presidente preferisce non rilevare: “Signor presidente, questa è una requisitoria finale secondo la mia valutazione, sempre di persona che non capisce niente di questo codice, come lei sa. Ma mi pare che la concisa rappresentazione dei fatti sia una cosa diversa da quello che stiamo ascoltando. Per carità, io sento con rispetto”.
Il presidente: “Ecco, sentiamolo, proseguiamo con questo rispetto a sentirlo”.
La relazione riprende. Maurizio Boselli riconosce a Giuliano Guerzoni una “certa capacità progettuale e anche una sicura ricchezza immaginativa”, confermata dalla sua partecipazione ai concorsi di poesia riservati ai dipendenti delle Poste. Le vite di Guerzoni e di Ughini “hanno tratti comuni, tanto che un esame forse un po’ superficiale li porterebbe a riconoscere come due playboy di provincia, o aspiranti tali, con una forte insofferenza verso gli obblighi del lavoro e della famiglia”. Nel rapporto fra i due appare dominante la figura di Giuliano Guerzoni. Uno è stato testimone di nozze dell’altro; entrambi sono reduci da matrimoni falliti, Ughini da due addirittura, con la nascita di una figlia e poi di un figlio “rispetto al quale vi era stato sostanzialmente un disinteresse mantenuto da diverso tempo”. A Guerzoni va riconosciuta la propensione verso i gesti teatrali, si veda la sveglia trafitta da un coltello, lo statino della busta paga lasciato di proposito in mezzo alla carta straccia dei sacchi, la volontà, tenacemente perseguita attraverso una macchinosa organizzazione, di far avere la sera stessa del furto una sorta di buonuscita alle due donne che gli hanno voluto bene, con un dispendio di tempo prezioso per garantirsi invece la fuga all’estero prima della scoperta del furto.
Secondo il pubblico ministero, Giuliano Guerzoni, per convincere Cante, “che aveva tutto da perdere”, gli aveva garantito un alibi: l’ultimo sacco, il decimo, doveva rimanere intatto, così lo scambista poteva dire: “Con me sul furgone non è successo niente di irregolare”. Invece, per ingordigia, anche il decimo viene aperto ma, data la brevità del tragitto, restano sul blindato 577 milioni in contanti. Senza una distinta che giustificasse la loro presenza. Sarebbe bastato questo dettaglio a far scoprire il furto, se i responsabili dell’ufficio postale di via Nizza avessero compiuto il loro dovere. All’arrivo in via Nizza, Guerzoni, per aiutare in qualche modo Cante, dirà, congedandosi dai colleghi: “Domani non mi vedete, vado ai Caraibi”.
Il pubblico ministero Maurizio Boselli conclude la sua parte di relazione introduttiva e il presidente annuncia: “Sospendo per quindici minuti per dar modo al tribunale di riprendersi”.
Dopo la pausa, rientra la Corte e il presidente dà la parola al “pubblico ministero per la prosecuzione della concisa (sic!) relazione introduttiva”.
È ora la volta dell’altro pubblico ministero, Antonio Malagnino, che riparte dal 13 luglio, il giorno della scoperta dei cadaveri: “Quel sabato 13 luglio, alle ore 13, Domenico Orso Manzonetta passa nei paraggi della sepoltura e nota quel terreno smosso con un piccolo avvallamento su uno dei lati, poi ricoperto questo terreno anche da rami secchi e fogliame. E si insospettisce, ma perché si insospettisce? Uno di noi non si sarebbe insospettito. Perché l’Orso Manzonetta è un ex escavatorista e quindi riconosce questi movimenti del terreno. (Questa per Cante e Cella è pura sfiga!) Si insospettisce, va a casa, ne parla con la moglie e decide poi di andare dai Carabinieri, i quali, molto opportunamente, gli danno retta, si va a scavare e troviamo questi due cadaveri”.
La relazione prosegue con l’identificazione grazie ai documenti contenuti nelle tasche dei morti e “Si arriva al Cella. Perché si arriva al Cella?”, si domanda retoricamente il dottor Malagnino. E si risponde: “Perché, sempre nelle tasche dei pantaloni dei due cadaveri, troviamo delle agende e, tra i vari nominativi, c’è anche quello di Ivan col numero di telefono”. Esiste anche, tra le prove documentali del legame tra i due amici valsusini, una fotografia che ritrae Quaglia, Cella e Cante insieme nel giardino dell’ospedale Mauriziano, pubblicata dalla “Stampa” il 17 luglio ma scattata dal fotografo del giornale il 30 giugno.
Il pubblico ministero riconosce il contributo alle indagini della testimonianza data in perfetta buona fede dalla moglie di Domenico Cante: “Gabriella Regis, che è sempre più stupita che il marito possa essere coinvolto in una vicenda del genere, negli uffici della Procura riconosce come suo il sacco a pelo e, seppure con minore certezza, il plaid. Il sacco a pelo in cui è stato rinvenuto il cadavere e che era custodito nel camper. Il camper intestato alla Regis e al Cante e di cui la Regis è gelosissima. È importante anche questo: la Regis è gelosissima di questo camper, perché non vuole che sia mai prestato a nessuno”. (Che tutto nasca di lì? Mai prestare il camper ad estranei se non si vuole suscitare il risentimento della moglie).
