La via tra le montagne
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La via tra le montagne

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La via tra le montagne

Informazioni su questo libro

Un romanzo di formazione personale e politica, che ha sullo sfondo un Paese del Sud America sotto dittatura, in un'epoca senza tempo, racconta le vicende di Leòn alle prese con la passione, l'amore, la meditazione, le battaglie civili per il popolo indigeno.Arrestato per motivi politici, in carcere Leòn incontra un curandero indio che lo inizia alle pratiche della consapevolezza di sé e degli altri.Quando, una volta libero, si trasferisce nell'altopiano, le vicende personali si intrecciano con quelle collettive di una comunità che vuole impedire l'espropriazione della terra da parte di un potente latifondista: la liberazione passa dalla mente di ognuno e non è solo individuale.

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Informazioni

Editore
Manni
Anno
2016
eBook ISBN
9788862667395

LA FORTEZZA

Uno

Grigio era il cielo, nuvole basse sulle montagne scure. Il vecchio autobus saliva arrancando sulla sterrata a mezza costa. Leòn guardava fuori dal finestrino sporco coperto da una griglia di metallo, proiettando la sua angoscia nel paesaggio desolato, sulle pietre dell’arida valle.
Gli altri detenuti e le guardie sedevano in silenzio ondeggiando agli scossoni dell’autobus, chiusi in sé stessi. Solo le catene tintinnavano al movimento dei corpi. L’odore di panni sudati e cibo raffermo, prima insopportabile nell’afa della pianura, svaniva lentamente nell’aria pungente della salita.
Alzò lo sguardo verso la cresta di fronte, dall’altro lato della valle, le cime come i denti di una sega immensa. Riconobbe una vetta che aveva raggiunto anni prima, ancora matricola, con una lunga escursione del circolo alpinistico dell’università. Che panorama, da lassù, a quel tempo!
Erano partiti all’alba, da un alberghetto spartano nel fondo d’una valle secondaria, che ora non riusciva a scorgere. Il panorama s’allargava man mano che salivano, fino ad aprirsi sull’intero altopiano, quando furono sotto la vetta, nel pieno della luce del giorno. In cima, tre falchi volteggiarono sulle loro teste. Fu lì che conobbe una insegnante, che poi ad un ballo studentesco gli presentò Graçia. Graçia!
L’immagine del suo viso in lacrime gli lampeggiò nella mente e gli premé sul cuore. Solo quell’ultima notte l’aveva vista piangere, mentre rifiutava di fuggire con lui. Ritornò il ricordo di quell’angolo sotto casa di lei, nel bel viale ormai deserto che separava la città vecchia dai quartieri residenziali. Il biglietto diceva: “Vieni subito devo parlarti”. Era andato. «La tipografia è stata scoperta, siamo finiti.» Lui aveva risposto di slancio, senza pensare: «Andiamo via insieme, stanotte, subito, oltre frontiera». Lei lo aveva guardato in volto, scuotendo la testa in silenzio, un fremito sulle labbra che divenne pianto. Ora, il ricordo commosse lui.
Una guardia percorse il corridoio tra i sedili controllando le catene e i detenuti, messi a sedere il più possibile distanti l’uno dall’altro.
Arrivatogli vicino, guardò Leòn con gli occhi a fessura e sibilò: «Allora dottorino, vedrai che bella laurea ti daranno!» E strattonò la catena, che gli diede una fitta alla caviglia. Era un meticcio alto e grosso, la giubba slacciata e i denti guasti. Leòn ebbe l’impulso di colpirlo sotto il mento, dal basso, come in palestra; si trattenne, espirando con forza. L’altro capì, allargò il ghigno ed alitò: «Allora, che vuoi fare?» con la mano già al manganello.
Un comando secco ed incomprensibile come un latrato arrivò dalla testa dell’autobus. Il gorilla si fermò e tornò avanti ondeggiando, dopo avergli scoccato un’ultima occhiata di disgusto.
