LE REGOLE DI AMAZON
Ad Amazon migliaia di veterani e coniugi di personale militare guidano l’innovazione e portano miglioramenti al livello di esperienza del cliente. Ogni giorno queste persone utilizzano la loro conoscenza, le loro abilità e le loro capacità di leadership in una grande varietà di ruoli lavorativi nel mondo, tutto per i nostri clienti. Insieme stiamo costruendo il futuro innovazione dopo innovazione, con prodotti, servizi e idee. Non è facile ridefinire tutto ciò che è possibile. Accetti la sfida?
B. è convalescente da cinque mesi. Dopo appena un anno di lavoro come picker, a prelevare libri e altri oggetti dagli scaffali della Robotic storage platform al primo piano del centro di distribuzione Amazon a Passo Corese, poco più di 6.000 abitanti tra le verdeggianti colline della Sabina, 30 chilometri a nord di Roma, si è ritrovata la mano sinistra paralizzata dal dolore. “Mi si è bloccata per la tensione muscolare causata dai movimenti ripetitivi che facevo per prelevare la merce dagli scaffali”, dice mostrando l’arto operato, ancora gonfio, e una cicatrice lunga dieci centimetri. Preferisce che non si faccia il suo nome per evitare ritorsioni. Lavora ad Amazon dal giorno in cui ha aperto, il 24 settembre 2017, prima con un contratto a termine con un “monte ore garantito” – “ma in realtà ho lavorato da subito a tempo pieno” – finché dopo qualche mese è stata assunta a tempo indeterminato. Mima il gesto, sempre lo stesso, 500 volte all’ora – “ma sono arrivata anche a 600” – per sette ore e mezza di lavoro, intervallate da una pausa di mezzora, e per cinque giorni di fila a settimana, che diventavano sei quando ci sono i picchi di ordinazioni.
Il suo racconto mi fa tornare alla mente il Gian Maria Volonté di La classe operaia va in paradiso, il film di Elio Petri che, in pieno capitalismo fordista, mostrò le condizioni di lavoro alla catena di montaggio in fabbrica e che vinse il Festival di Cannes nel 1972. Questa volta non ci troviamo però in uno dei templi della produzione novecentesca, bensì in un santuario della più grande piattaforma di e-commerce al mondo, a Wall Street seconda solo ad Apple per capitalizzazione. Pure il fondatore Jeff Bezos ha poco a che vedere con i capitalisti americani del Novecento, anche se ad accomunarlo ai Rockfeller e ai Carnegie sono la spiccata tendenza a monopolizzare un settore strategico per l’economia del periodo e lo spirito filantropico. A differenza dei magnati novecenteschi del petrolio e dell’acciaio, partiti da attività artigianali e legati alla produzione materiale, Bezos è figlio della rivoluzione informatica, con studi nella prestigiosa università di Princeton, e può essere considerato pure un prodotto di Wall Street, vale a dire della finanza che domina il mondo ed è abituata a fare i soldi con i soldi. In questo senso, potrebbe essere più vicino a un altro grande capitalista del secolo passato, John P. Morgan, che partì dalla finanza per arrivare a legare il suo nome alla Edison, la compagnia che portò la corrente elettrica in tutte le grandi città americane. Lo si potrebbe considerare per qualche aspetto persino simile a Henry Ford, poiché ha applicato in maniera analoga uno schema rigido nell’organizzazione del lavoro operaio, in modo da garantire una maggiore sicurezza e produttività, anche se sui salari, pur dignitosi e regolari, non è altrettanto largo di maniche. Il “New York Times” lo ha descritto come “spietato” e lui ha risposto con una email nella quale ha sostenuto di non riconoscersi in quella definizione. Al contrario, ha ribattuto, “tutto quel che facciamo è per il cliente, per dargli un servizio migliore”. Non sembrano pensarla diversamente le 40 ong di quindici Paesi che l’hanno accusato di essere in debito con il pianeta, la società e l’ambiente. Pure l’Antitrust dell’Unione Europea lo ha messo nel mirino, accusandolo di “distorcere la competizione” attraverso l’utilizzo dei dati personali dei propri clienti. E i piccoli commercianti che rischiano di sparire grazie al boom delle vendite on line non hanno un’opinione molto diversa su di lui.
