L'umano sistema fognario
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L'umano sistema fognario

Informazioni su questo libro

"Nell'attimo stesso in cui mia madre si accorge che sta per morire mi chiama al suo capezzale per rivelarmi l'identità di mio padre. Abbiamo vissuto ventott'anni insieme, io e lei, e ci siamo bastati, ma l'ava c'ha 'sto groppo in gola perché mai, dico mai, mi ha rivelato il nome del cavernoso che l'ha messa incinta."Emiliano Maresca lavora come un mulo in un capannone industriale, ama segretamente una ragazza di nome Anansa e conserva il cadavere della madre nel frigorifero di casa.Ascolta musica heavy metal, ha appeso sopra al letto un poster di Hitler, ha i brufoli, gli occhiali a culo di bottiglia, i capelli grassi e un paio di amici.Quando scopre di avere un padre e due sorelle, che mai ha conosciuto e che non sanno della sua esistenza, la dinamite che ha dentro deflagra con imprevedibile ferocia.In un percorso di grottesca crescita autodistruttiva, in un eroicomico apprendistato alla vita, Emiliano rotola giù, con cieca ostinazione, nella degradata quotidianità di una Taranto disfattaCosimo Argentina, con un alto tasso di ironia, rovescia in immagini esilaranti un romanzo crudele, e ci racconta l'umano sistema così simile a una fogna smaltata.

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Informazioni

Editore
Manni
Anno
2014
eBook ISBN
9788862666190
Nell’attimo stesso in cui mia madre si accorge che sta per morire mi chiama al suo capezzale per rivelarmi l’identità di mio padre.
Abbiamo vissuto ventott’anni insieme, io e lei, e ci siamo bastati, ma c’ha ’sto groppo in gola perché mai, dico mai, mi ha rivelato il nome del cavernoso che l’ha messa incinta a trentacinque anni, mandandola poi al diavolo senza né leggere né scrivere.
Io a mia madre diciamo che le voglio bene.
All’inizio assistevo all’arrivo degli AMICI. E garantisco che gli amici ci andavano giù pesante visto che per due volte è stata costretta ad abortire.
All’inizio, ho detto, perché poi quando sono diventato grande e grosso i cavernosi sono scomparsi anche se lei per un po’ ha continuato a raccattare carcasse fuori di qui. Da quel momento però a casa mia ho cominciato a imperversare solo io.
Del resto a lei anno dopo anno è riuscito sempre più difficile adescare triglie visto com’è ridotta.
Fatto sta che mi chiama e mi dice che sta per morire: fa’ che se lo sente, mia madre.
«Non preoccuparti, ma’» dico e poi dentro di me… a te penso io che poi ti riprendi e andiamo a fare una gita tu e io come ai vecchi tempi… magari chiedo un giorno di ferie ad Anfi e andiamo in spiaggia che a te la spiaggia piace fuori stagione, ah?
Ma mia madre vuole solo farmi LA RIVELAZIONE.
«Sta’ zitto, imbecille! Sto morendo e voglio dirti una cosa importante: il nome di tuo padre è Ignazio Borgogna, perciò tu in teoria saresti Emiliano Borgogna, ma sei registrato come Emiliano Maresca perché quello è il mio cognome in quanto tuo padre sparì dopo… dopo quella meravigliosa settimana… capisci? Non cambia un bel niente perché lui vive in una bella casa con due figlie e una moglie che va a messa tutte le domeniche, ma era giusto che tu sapessi. Punto e basta.»
Questo mi dice, mia madre.
Mi dà sempre dell’imbecille. E mica solo lei. Lo fa anche Anfitrione, il mio datore di lavoro. Anfi mi manda a fare commissioni tutto il giorno o mi ordina una ripassata al magazzino e si becca anche un contributo statale per il solo fatto che mi offre un lavoro a tempo determinato. Io e mia madre firmiamo dichiarando che lui mi ricopre d’oro, ma in realtà scuce venti euro al giorno cinque giorni la settimana. Venti per cinque, cento. Cento per quattro, quattrocento. Ecco là, la mia paga: poco più di quattrocento euro al mese. A integrare i quattrocento scudi c’è la pensione da professoressa di musica di mia madre. Mille e centosettanta euro. E a Taranto vai di dignità con mille e cinquecentosettanta euro, soprattutto se tua madre è inchiodata in un letto e le medicine gliele passa la mutua e se tu eviti di fare smargiassate e te ne stai fermo come un ebete da qualche parte.