Il disgusto era il suo, di Leòn. Dov’era finito? Che gli sarebbe successo? Fuori, cominciò a piovere, grosse gocce rade di nevischio appena sciolto sul vetro sudicio del finestrino. Ora faceva freddo; si rannicchiò nel poncho ricavato da una coperta militare. Di nuovo, tornò al pensiero di Graçia e a quella notte. Le aveva chiesto: «Perché non vuoi venire, è per i tuoi?» «No», aveva risposto lei «è perché non abbiamo soldi, né documenti, né un posto dove andare. Sarebbe una follia. Abbiamo fatto solo un giornale non autorizzato. Ci prenderebbero alla frontiera, e sarebbe peggio.» Non si fidava di lui. Aveva ragione, pensò. Ho sbagliato a voler uscire allo scoperto, col giornale. L’avevano detto, Enrique e El Flaco. Ma lei ci aveva creduto. Uscire dall’università, aprirsi alla città, agli insegnanti, agli operai dei sobborghi. Fu lei a convincere gli altri studenti del collettivo. Com’era bella! Risentì sulle labbra il lieve tocco delle labbra di lei, morbide e bagnate di pianto. Il loro primo ed unico bacio, quella notte, prima di essere arrestati.
Avrebbe potuto averla, o forse no. Enrique le faceva la corte, col garbo e la sicurezza di un rampollo di buona famiglia, ma lei lo teneva a bada. Perché l’intesa l’aveva con lui, tra loro due, Leòn lo sapeva, c’era quello che lei chiamava “un contatto da cuore a cuore”. Ma nonostante l’intesa la scintilla non era mai scoccata, generando la fiamma. C’era la dittatura, la politica, il movimento degli studenti. Alibi, si disse Leòn. Per la sua incertezza, i suoi timori, il suo sentirsi inadeguato… beh, inadeguato lo era senz’altro.
L’autobus si fermò in un punto dove la sterrata si allargava in uno spiazzo pietroso. «Sosta fisiologica» annunciò il vecchio sergente. «Che cosa?» grugnì un detenuto. «Scendete per pisciare, bestie» tradusse la guardia coi denti guasti. Non pioveva più, ma l’aria era umida e fredda sotto le nubi compatte.
Scesero impacciati dalle catene e si allinearono di fronte alla parete rocciosa, le spalle all’autobus. Leòn era l’ultimo della fila. Il freddo lo aveva stimolato, ma si intricò tra il poncho, la giubba e i calzoni da detenuto, tenuti su da un laccio.
«Che fai, dottorino, non riesci a trovarlo?» gli fece il meticcio, spingendogli il manganello dritto nella schiena. Coi calzoni slacciati e la catena ai piedi, Leòn fu per perdere l’equilibrio, ma flesse le ginocchia ed allungò il piede destro in avanti, di quel tanto che poteva. Bastò.
«Basta, Marcòn! Piscia anche tu, invece di far casino!» ordinò il Sergente.
Leòn si rialzò, mentre Marcòn, ingrugnato, la andava a fare dall’altra parte dell’autobus, nel burrone.
Finita la funzione, mentre aspettava che la fila incatenata risalisse sull’autobus, Leòn guardò il Sergente. Alto, magro, capelli bianchi corti a spazzola, faccia scavata ed occhi di metallo. Duro e tranquillo, in quello schifo di situazione. Come Alejo, il tipografo. Si somigliavano molto, fisicamente e nell’atteggiamento. Solo, Alejo aveva i capelli più lunghi, che lucevano grigi sotto la brillantina. Nella tipografia semibuia gli aveva detto: «Va bene, giovanotto, vi faremo pagare solo la carta. Quella arriva contata, qui in tipografia, e dovremo comprarla fuori». Leòn lo aveva ringraziato. Nel grande locale c’erano solo loro due e un giovane operaio silenzioso.
«Lo stamperemo di sera, a quest’ora, quando resta qualcuno a fare lavoro straordinario. Bisognerà organizzare un turno, che siano tutti fidati.» Il giovane aveva annuito, serio.
Leòn era imbarazzato e ringraziò ancora. «Rischiate parecchio» gli aveva detto. «Abbiamo rischiato di peggio, e c’è anche capitato, di peggio» fu la risposta. «Sì, possono licenziarci, un po’ di galera, ma poi di tipografi c’è sempre bisogno, siamo pochi.» Sorrise a mezza bocca, dal lato di una cicatrice che gli solcava il viso tra le rughe, dallo zigomo alla mascella. Lavoro pesante, battaglie, galera, poi ancora lavoro. Era la vita, duro e tranquillo in quel mondo di schifo. Come il Sergente, dall’altra parte della barricata. Ma come fanno, a reggere così? Non sarò mai come loro, s’incupì Leòn rannicchiandosi sul sedile sotto il poncho ruvido.
L’università, la palestra, la montagna… ma la vita è un’altra cosa.
Cercò di assopirsi ma gli doleva la caviglia stretta nel ferro. Il cattivo odore dell’autobus gli pesava sul petto. No, era l’angoscia della sconfitta. All’università, nel collettivo, gli era parso d’aver vinto. La sua linea era passata. Se avesse perso, ora sarebbe ancora libero, a passeggio con Graçia… Ancora la morsa nel petto.