Tuttavia, da buon riccone americano, Jeff Bezos è un filantropo di prim’ordine. Durante la pandemia di Covid che lo ha reso ancora più ricco grazie all’esplosione degli ordini via internet, proiettandolo in testa alla classifica dei Paperoni globali con un patrimonio stimato da “Forbes” in quasi 200 miliardi di dollari, ha versato 100 milioni ai banchi alimentari. Già nel 2018, quando era ancora soltanto tra i primi cinque uomini più ricchi al mondo, aveva donato due miliardi di dollari per assistere senzatetto e bambini in difficoltà, e la donazione gli era valsa il primato della filantropia mondiale.
Nel giro di pochi anni, abbandonato il già più che redditizio lavoro a Wall Street, da un garage di Seattle ha creato in men che non si dica un impero economico, con una velocità e un’ampiezza senza precedenti nella storia del capitalismo americano. Quando la fondò, nel 1994, voleva chiamarla Abracadabra però poi le diede un nome ispirato al Rio delle Amazzoni per simboleggiare la vastità di titoli che si potevano acquistare sul sito. Ora gestisce una multinazionale che conta 560.000 dipendenti in tutto il mondo, 9.500 dei quali in Italia, appoggiandosi su un gruppo di diciotto super manager tra i quali si contano soltanto una donna e nessun nero. Dall’e-commerce è passato allo streaming web, dalle vendite di libri alla produzione dei Kindle per leggere gli e-book, fino ai videogiochi e alle produzioni cinematografiche, perfino alla consegna di cibi freschi. La nuova frontiera è il cloud computing, vale a dire i servizi di controllo delle attività informatiche e di archiviazione dei dati in rete, offerti a società private e pubbliche. Tra le 100.000 persone assunte in tutto il mondo nel 2020, che hanno portato il totale dei dipendenti fissi a 750.000, oltre agli impiegati nei magazzini della logistica c’erano ingegneri e figure commerciali per i servizi cloud. Nel settore dal quale è partito e che gli ha garantito il successo, la vendita di libri, si è lanciato nel self publishing e ha offerto servizi di stampa on demand alle case editrici tradizionali per eliminare depositi e rese, oltre a garantire la distribuzione dei libri, creando una concentrazione che desta più di una perplessità ma alla quale nessuno pare riesca a sfuggire.
Non essere presenti su Amazon per un editore dal punto di vista commerciale può equivalere a un suicidio. Dire di sì vuol dire condannarsi a una vita grama. Del prezzo di copertina si stima che, comprendendo anche gli investimenti di marketing effettuati dagli editori, rimanga tra il 43 e il 48% all’azienda di commercio on line, tra il 45 e 55% alle catene librarie (con insegna editoriale), e tra il 30 e il 38% alle librerie indipendenti. Sempre dal prezzo di copertina, si devono ancora togliere tra il 9 e il 12% dedicato alla distribuzione e circa il 4-8% assorbito dalle attività promozionali nel confronti dei retailer. Per cui i guadagni sono risicati e le piccole e medie case editrici rimangono stritolate, con un meccanismo che non è molto diverso da quello dei piccoli produttori agricoli nei confronti della grande distribuzione organizzata. C’è stato chi, come la casa editrice e/o, ha deciso di andare allo scontro. “I prezzi spesso vantaggiosi sono il risultato di una politica che a volte è arrivata ai limiti del dumping (vendere a prezzo minore o pari a quello d’acquisto dai fornitori); di una frequente elusione delle tasse (nell’ottobre 2017 Amazon è stata condannata dalla Commissione europea a pagare alla Ue 250 milioni di tasse non versate; ‘tre quarti dei suoi profitti non sono stati tassati’, ha denunciato la Commissione); di condizioni inaccettabili richieste agli editori”, si legge in un comunicato stampa nel quale l’editore ha annunciato di rifiutare la richiesta-capestro di Amazon, “uno sconto (quello che gli editori pagano ai distributori e alle librerie come loro quota del ricavo finale) a loro favore troppo gravoso per noi e neppure giustificato dal volume dei loro affari con la casa editrice”. Di fronte al no di e/o, la multinazionale ha sospeso l’acquisto dei libri dell’editore dei romanzi di Elena Ferrante, e ha reso quelli che aveva in magazzino, anche se ha lasciato la possibilità di acquistarli sulla piattaforma Amazon attraverso il cosiddetto marketplace, vale a dire la vendita diretta da parte dell’editore. A marzo del 2020 è stata poi approvata in via definitiva una legge che impone a librerie e rivenditori on line come Amazon un tetto di sconto massimo del 5% per i libri salvo un mese all’anno in cui ogni editore può decidere una campagna di sconto, e la situazione si è un po’ riequilibrata soprattutto a favore delle piccole librerie che non reggevano la concorrenza dei colossi librari.