E io è così che me ne sto.
Ora però spunta un padre biologico, uno che le ha regalato una settimana di corrida e poi è tornato alla sua famiglia. Grazie baby, abbiamo provato il materasso e tu non sei niente male ma, sai com’è, la famiglia mi chiama e io AMO la mia famiglia.
Bene, scannatore! Adesso è con Emiliano Maresca che te la devi vedere.
Insomma mia madre sta male.
La lascio nel suo letto, nella camera che puzza di peti e medicine da almeno cinque anni, e me ne vado in cucina. In cucina stappo una Beck’s recuperata da un frigo da bar comprato a un mercatino dell’usato e spingo occhi e pensieri oltre i vetri unti. E, oltre, si estende Taranto, una città in agonia piena zeppa di carogne. Una città nobile disossata da una manica di macellai. Gentaglia che va allo Yachting, mette le camicie bianche, i bermuda e si tromba donne gioiello. Iene con borse di cuoio, la giacca e la camicia aperta e orologi grossi così che la sera giocano a burraco in qualche circolo o mangiano antipasto di mare crudo in quel ristorante da cento euro solo a guardarlo. Sciacallume acquattato dietro i banconi di negozi edificati sull’usura che la domenica sciama in tribuna, allo stadio, a mutarsi in una manica di pavoni.
Mi affaccio.
Fuori c’è questa miscela di caldo anticipato e umidità che ti fa appiccicare la maglietta alla schiena. Mi accendo una sigaretta e appoggio i gomiti alla ringhiera arrugginita e scrostata.
Abitiamo all’ultimo piano di un palazzo di via Dante angolo via Cagliari.
Mia madre sta rantolando.
Rientro con un bicchiere d’acqua e glielo faccio ingollare e lei pare sentirsi meglio.
Sul comodino ci sono tre boccette e uno scatolino con dentro delle fiale. Le siringhe usa e getta le tengo dietro la statuetta della Venere di Milo da me decapitata a cinque anni. Le do le medicine alla viva il parroco. Ogni tanto una pasticca di anticoagulanti, una iniezione di delta, una spalmata di cortisone tra le chiappe. Il suo corpo diventa livido giorno dopo giorno e la sua faccia rincula davanti al sottoscritto come risucchiata dal vortice di un fiordo delle isole Lofoten.
E così avevo un padre imboscato in via… in via?
«Ehi ma’, dove abita papà?»
Sono ironico, ma lei non coglie. Un sorriso benevolo le si ribalta sulle labbra da piccione in decomposizione e la cara mammina si tira un po’ su dicendomi «ti piacerebbe conoscerlo?»
«Mhmm… forse.»
Abita in via Minniti, in un palazzo popolare che s’affaccia sull’ospedale cittadino. Si tratta di un vecchio stabile con la facciata grigia e i cavi televisivi disseminati a mo’ di cicatrici lungo i fianchi, inchiodati a muzzo dai vari inquilini o incerottati con lo sparatrak alle soglie delle finestre. Il palazzo fa angolo con via Iapigia. Il lato di via Iapigia è stato ritinteggiato di amaranto e i profili dei balconi spiccano gialli e ridicoli.
Da casa mia dista dieci, quindici minuti a piedi.
Porco di un Giuda morto appeso… Ce l’ho avuto per ventott’anni a uno sputo e non l’ho mai saputo.
Resto immobile all’angolo dove una volta c’era l’ufficio dell’Inps a guardare il portone di papà. Indosso una felpa azzurra con la scritta Born to kill. Dietro, sulla felpa, c’è scritto Love me baby.
Me ne sto con le braccia conserte e gli auricolari ficcati nelle orecchie arancioni di cerume. Produco più cerume io che argento la miniera di Baccu Arrodas nel diciannovesimo secolo.
