CAPITOLO NONO
Confrontarsi con il cambiamento
Non abbiamo molto tempo per affrontare il cambiamento: il digitale sta abbattendo tutte le barriere, crea rapporti inattesi, liberi dalle mediazioni.
Il digitale ha infranto le nostre certezze, messo in discussione le categorie che per molti decenni hanno orientato il nostro modo di pensare e di agire. Non può essere una strada realistica e percorribile sul medio-lungo termine quella di chi, per difendere le proprie tradizioni, blinda il presente alzando barriere.
Nel mio ufficio in Treccani, alle spalle della mia scrivania, ho un mattone su cui sono incise le parole di Italo Calvino: «Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori».
È chiaro che saremmo tutti più rassicurati se le trasformazioni promosse dalla rivoluzione digitale, invece di mettere in pericolo i posti di lavoro, creare nuove forme di egemonia e arricchire pochi gruppi o pochi individui, fossero indirizzate al benessere di tutti.
Il cambiamento promosso dal mondo digitale ha investito anche la politica e le sue modalità. Barack Obama vinse le elezioni negli Stati Uniti anche grazie al modo in cui, in quella fase politica, seppe utilizzare il web: attraverso i social network riuscì ad avvicinare tantissimi cittadini alle vicende politiche del suo Paese dopo anni in cui la distanza tra governanti e governati si era enormemente ampliata. La stessa cosa sta accadendo nel nostro Paese, dove alcuni movimenti politici hanno saputo interpretare il sentiment dei cittadini con molta più attenzione rispetto ai partiti tradizionali.
Nell’autunno del 2011 avevo iniziato a scrivere sul web tenendo un blog che pubblicavo sul portale di «Italianieuropei» e che, rifacendomi a un racconto di Herman Melville che amo molto, avevo scelto di chiamare Bartleby. Poi un giorno, parlando con Lucia Annunziata del progetto di mettere in piedi un quotidiano online (se ricordo bene, in principio si sarebbe dovuto chiamare «Interesse pubblico»), mi chiese di scrivere per l’«Huffington Post», testata web che da lì a pochi mesi, nel settembre 2012, avrebbe iniziato a dirigere. Accettai con piacere perché pensavo che sarebbe stato un buon modo di capire quello che stava accadendo, di ascoltare e interagire con un pubblico digitale.
Ho scritto il mio primo tweet il 3 gennaio 2010. Non sarò stato forse un early adopter, come viene definito chi si getta a capofitto per provare i nuovi strumenti della tecnologia digitale appena vengono lanciati, ma nemmeno un iscritto last minute. Eppure, sono dovuti passare alcuni mesi perché quello strumento, insieme a Facebook, mi aiutasse a creare una piccola comunità di donne e uomini tenuti insieme dagli stessi interessi. Una comunità che condivide riflessioni, discute di libri, propone la lettura di poesie, segnala storie e persone impegnate nel mondo della cultura.
I social media nella mia esperienza sono stati uno strumento importante, in grado di connettere realtà frammentate, nodi anche molto distanti. Partecipando alle conversazioni digitali dedicate ai temi della cultura, mi sono reso conto che i cittadini appassionati di letteratura, di musica, di cinema, di arte, di paesaggio si scambiano informazioni, discutono problemi e propongono ogni giorno appassionate soluzioni.
Una caratteristica comune che mi sembra identificare questo pubblico è la sfiducia nelle istituzioni, la consapevolezza che la politica ha smesso da tempo di ascoltarlo.
Molti dei messaggi che ho ricevuto nel corso di dieci mesi da ministro erano suggerimenti e richiami verso alcune situazioni critiche in cui versava il nostro patrimonio culturale. Quando leggevo quello che scrivevano donne e uomini utilizzando l’hashtag #ilmioministro, dopo che il mio impegno istituzionale era finito, capivo che quella che avevamo creato era una comunità viva, attiva, desiderosa di costruire un futuro differente.