È rimasta immutata invece la questione dell’elusione fiscale. Il quotidiano britannico “Guardian” ha rivelato che, a fronte di 44 miliardi di ricavi in Europa, dodici in più dell’anno precedente nonostante la pandemia, la compagnia americana non ha pagato nessuna tassa sui profitti perché in Lussemburgo, dove ha la sua sede europea, ha registrato una perdita di 1,2 miliardi di euro. La società europea di Amazon paga diverse imposte locali nei Paesi dove ha le succursali, Italia compresa, ma non quelle sui profitti, che vengono trasferiti alla sede legale lussemburghese, dove esistono condizioni fiscali molto favorevoli per le grandi aziende internazionali.
Quello della casa editrice e/o non è stato l’unico caso di ribellione allo strapotere della multinazionale americana. Nel 2014 Hachette ha contestato il fatto che Amazon volesse decidere lo sconto da applicare agli e-book del suo catalogo. Così l’azienda di Bezos ha messo in atto una sorta di boicottaggio togliendo la possibilità di pre-ordine e indicando tempi di consegna molto lunghi per i titoli dell’editore francese. Dopo sei mesi, la multinazionale è stata costretta a tornare sui suoi passi. “A mano a mano che passano gli anni Amazon paga sempre meno gli editori e si fa più aggressiva sfruttando le leggi del mercato”, ha detto in un’intervista al giornale web Rivista Studio Andy Hunter, un editore newyorchese che ha fondato Bookshop, una piattaforma alternativa che con il 10% degli incassi alimenta un fondo a favore delle librerie indipendenti e che si propone di arginare lo strapotere del colosso di Seattle.
Dall’alto della sua potenza economica, il magnate più potente del mondo si è potuto permettere di scontrarsi a più riprese con il politico più potente del mondo, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha mal sopportato le critiche del giornale di proprietà di Bezos, rinominato “Amazon Washington Post”, e per questo ha fatto in modo che il Pentagono scegliesse il rivale Microsoft di Bill Gates per i servizi di cloud computing. Nonostante lo stop all’appalto da dieci milioni di dollari per la Difesa a stelle e strisce, alla fine Trump ha perso la battaglia con Bezos: mentre lui ha dovuto lasciare la presidenza degli States a Joe Biden, Amazon è diventata invece l’infrastruttura di consumo e di intrattenimento degli americani, seconda per fatturato negli Usa solo alla catena di supermercati Walmart. Non solo. La multinazionale di Seattle è oggi un vero e proprio Stato nello Stato, o meglio una sorta di repubblica autonoma con tanti micro-territori quanti sono i suoi stabilimenti nel mondo, con proprie leggi e presto con una propria moneta virtuale che minaccia di insidiare non solo i bitcoin, la criptovaluta per eccellenza, ma addirittura il ruolo del dollaro come valuta d’acquisto globale, almeno sul web. Chi vorrà acquistare beni o servizi sulla piattaforma, dovrà cambiare i propri soldi in una moneta Amazon. Il progetto è stato affidato ad Andy Jassy, capo di Amazon Web Services, il comparto di cloud computing, l’uomo destinato a rimpiazzare Jeff Bezos alla guida della società da lui fondata. Agli inizi del 2021, proprio mentre Amazon faceva registrare i maggiori incassi dalla sua nascita grazie all’esplosione del commercio on line causato dai lockdown in tutto il globo, ha annunciato a sorpresa che nel corso dell’anno avrebbe lasciato la carica di amministratore delegato per dedicarsi ad altre società di sua proprietà, a partire proprio dal