M’allago il cervello con I cum blood dei Cannibal Corpse e la voce da oltretomba del cantante George Corpsegrinder Fisher mi fa salire la voglia di andare dal babbo e stanarlo a modo mio.
Le auto viaggiano a tre all’ora su via Iapigia. I succhi di frutta si piazzano in auto per andare dal punto A al punto B e poi abbassano il finestrino e tirano fuori un braccio e si guardano intorno come a dire ehi, guardate qua che sberla di autoveicolo! Voi appiedi e io in macchina.
E nel frattempo io inalo i loro gas di scarico che però mi rendono più forte.
Certo che vorrei vederlo, il paparino. Vorrei andargli vicino e dirgli caro il mio babbo, se non vuoi che salga su e ti sputtani davanti a quella encefalica di tua moglie sganciami un vitalizio di… mhmm vediamo un po’… duemila euro al mese. Ecco cosa mi andrebbe di dirgli.
Dal portone di legno e vetro smerigliato entrano ed escono un tot di individui sospetti. Età giusta, andatura da ex stalloni finiti nel vomitoio, vestiti da ho una dignità da difendere ma i soldi li gestisce quella tirchia di mia moglie e allora devo andare al Carrefour per mettermi una giacchetta in dosso, occhi persi.
Resto lì con il mio sorriso da spastico dipinto sulla faccia, ma non succede nulla.
E che doveva succedere? Forse che il mio papà scendesse e si mettesse a gridare ehi, figlio mio, demonio di un Emiliano, anche se non mi crederai ti ho sempre amato?
Resto lì, immobile. La mia faccia è bianca e coperta da ’sti brufoli… acne post giovanile, così ha detto la dermatologa della mutua. I miei occhiali di metallo leggero cerchiano lenti a culo di bottiglia. I capelli castani lisci e pettinati riga a lato sono troppo sottili per essere considerati umani. Somigliano più a peduncoli di una mosca cavallina. È come se in testa tenessi delle larve che stanno filando come mozzarella fumante, e ogni volta che mi passo una mano tra i capelli mi ritrovo le unghie unte di un liquido giallo che credo provenga dal cuoio capelluto.
Dopo due ore di appostamento rientro iappico iappico a casa.
Il sabato e la domenica non so mai cosa fare.
Penso questo rientrando in via Dante dopo essermi fatto via Iapigia e via Calabria con le mani nelle tasche dei blue jeans e l’heavy metal a prendermi a sportellate la devozione.
È sabato mattina. La gente cosa fa il sabato mattina a Taranto e in ogni angolo di questa cambusa a forma di stivale? La spesa. Ci hanno trasformati tutti in carrelli animati. Ci infilano su per il cervello una pompa idrovora e ci spennano come dei polli da batteria, questo ci fanno! Un bel giorno i padroni del vapore si sono resi conto di quanto fossimo coglioni e hanno abbandonato le ultime remore e si sono detti: e che cazzo! Diamogli perline e specchietti, a ’sti stronzi… e poi dove devono scappare?
Tornando a casa guardo i maranza tarantini affannarsi a caricare confezioni di acqua minerale fa’ che devono ricreare il Nilo Azzurro in corridoio. Carrelli pieni di brioche, salse, frutta sciroppata, carne, uova, taniche di vino, marmitte e mutande interdentali come se tutta ’sta roba fosse caduta dal cielo paracadutata dai pezzenti Piano Marshall.
Davanti a una farmacia una ragazza offre dei volantini con su scritto che se uno vuol fare un corso di computer se la cava con seicento euro tasse incluse.
Sto per strappare il foglietto ciclostilato quando mi viene in mente che Anansa aveva manifestato il desiderio di frequentare un corso di pc. Glielo conserverò.
Il sole delle dodici di questo maggio senza anima è discreto, ma onnipresente e la fronte mi diventa passo dopo passo sempre più umida.
Quando arrivo nell’androne del mio palazzo mi fermo un minuto a inebriarmi di anticchie di fresco ed effluvi di pasta e patate, brodo del sabato e cucinelle varie che si spandono nella tromba delle scale.