Trova spazio a questo punto un primo disegno della sconcertante personalità di Domenico: “Il Cante è un uomo che, fino a prova contraria, è felicemente sposato, ha una moglie che insegna, ha una figlia, non ha problemi economici, ha delle proprietà, avute anche in eredità, ha anche un doppio lavoro perché lui di pomeriggio fa lo scambista alle Poste, di mattina lavora come elettricista in società proprio col Cella. Non ha problemi economici. Ma dalle dichiarazioni di Gabriella Regis emergerà, innanzitutto, una descrizione quasi di succubanza (sic!) forte del Cante rispetto al Cella. Fra i due ci sono dei rapporti economici societari che comunque vedono il Cella quasi in una posizione di predominanza rispetto al Cante. La Regis ci verrà persino a dire: Mi risulta che proprio negli ultimi tempi – quindi parliamo di metà luglio del ’96 – mio marito ha dato svariati milioni a Cella”.
Mentre Domenico Cante viene sottoposto a fermo, Ivan Cella è lasciato libero grazie all’alibi che gli offre Cristina Quaglia. Il pubblico ministero tratteggia Ivan Cella con le parole delle donne che l’hanno conosciuto da vicino, a cominciare dalla ex moglie, Paola Montabone, dalla quale ha due figli, una ragazza di 12 e un ragazzo di 5, all’epoca del processo: “Sposati dopo un fidanzamento di un anno circa durante il quale si sono visti poco perché lui viaggiava. Ben presto questo matrimonio si rivela per lei infelice perché in realtà il marito è un manesco e un violento. È costretta anche a ricorrere alle cure dei sanitari, che porteranno all’intervento del comandante della stazione dei Carabinieri per ridimensionare il Cella e che appunto culminerà poi nella separazione tra i due. Cristina Quaglia in sostanza dice la stessa cosa, perché anche con lei il Cella è violento, anche con lei il Cella è manesco. Marisa Franzese che l’ospiterà perché lei va via da casa del Cella per le percosse e le violenze che subisce, ci verrà a dire: Io l’ho vista con delle ecchimosi e mi arrabbiavo con lei perché non riuscivo a capire come potesse accettare le violenze di quest’uomo. La risposta, secondo quanto dice la Franzese, è che determinati momenti sembra che la appagassero di tutto il resto”.
Il punto focale della relazione del dottor Antonio Malagnino si trova nella descrizione sommaria delle prove balistiche che collegano i proiettili usati nel duplice delitto alle armi possedute dai due imputati. Vedremo tra breve nel dettaglio su quali basi poggiano le perizie.
Terminata la relazione introduttiva della pubblica accusa ed espletate altri minori incombenze, l’udienza è tolta e il dibattimento è rinviato alle ore 11:30 del 14 gennaio.
Durante questa prima udienza del processo, ci si aspettava un cedimento, sia pure parziale, da parte di Domenico Cante. Un anno e mezzo or sono, una microspia piazzata nel repartino delle Molinette dove era ricoverato, aveva captato una frase detta da Cante alla moglie che era andata a visitarlo: “Devo cominciare a dire quello che so”.
Invece, ennesimo colpo di scena in una vicenda che ne ha visti molti, sarà il “duro” Cella a cedere: al termine dell’udienza ha chiesto di essere ascoltato in Procura. L’annuncio è ufficiale: alla ripresa del processo Ivan Cella farà dichiarazioni in aula.
Prima di vuotare il sacco in Procura, Ivan Cella ha voluto confessare la verità alla sua compagna Cristina Quaglia che ha sempre creduto alle sue proteste di innocenza seguendolo per tredici mesi in giro per il mondo e affrontando due volte il carcere. L’ha fatto martedì, al termine della prima udienza, sussurrando le parole in un orecchio, senza sapere che c’era un registratore vicino. Lei si è messa a piangere e ha singhiozzato disperata per mezz’ora, prima di tornare in carcere, dove si è sentita male.
Diciotto mesi sono trascorsi dall’ultima volta in cui Domenico Cante e Ivan Cella si sono visti ma è come se fosse passato un secolo. I due soci si ritrovano chiusi nelle rispettive gabbie, nell’aula della Corte d’Assise di Torino, e ogni traccia della loro trentennale amicizia è svaporata. Ivan Cella, tarchiato, massiccio, capelli corti, il volto scolpito nella pietra, sollecitato dalle domande dei cronisti, indica l’altra gabbia: “Andate da lui. Ha molto da dire e poi è anche loquace”. Mentre il gigantesco Ivan indossa un giaccone alla moda, il piccolo, grassocc...