quotidiano “Washington Post”, acquistato nel 2013. Il giorno dell’insediamento ha scritto ai giornalisti della testata: “Il nostro punto di riferimento saranno i lettori, comprendendo ciò di cui si interessano: governo, leader locali, aperture di ristoranti, aziende, enti di beneficenza, governatori, sportivi – e lavorando a ritroso da lì”. Nel giro di pochi anni, il giornale è tornato in utile e la redazione è passata da 500 a 850 persone. Inoltre, ha investito 42 milioni in un orologio tra le montagne texane le cui lancette scandiscono gli anni e i secoli, con un cucù allo scoccare di ogni millennio, una “pazienza” necessaria per operare la transizione dalla carta al digitale che Bezos è convinto sia inevitabile; e con la società Blue Orizon – in competizione con un altro miliardario dell’alta tecnologia e dell’informatica, il fondatore di PayPal e SpaceX Elon Musk – progetta navicelle spaziali per colonizzare altri mondi, un sogno vecchio quanto la scoperta dell’America.
In attesa di arrivare su Marte per costruirvi i primi insediamenti, Jeff Bezos è sbarcato in Italia con Amazon alla fine di novembre del 2010, in tempo per i regali di Natale, annunciato ancora una volta da una missiva nella quale scriveva che “il 3 agosto 1995 abbiamo consegnato il primo ordine italiano a un cliente di Genova, inviato da uno dei nostri magazzini negli Stati Uniti” e ora “siamo entusiasti di aprire le nostre porte virtuali ai clienti italiani con un’offerta italiana”. In un decennio, ha egemonizzato le vendite virtuali nel Belpaese e aperto 27 magazzini accuratamente sparsi sul territorio, in modo da garantire la capillarità e l’interconnessione. Nessuno è riuscito a stare al suo passo e neppure a prevederne le mosse, al punto che non esiste oggi in Italia un sistema distributivo privato di pari efficienza. Il modello Amazon è spietato, non ammette concorrenza ma solo cooptazione o subalternità, aliena i lavoratori e li spreme come limoni, ma nessuno è in grado di mettere in discussione il fatto che funzioni.
Lo stabilimento di Passo Corese, insieme a quello piacentino di Castel San Giovanni, rappresenta il fiore all’occhiello del colosso americano in Italia. Con i suoi 2.000 dipendenti che durante i picchi di ordinazioni arrivano a sfiorare i 3.000, è avviato a diventare il principale hub logistico e di stoccaggio italiano di una multinazionale che in Italia ha investito 1,6 dei 27 miliardi destinati all’Europa, come ha ricordato in un’intervista a “Forbes” la country manager Mariangela Marseglia, una donna d’origini pugliesi che si è fatta le ossa nel quartier generale della compagnia a Seattle, come braccio destro di Pablo Piacentini, all’epoca vicepresidente senior e secondo azionista di Amazon dopo Bezos. Lo hanno costruito, con tecnologie all’avanguardia ed ecologicamente corrette – basate sull’efficienza energetica, sulla riduzione di emissioni di anidride carbonica, sul controllo del consumo di acqua, su materiali a basso impatto ambientale e sull’isolamento termico e sonoro – in una posizione strategica, lungo la dorsale appenninica che collega Milano a Roma fino a Napoli e poi giù verso la Calabria, a un passo dall’Autostrada del Sole e dalla ferrovia che porta direttamente, con corse ogni quarto d’ora, alla Capitale e all’aeroporto di Fiumicino. Non a caso, lo stabilimento si chiama FCO1, che è la sigla del principale scalo romano, dove vengono imbarcate il 10% delle spedizioni, mentre il restante 90% viaggia su gomma.