Fare un giornale che desse voce alle forze di opposizione ancora latenti, agli insegnanti, agli operai dei sobborghi… Ricordò la discussione decisiva nel piccolo anfiteatro coperto dell’università, dove si riunivano sotto la copertura della Filodrammatica studentesca. La sorpresa di fronte all’intervento contrario di Enrique Avila, il capo degli studenti di Giurisprudenza, che fino a qualche mese prima voleva unirsi alla lotta armata. Non era il momento, diceva, avrebbero messo a rischio l’organizzazione degli studenti. La stessa posizione del capo del sindacato dei dipendenti dell’università, una organizzazione semiclandestina con la quale erano in contatto. Lo avevano visto la sera prima, in una bettola di periferia. El Flaco, lo avevano soprannominato, un bidello meticcio di mezz’età, magro, col cranio allungato sotto i capelli radi ed occhi piccoli ma penetranti. Non era il momento, era rischioso. Nella bettola Enrique aveva taciuto mentre Leòn insisteva sull’opportunità di uscire dall’università, poi nel collettivo s’era schierato contro. Per buona sorte, a favore del giornale era intervenuta Graçia, con un discorso razionale ed appassionato insieme: gli spazi si stanno aprendo, aveva detto, bisogna occuparli. Dopo la sconfitta della guerriglia la “dictadura” stava diventando “dictablanda”, c’era la pressione internazionale, la richiesta di amnistia, il nuovo Arcivescovo. Votarono a favore quelli di Lettere e di Ingegneria, oltre ai suoi di Medicina. Contro, solo Giurisprudenza. La vittoria gli aveva riempito il petto: si sentì il Capo. All’uscita, tutti lo salutarono con rispetto, anche Enrique e i suoi.
Il senso di vittoria durò un paio di settimane, fino al biglietto di Graçia, all’arresto, al processo. E a questo autobus, dal quale ormai si vedeva la fortezza, alta sulla testata della valle. Grigia anch’essa come le montagne, si stagliava severa e massiccia contro il cielo opaco.
“La meta finale” pensò Leòn “venti anni… Ci morirò, là dentro.”
La fortezza era enorme. Poggiava sulla cresta che saliva dolcemente fino ad un baratro che la tagliava di netto. Lunghe muraglie di pietra grigia appena più pallida delle rocce su cui poggiavano, screziate alla base di macchie di muffa e da radi cespugli che confondevano lo stacco tra la costruzione e il monte, quasi apparendo l’una come un’escrescenza dell’altro. Forma possente ed allungata, bastioni e mura interrotte da torrette e torrioni diseguali, fino al corpo centrale, una tozza costruzione situata nella parte più in alto, anch’essa sagomata da torrette e rientranze che frangevano tetti d’ardesia lucenti di brina. Stagliava nel cielo un disegno casuale e squadrato che interrompeva e proseguiva il profilo delle creste, una spezzata senza picchi né gole che saliva a scatti fino all’abisso terminale.
La strada terminava su uno spiazzo sterrato, dove la muraglia rientrava verso un grande portone di legno e di ferro, guardato dall’alto da lunghe feritoie a bocca di lupo. Il portone era aperto. Nell’entrare, Leòn avvertì una sensazione positiva, come di sollievo, per la protezione che la fortezza gli offriva. La respinse: era certo la fine del viaggio, ma anche l’inizio della galera! Scesero dall’autobus in un grande cortile nudo, con un’alta saracinesca arrugginita nel muro dell’edificio di fronte, di fianco a una porta di legno. In alto, un rettangolo di cielo come di cenere. Dentro, interni spogli e lo stesso odore dell’autobus, freddo, polvere e residui organici. Guardie di malumore, ordini secchi come latrati, i detenuti chiusi nel silenzio degli sconfitti.
Si misero in fila davanti al bancone della registrazione che divideva a metà la grande sala d’ingresso, male illuminata da finestre a feritoia e polverosi tubi al neon. Rumori ogni tanto, colpi metallici e tonfi sordi, attutiti dalle spesse pareti di pietra nuda. Alle spalle del bancone scaffali di legno alti fino al soffitto, con fascicoli e scartoffie a mucchi.
Quando fu il suo turno, Leòn s’avvicinò al banco e disse il suo nome. Mentre cercavano le sue carte, una guardia si chinò e gli tolse ceppi e catene dalle caviglie. Il rumore del metallo sul pavimento fu coperto, all’improvviso, dalle note di un organo, lontane ma chiare, accordi in crescendo di un brano di musica sacra. Leòn se ne stupì, e ristette all’ascolto per qualche momento, finché la guardia di fianco non lo scosse bruscamente, per fargli rispondere alle domande del Sergente dietro il banco.