Ho vissuto così in prima persona il dibattito sulla contrapposizione democrazia diretta/democrazia rappresentativa, confrontandomi con il tema della sostituibilità della seconda con la prima, come conseguenza dell’utilizzo delle nuove tecnologie digitali. Si trattava evidentemente di una proposta ben più radicale dell’opportunità di innestare elementi di democrazia diretta digitale in un sistema rappresentativo, aprendo anche a nuove forme partecipative al fine di rivitalizzarlo. In questo, le nuove tecnologie digitali stavano profondamente cambiando la politica: software e motori di ricerca sono in grado di definire i comportamenti e le reazioni dei cittadini nei confronti di temi e problemi; comportamenti che delineano il loro modo di porsi rispetto alle forze politiche. Ma l’affermazione delle tecnologie digitali ha comportato profondi e radicali mutamenti nelle nostre abitudini e nel nostro modo di accedere al sapere. Lo sviluppo di reti sempre più articolate ha anche impresso una forte accelerazione ai processi economici, sociali e culturali.
Il filosofo francese Pierre Lévy ha teorizzato a tal proposito un concetto chiave per la cultura digitale: quello di intelligenza collettiva, per cui, a differenza di ciò che accade con i media tradizionali, in cui l’interazione tra emittente e pubblico è scarsa o nulla, si ha una partecipazione attiva dell’utente all’interno di un cyberspazio che non è strutturato in modo gerarchico ma paritario, in cui tutti hanno le stesse possibilità di accesso e, potenzialmente, di visibilità (pensiamo ai post che diventano «virali», ovvero che ottengono in poco tempo centinaia di migliaia di contatti, in modo del tutto indipendente dalla notorietà dell’autore).
Ciò comporta ovviamente, da un lato, un reale e tangibile processo di democratizzazione della conoscenza, per cui le informazioni sono accessibili in modo infinitamente più semplice e i cittadini e i consumatori possono esprimere la propria opinione in modo molto più diretto ed efficace: si pensi ad esempio a intere campagne pubblicitarie e istituzionali che sono state ritirate a causa delle proteste di quello che nel linguaggio giornalistico è ormai divenuto il «popolo del web».
Dall’altro lato si ha anche, però, il rischio speculare di una frammentazione esponenziale dell’informazione, per cui qualsiasi teoria, concetto o citazione può circolare tra milioni di utenti senza che la sua affidabilità possa essere verificata in alcun modo: e ciò causa purtroppo, in certi casi, la diffusione di notizie false (spesso confezionate a tavolino con l’intento di fomentare odio e rabbia tra gli utenti dei social), o addirittura di teorie complottiste dai pericolosi risvolti sulla vita reale (ad esempio la campagna antivaccinista).
La mia convinzione è che una grande prospettiva di cambiamento debba quindi muovere da alcune idee fondamentali: tutela della privacy come forma della democrazia, bisogno di maggiore eguaglianza, innovazione. Tutela della privacy perché l’assenza di regole, di controlli, di trasparenza e di legalità nasce innanzitutto dalla difficoltà delle istituzioni di regolare lo sviluppo del mondo digitale e di bilanciarne il peso e il potere.
Questo ruolo fu svolto nei secoli scorsi dagli Stati nazionali che seppero far quadrare il cerchio della compatibilità tra sviluppo, diritti dei cittadini e coesione sociale. Non credo che sarà il ritorno agli Stati nazionali a colmare il vuoto di democrazia che si è creato; la vera sfida è quella della costruzione di una dimensione democratica sovranazionale. Questa è stata la grande scommessa che ha dato vita all’Europa, anche se oggi essa ci appare in difficoltà di fronte alla necessità di fare un salto di qualità sul terreno delle politiche comuni nel campo dello sviluppo e della coesione sociale.
Ho assistito in prima persona a questa sorta di «disorientamento» politico nel periodo in cui il governo era intento a discutere il TTIP, l’accordo commerciale tra Italia e Stati Uniti.