Per farlo, hanno spianato una collina di uliveti cresciuti sopra e attorno a un parco archeologico composto di quattro ville romane, ciò che è stato finora ritrovato dell’antica città sabina di Cures, e altrettanti siti paleolitici, come ha rivelato un dossier dell’associazione Sabina Futura, un gruppo di ambientalisti locali che si è opposto agli espropri e alla cancellazione di 500 ettari di terreni agricoli e oliveti. Durante gli scavi è stata ritrovata anche una statua di Iside, poi esposta nella Capitale a Palazzo Altemps. “Sarebbe stato più logico progettarlo lontano da aree archeologiche e centri abitati, per non distruggere il paesaggio, il patrimonio storico e la salute degli abitanti”, si legge nel libro bianco curato dagli attivisti anti-Amazon. In un volantino diffuso tra la popolazione in alcune migliaia di copie, gli ecologisti hanno provato a mostrare il lato oscuro del sogno amazoniano e del polo della logistica che si voleva costruire su queste terre. In una pagina erano elencati i presunti benefici: “Posti di lavoro, colline completamente sbancate per far posto a mega-piazzali completamente asfaltati, senza spazi verdi, capannoni alti come palazzi di cinque piani”. In quella a fronte, tutto ciò che è andato perduto: “70 posti nell’agricoltura oltre l’indotto, 1.400 ulivi e 3.000 alberi da frutto, 100 ettari di coltivazioni a foraggio e altrettanti a grano, 140 quintali di olio all’anno e 900 di uva, 1.500 quintali di frutta, 120 capi di bestiame, aria pulita, silenzio e paesaggio”. Il presidente dell’associazione Paolo Campanelli ha messo nero su bianco alcune domande che non hanno ottenuto risposta: “Perché non è mai stato diffuso un piano industriale? Quali aziende si insedieranno? Perché macroscopiche modifiche alla variante vengono definite ‘di lieve entità’? Perché un ramo ferroviario sparisce insieme allo scambio merci ferro-gomma? Perché l’indice di fabbricabilità scompare? Perché il raddoppio di metri cubi costruibili, da 5,6 a 9,8 milioni? Perché la data dell’approvazione della variante viene retrocessa in un giorno in cui non si è riunito il Consiglio regionale? Perché terreni fabbricabili vengono espropriati al valore agricolo?” La loro è stata la classica battaglia di Davide contro Golia, di un piccolo gruppo di ambientalisti locali invisibili al potere contro la multinazionale colonizzatrice che recinta le terre e le trasforma, come in un romanzo di Manuel Scorza. Difficilmente poteva finire in maniera diversa da come poi è andata. Troppo forte è risultata l’attrazione per un’azienda che prometteva di portare lavoro in gran quantità e per la creazione di un’area industriale 4.0 fondata sulla logistica che oggi è occupata pure dai corrieri della Sda, che lavorano per Poste italiane, mentre l’ultima arrivata è la multinazionale tedesca della grande distribuzione Metro Cash&Carry, un colosso da 30 miliardi di fatturato. Troppo grande era la forza contrattuale di Jeff Bezos perché qualcuno osasse provare a contrastarla, in un Paese come il nostro che dalla fine della Seconda guerra mondiale è il più filo-americano d’Europa. A ricordare ciò che era questo luogo in un tempo non troppo lontano rimangono 250 ulivi, che Amazon ha voluto lasciare come ornamento a una cementificazione che si può misurare in dodici campi di calcio.