Il vecchio signor Abano entra con le spalle a boomerang e due buste della spesa, una per mano. Il signor Abano fa la spesa al mercato di piazza Fadini ed è così abituato a farsi mezza città a piedi con le borse di cellophane che la sua conformazione fisica si è andata sagomando alla bisogna. È come un trampoliere che per acchiappar meglio i pesci s’è fatto crescere il becco. Solo che il trampoliere è un uccello della madonna, il signor Abano un fottuto invalido incivile.
«Cià Emiliano, cià!»
L’heavy metal non risparmia niente e nessuno e io a stento annuisco qualcosa vedendo che Abano muove le labbra nella mia direzione.
Quando rientro in casa la puzza di infermeria alla deriva mi costringe ad aprire la finestra della cucina e ad accendermi una sigaretta. Tolgo la felpa english restando in maglietta dei Sepultura e mi trascino in camera a vedere come se la passa mucchio d’ossa.
Mia madre se ne sta riversa su un fianco, i capelli simili a un nido di rondine dopo la razzia di un cuculo, gli occhi chiusi e le mani protese verso un punto immaginario.
Cristo santo!
Ma’!
…ma’ è… stae serrada. Kaputt. La mammina a occhio e croce ci ha lasciati ed è volata in cielo. Mi sa che è roba da capolinea.
Mi avvicino e provo a sentirle il polso, ma non ne viene fuori nulla. Provo il cuore sotto la camicia da notte puzzolente e devo spostare un grosso seno molliccio per poter piazzare un orecchio sulla sua carne, ma dopo il casino dei Cannibal Corpse qui avverto solo la linea piatta da elettrocardiodramma.
Ehi, Caronte, trattala bene, la vecchia, non fu facile la vita per questa figlia di Dio!
Mi siedo sul letto, disorientato. Mando gli occhi a memoria nella stanza e guardo l’armadio giallo, il comodino con un piede rotto, il comò coperto di centrini fatti all’uncinetto e lo specchio con un angolo lesionato. Sorrido. È un sorriso nervoso, il mio. Tipico dei mezzicefali alla mia, insomma. E mo che faccio? Le sento di nuovo il polso: non si sa mai.
Bussano alla porta. Il panico mi compare come un melanoma e si diffonde facendo lo slalom tra i brufoli che tappezzano la mia faccia.
«Sì?»
«Emiliano… che c’avete ’l sale?»
È la vicina targata democrazia cristiana. Donna di chiesa che non si fa i cazzi suoi ma che teme di morire e allora chiede sempre di mia madre, ma non tiene il coraggio di farle una che sia una visita.
«Sì…» Vado a prendere il cartoccio umido, verso un pugno di salgemma nel bicchiere con cui si è presentata, e glielo porgo mentre lei se ne sta mummificata sullo zerbino a guardare il campanaccio che abbiamo attaccato al quadro elettrico nella notte dei tempi.
«Come sta tua madre?»
Ecco la domanda a cui andavo cercando di dare una risposta da quando era risuonato il campanello. Y tu madre como està?
Elaboro con il mio cervello di gallina una serie di scenari che si aprono con la sua morte. Uno, perdo la sua pensione in battuta; due, il comune mi dà lo sfratto perché la casa intanto l’abbiamo in affitto simbolico perché lei a suo tempo lo ottenne grazie a non so quale motivazione; tre, Anfi, il mio capo, mi tiene solo perché in un’altra vita deve aver dato una lisciata alla vecchia, e allora secondo Emiliano questo coup de théâtre mi porterebbe a domicilio anche un capo licenziamento. Essere licenziato da quella fabbrica non sarebbe una gran perdita se non fosse che non vedrei più Anansa. E allora…
«Al solito, signora. Ora dorme.»
«Me la saluti.»
Faccio un cenno di assenso e un sorriso da sottosviluppato.
«Che poi te lo restituisco, il sale.»
Sollevo le spalle come a dire ma figurati, vecchia mastelliana che non sei altro. Vai vai, ingoia la scheda elettorale e non ti fare più vedere sul ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dedica
  3. Epigrafe
  4. L’umano sistema fognario