Scrivevo nel Diario: “Con la ministra francese, Aurélie Filippetti, abbiamo discusso a lungo la possibilità di definire e sottoscrivere un documento che sottolinei il valore dell’eccezione culturale, la scelta di non equiparare le attività culturali alle merci da scambiare liberamente sul mercato. Ho comunicato a Enrico Letta con chiarezza quella che sarà la mia posizione nel corso del tradizionale incontro tra il presidente della Repubblica e i candidati ai David di Donatello. Queste le parole del mio intervento: «La creatività e la peculiarità del cinema italiano vanno difese con forza, come tutte le manifestazioni della nostra cultura, tenendole lontane da ogni tentativo di omologazione e di mercificazione. Il governo dovrà fare di tutto per considerarle come tali».
Non è stata una scelta facile, ma mi ha fatto molto piacere che Toni Servillo si sia alzato dal pubblico per venirmi incontro ed abbracciarmi”.
La discussione si trasferì anche a Bruxelles.
La sera prima del dibattito ricevetti una telefonata in albergo da un membro del governo che mi metteva in guardia dal prendere una posizione che avrebbe rischiato di indebolire il valore del trattato commerciale.
Nella discussione, molto accesa, cercai di spiegare quella che era la mia posizione: la cultura, la conoscenza, sarebbero dovute rimanere fuori dal trattato e era nostro dovere evitare che i grandi gruppi protagonisti della comunicazione digitale ne orientassero la fruizione. “È sbagliato” scrivevo nel Diario, “pensare di applicare le logiche del liberismo economico alle produzioni della creatività; il rischio, in un’epoca di polarizzazione degli strumenti e della comunicazione digitale, sarebbe quello di uniformarle e creare un pensiero unico”.
L’Europa, dissi concludendo la nostra telefonata, avrebbe dovuto fondare il suo rilancio proprio sottolineando il valore dell’eccezione culturale.
Il mio interlocutore non era affatto d’accordo. La discussione e la decisione da adottare non furono facili, ma con il sostegno del nostro ambasciatore difesi la scelta del nostro Paese e l’eccezione culturale fu approvata. I giornali riportarono la notizia, sottolineando «il grande impegno della Francia nell’esclusione dei Beni culturali dal trattato».
Il secondo tema è quello dell’eguaglianza: concentrando la ricchezza in poche mani, la diseguaglianza ha messo in crisi la coesione sociale e, in un Paese come il nostro, dove ci sono pochissime opportunità di promozione sociale e dove il lavoro non viene valorizzato e retribuito in modo adeguato, ha fatto venire meno gli stimoli a competere, a promuovere i talenti e le qualità di ciascuno. Gli sforzi di una classe dirigente vanno indirizzati alla definizione di una nuova idea di stato sociale, alle strategie di lotta alla povertà, alla promozione delle qualità individuali.
Infine, la terza condizione necessaria a leggere il cambiamento è quella di puntare sull’innovazione, confrontarsi con i cambiamenti indotti dalla tecnologia, valutando quelli che saranno gli impatti sul nostro modo di vivere. Questo richiederà da un lato un reale e tangibile processo di democratizzazione della conoscenza, per cui le informazioni possano essere accessibili ad un numero sempre maggiore di persone; dall’altro, lo sforzo per evitare che la frammentazione esponenziale dell’informazione causi l’impossibilità di verificarne la sua affidabilità. Infatti, l’illusione di poter essere tutti connessi, di poter accedere a qualunque forma di conoscenza, ha finito col trasformarci in una merce acquistabile, utilizzabile, orientabile, influenzabile.
Le grandi compagnie digitali rischiano di creare una cleptocrazia digitale. Per evitare tutto questo, le istituzioni, in assenza di una vera legislazione – ancora tutta da scrivere –, dovranno definire codici di comportamento e precise scelte di campo; capire i reali pericoli che si nascondono dietro il «traffico dei dati», evitare che i social siano utilizzati per polarizzare opinioni, fomentare conflitti sociali e atteggiamenti discriminatori. La grande scommessa che ci aspetta è quindi imprescindibilmente educativa: siamo noi ad avere la responsabilità di fornire ai più giovani gli strumenti necessari per accrescere la conoscenza, presupposto fondamentale per uno sviluppo economico e sociale virtuoso e sostenibile. Se si vuole difendere l’integrità della democrazia, evitare la continua violazione della privacy – ovvero che i nostri dati vengano utilizzati in modi che non conosciamo –, andrebbe definito il diritto di proprietà sui dati personali.