Le contestazioni non sono state prese in considerazione né dal governo né dai politici locali, tantomeno dalla multinazionale, e lo stabilimento è stato costruito in tempi record. Alla presentazione, il 9 febbraio 2017 all’interno della nuovissima struttura di 65.000 metri quadrati, accanto al vicepresidente di Amazon Europa, Roy Perticucci, c’erano l’allora ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Del Rio e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, come a dire il fior fiore del Partito Democratico allora al governo. “Dovremmo invitare quelli di Amazon alla direzione del Pd per vedere i risultati che si ottengono con lo spirito di squadra”, aveva dichiarato quel giorno Del Rio. Zingaretti, all’epoca non ancora segretario democratico, ne aveva approfittato per tagliare il nastro della bretella di collegamento con l’autostrada e con la via Salaria, la consolare che porta dritto nel cuore di Roma senza pagare pedaggio. I consensi per l’azienda e per Jeff Bezos non si limitarono al centrosinistra. Il trentacinquenne sindaco Davide Basilicata, eletto giovanissimo nel 2011 con il centrodestra, per “celebrare il nostro grande progetto” aveva citato una massima dello stesso Bezos: “La cosa peggiore è non evolvere”.
Nel luglio precedente, l’allora premier Matteo Renzi si era fatto raccontare il “piano Italia” di Amazon proprio dal suo fondatore, invitandolo a pranzo a Firenze. Una foto dell’Ansa li ritrae a Palazzo Vecchio in una singolare consonanza di abbigliamento: entrambi indossavano una camicia bianca di lino e avevano tolto la giacca per il caldo. Al termine dell’incontro, Renzi aveva twittato: “Bello discutere con Jeff Bezos a Firenze e belli i progetti di Amazon per l’Italia con oltre 1000 nuovi posti di lavoro”.
A qualche anno di distanza dal primo pacco uscito da Passo Corese, una fotocamera a stampa istantanea diretta proprio nel capoluogo toscano, la realtà è quella che raccontano gli operai che sono passati per questo stabilimento. “Per quello che faccio io devi piegarti per sette ore e mezza. All’inizio hai dolori dappertutto, poi però ti abitui, magari prendi qualche antidolorifico e vai avanti, fino a quando cominci a fare le visite mediche e scopri i malanni”, racconta B. Il suo non è un caso isolato. “Qui dentro ci vorrebbe il dispenser di Oki”, uno dei più potenti antinfiammatori in circolazione, dicono. L’azienda lo sa e per questo ha stipulato convenzioni con palestre e centri di fisioterapia, mentre all’interno sono a disposizione un medico, un infermiere e pure uno psicologo.
Per spiegare come si coniughi tutto ciò con l’attitudine umanitaria e l’attenzione del fondatore per la salute dei suoi dipendenti, bisogna capire che, se è vero che nella scala delle priorità di Amazon la sicurezza sul lavoro si trova in cima, essa arriva però immediatamente dopo la soddisfazione del cliente. Tutto è finalizzato a questo secondo obiettivo, dunque bisogna lavorare in sicurezza per poter garantire che la macchina delle consegne non si inceppi. “Non conta da dove parte il pacco, conta che il suo percorso sia efficiente”, è uno degli slogan aziendali più gettonati. Gli ordini (dei clienti) vanno eseguiti nel tempo di consegna previsto, e perché tutto proceda senza intoppi è necessario che il lavoratore sia efficiente e in buona salute. “Work hard, have fun, make history” (“Lavora sodo, divertiti, fai la storia”) è il motto scritto a caratteri cubitali nella sala che il 16 settembre 2018, per festeggiare il primo anno di vita dello stabilimento di Passo Corese, ha ospitato il cantante spagnolo Álvaro Soler, star del talent show Tú sí que vales, esibitosi davanti ai dipendenti che facevano la ola. “Questo non è un magazzino ma una fabbrica che organizza la sua attività sul benessere e il coinvolgimento del lavoratore”, ha detto al quotidiano “La Repubblica” il general manager Tareq Rajjal all’indomani dell’apertura.
Due ex manager americani che hanno lavorato 27 anni in Amazon, Colin Bryar e Bill Carr, hanno sviscerato in un “libretto rosso” i quattro assi cardinali che sorreggono la f...