Altro stanzone, altro bancone per la distribuzione della “dote”, come la definì ghignando un secondino. Una coperta grigioverde ruvida, un telo di canapa, giubba e calzoni di panno simile a quello della coperta ma più leggero, biancheria di tela grezza, gavetta e posate d’alluminio. Sulla giubba, un numero. La musica continuava, limpida e lontana.
Il secondino della dote lo accompagnò alla cella, continuando a ghignare. «Studente, eh? Bella carriera, che hai fatto.» Leòn lo ignorava, camminandogli dietro per corridoi tortuosi e scale ripide e strette. «Non parli, non ti degni, eh? Che credi, che a far finta di niente, tutto questo scompare? Vedrai tu…» La musica non si sentiva più. Venti anni! Il pensiero dell’infinita lunghezza della pena tornò a colpire la sua mente con una fitta acuta, come una frustata.
Arrivarono alla cella. Dentro, tre uomini. Uno grosso ed alto col naso schiacciato, uno magro che somigliava al Flaco, l’ultimo seminascosto dall’esile muretto divisorio che in fondo al locale nascondeva il bugliolo. Quattro letti a castello affiancati due a due alle pareti laterali, armadietti di legno scrostati appesi prima e dopo i letti, un tavolino e uno sgabello di fronte all’angolo del bugliolo, sotto la finestrella con l’inferriata. E puzza.
Uscito il secondino, il grosso si presentò: «Studente, eh? Beh, qua dentro i tuoi libri non ti servono a un cazzo. Devi imparare tutto daccapo».
«Cioè cosa?» gli rispose Leòn, ostile.
«La prima cosa» ringhiò l’altro «è che qua dentro comando io.» E gli si avvicinò, fissandolo in volto.
Leòn distolse lo sguardo, annuì con un groppo in gola e si girò a sistemare la dote nell’armadietto.
«Poverino, è ancora traumatizzato dalla fortezza…», motteggiò quello venuto fuori dall’angolo del bugliolo, con gli occhi bistrati e una vestaglia lisa di seta verde. «Io sono Clara» si presentò, portando la destra al petto. Il grosso grugnì e si buttò pesantemente sulla sua branda, aprendo un giornale illustrato.
Quello che somigliava al Flaco si avvicinò a Leòn e gli disse secco: «La tua branda è questa quassù. Fa’ quello che ti diciamo e non rompere i coglioni». Leòn buttò telo e coperta sulla branda e fece per salirvi, quando all’esterno s’alzò un fracasso metallico, come sbarre che scorressero sulle inferriate.
Un vociare dalle celle e la vestaglia canterellò: «È l’ora della pappa». All’esterno stava facendo buio e il neon bastava appena a dar luce agli ambienti, vasti e tetri tra gli spessi muri di pietra grigia.
La sala della mensa era più illuminata, grande come una chiesa con le guardie su un ballatoio che girava in alto intorno alle pareti e i detenuti giù, seduti alle panche lungo i tavoli di legno.
Leòn si mise in fila con gli altri, fino al bancone dove il pasto era servito da detenuti grassi, con grembiuli macchiati d’ogni colore come carte geografiche. Dopo aver riempito piatto e gavetta sul vassoio di metallo, sedette vicino al Flaco e agli altri due di seguito. «Eri abituato a ristoranti migliori, eh?» gli fece il secco. «Poverino» tornò a schernirlo Clara, mentre il grosso taceva, scambiando occhiate e cenni d’intesa con altri ceffi seduti altrove.
Leòn guardava il cibo, una poltiglia grumosa con verdure scotte ed un odore strano. Sentiva lo stomaco chiuso ed era frastornato.
Un vecchio indio seduto di fronte si sporse un po’ sul tavolo e gli mormorò, piano ma distintamente: «Fatti coraggio, mangia qualcosa. Non è così male».
Leòn alzò la testa e lo fissò. Capelli grigi, pelle brunita come il cuoio, naso pronunciato sotto la fronte alta. Spalle squadrate. Soprattutto, occhi chiari e scintillanti che lo guardavano dritto. Entrò in quello sguardo e quello sguardo entrò in lui. «Mangia, adesso» ripeté il vecchio abbozzando come un mezzo sorriso con le labbra sottili. Gli altri detenuti s’abbuffavano senza parlare, solo risucchi e mugolii.