Anche qui, durante la mia esperienza, la domanda era ricorrente: è in grado la politica di affrontare questa sfida?
Per fare questo la politica ha appunto bisogno di cultura politica, di studio e di passione che consentano, scrive Gramsci, di superare il terreno della vita economica, «superarlo facendo entrare in gioco sentimenti e aspirazioni nella cui atmosfera incandescente lo stesso calcolo della vita umana individuale obbedisce a leggi diverse da quelle del tornaconto individuale…»
C’è una incredibile vitalità nel mondo della ricerca, della cultura, del lavoro e dell’impresa che sfida senza timori e con successo le prove dell’innovazione. C’è una società che in parte, purtroppo, guarda con sfiducia, distacco e insofferenza alla politica e non si sente più rappresentata. Occorre con maggiore umiltà, ma con l’orgoglio di una storia importante, ripensare il futuro del nostro Paese. Un Paese unico per il valore dei suoi beni culturali, per la bellezza del suo paesaggio.
Nella legge Valore Cultura decidemmo di dedicare il primo articolo a Pompei anche perché ero e sono convinto che il Mezzogiorno deve essere il simbolo della rinascita del Paese; un Mezzogiorno capace di indicare il valore di tutela del patrimonio storico-artistico, nelle forme idonee a ricreare quel senso di comunità che oggi abbiamo smarrito. Ma sono altresì convinto che nel Mezzogiorno dobbiamo sperimentare forme di sviluppo differente, in grado di conciliare il rispetto del paesaggio con le sfide dell’innovazione e della valorizzazione. Credo che i progetti non debbano essere calati dall’alto ma contenere tutte le espressioni di una comunità, creando modalità virtuose in grado di mettere un freno alla speculazione, alla corruzione, al diffondersi delle attività della criminalità organizzata. Ma le scelte che decidiamo di affrontare devono nascere dalla capacità di leggere il cambiamento e dalla scelta di rispettare e conoscere il passato.
L’antifascismo nell’Italia liberata assunse – grazie all’elaborazione di una classe politica – le forme di un patto costituzionale che trovò il punto di definizione nell’attuazione della Carta costituzionale del 1948. I padri costituenti sentirono il dovere di aiutare la nascita di una nuova Italia, di una nuova classe dirigente capace di pensare un Paese nuovo; avvertirono la necessità di elaborare forme e strumenti in grado di tutelare la democrazia di una nazione. Definirono le loro scelte sulla capacità di basare la direzione politica sul consenso, orientando le scelte della politica sulla base di una visione della realtà più alta e convincente, capace di coinvolgere i cittadini, di dare un significato e una speranza alle nuove generazioni.
Se penso a quegli anni, mi ha sempre colpito la storia e la vita di un intellettuale che ho amato molto: Leone Ginzburg. Come ricorda Norberto Bobbio, la formazione culturale e politica di Leone avvenne tra il 1927, anno della licenza liceale, e il 1934, anno del primo arresto, ossia tra i 18 e 25 anni. La sua carriera di studioso fu stroncata dalla milizia fascista negli anni in cui normalmente comincia. Uscito di prigione, nel 1936, e sino alla morte, nel febbraio 1944, il suo lavoro – intenso, seppur in condizione di grande disagio – fu rivolto alla definizione del catalogo Einaudi, ad un progetto culturale che sarebbe stato, nello stesso tempo, un progetto politico. «L’immensa energia e intelligenza e capacità critica che prodigò», scriveva Bobbio, «come editore per altri, correggendo o rivedendo da cima a fondo traduzioni, testi, prefazioni, commenti fu un lavoro anonimo di cui non resta traccia che nel ricordo degli amici […] e nel robusto e unitario impianto delle collane edit...