Leòn ubbidì, affondò il cucchiaio nella poltiglia e lo portò alla bocca. Tiepido e grumoso, come pasta scotta o pappa d’avena, senz’altro sapore che un sentore d’unto. Mandò giù.
«Appena arrivato?» sussurrò il vecchio. Annuì. «Politico.» Annuì ancora. «Quanto?» «Vent’anni» gli uscì a fatica dal groppo che aveva ancora in gola.
«Sssst» gli sibilò il Flaco. Una guardia passò vicino, guardando in giro tra i tavoli col lungo bastone appoggiato a una spalla.
Il vecchio aveva finito. Rimase immobile a fissare Leòn, che sentì scorrere quello sguardo sul viso come un’acqua che non bagnava. Era ancora frastornato, e gli parve di risentire un’eco degli accordi d’organo del pomeriggio.
Il Flaco gli dette di gomito: «Oh, svegliati, andiamo!» E la Clara: «Ma non hai mangiato nulla». Si stavano alzando tutti. Il vecchio lo salutò con un lieve cenno del capo e un balenio degli occhi. Lui rispose alzando una mano incerta. Notò che gli altri eludevano lo sguardo del vecchio e ora si scansavano davanti al suo incedere, elastico e leggero come quello di un ragazzo.
Tornarono alla cella, ormai semibuia.
Andarono a turno al bugliolo, Leòn per ultimo. Dovrò abituarmi anche a questa puzza, pensò con angoscia.
«Pulisci in terra» latrò il Flaco alle sue spalle. «Cosa?»
«Straccio ed acqua, bellino, tocca a te che sei l’ultimo» spiegò la Clara dal buio.
Leòn eseguì.
Uscito dall’angolo, s’accorse che il suo telo era stato teso, a mo’ di tenda, tra la branda superiore e la branda di sotto del castello di fronte al suo. Il Flaco trafficava con la coperta della branda sotto la sua. Il grosso, prima di sparire dietro la tenda, digrignò: «Ora dormi e non rompere il cazzo».
«Buonanotte…» mormorò Leòn salendo al suo posto.
Un filo di luce dalla finestrella. Cigolii e sussurri dall’altro letto a castello, dietro il telo. Tanfo gelido. Leòn sedeva sulla branda con le spalle al muro e le ginocchia piegate davanti a sé, la coperta sulle spalle. Il suo fiato s’addensava nel raggio di luce che scendeva obliquo, mescolandosi ad altre volute che salivano dal fondo della cella ed al luccichio dei granelli di polvere.
Il Flaco cominciò a russare, piano e regolare. Dopo un po’, seguì il grosso, più forte e variato, con sussulti, pause ed acuti. La checca mugolava ogni tanto.
Vent’anni così? Morirò molto prima. Il disgusto venne soverchiato dalla disperazione. Reagisci, si disse Leòn. Ma perché, vent’anni, solo a lui? L’ingiustizia di quella condanna tornò a bruciargli. Certo, era il capo, ma non c’era proporzione con le pene inflitte agli altri. Meglio per Graçia, pensò con un po’ di sollievo misto alla solita fitta. Sei mesi, e scarcerata subito. Era un tribunale civile, non militare, con gli avvocati e tutto. Lo stato d’assedio era finito da quasi un anno, dopo le sconfitte della guerriglia. Tuttavia, l’accusa aveva sostenuto che lui era in contatto con i terroristi ancora liberi, senza fornire prove. Ma il suo avvocato non era riuscito a farsi valere. Il suo avvocato, ricordò con rancore, lo sguardo sfuggente dietro gli occhiali spessi, che assentiva ad ogni frase, ad ogni cenno che gli rivolgeva l’avvocato vero, il padre di Enrique, il principe del foro che aveva guidato la difesa di tutto il gruppo. Era Enrique che aveva avuto contatti con la guerriglia o quel che ne rimaneva.
Ma le delazioni senza nome citate dall’accusa parlavano di lui. Così, il principe del foro riuscì a dimostrare che Enrique e gli altri non sapevano nulla dei rapporti di Leòn con i terroristi, ottenendo per tutti condanne a pochi mesi, per associazione non autorizzata e propaganda sovversiva, e per molti, tra cui Enrique e Graçia, una scarcerazione sulla parola. Solo per lui, cospirazione armata contro il potere dello Stato. Solo per lui, venti anni di carcere. Maledetti avvocati! Ma dietro di loro, ne era certo, aveva l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prologo
  3. LA FORTEZZA
  4. IL CAMMINO
  5. L’ALTOPIANO