MALGRADO IL VENTO
Il mondo dal minimarket
Le era capitato di pensarlo come un gigantesco frigorifero, un modello vecchio ed economico.
Sui ripiani, anche il superfluo che rende un regime di sopravvivenza meno frugale e scialbo. Vasetti di funghi sott’olio, budini, bottiglie di aperitivi e, perfino, curry in polvere, se si aveva la pazienza di cercarlo sul fondo dell’espositore.
Una sorprendente concentrazione di prodotti nello spazio di due brevi corridoi.
Le ricordava anche certi empori di montagna, ormai rari. Dove imbottiscono panini con burroso formaggio di malga e dove si possono trovare la crema solare dimenticata in città o le stringhe degli scarponi. Sono negozi in cui dispensano previsioni del tempo basate sull’osservanza di tradizioni da calendario o sull’addensarsi delle nubi attorno ad una particolare cima.
Il giorno in cui Marta s’era trasferita nel quartiere era una domenica minacciata da nevischio. Trovare il minimarket aperto, di fronte a casa, le aveva consentito di procurare acqua, birre e caffè per i ragazzi che avevano trasportato i mobili, di prendere una pizza surgelata per la sera e il latte per la colazione.
Aveva subito pensato che quel negozio con orari di apertura più flessibili degli altri fosse una benedizione per il suo stile di vita poco routinario e disorganizzato. Bastava attraversare la strada. E non avrebbe dovuto mendicare il paio di uova o il sale grosso dai nuovi vicini.
Quello che trovava curioso era che, benché quel piccolo esercizio commerciale rappresentasse, in teoria, il luogo della spesa in extremis, dell’acquisto trafelato, in pratica incoraggiava ad attardarsi tra gli scaffali o alla cassa, dove ristagnava un ozioso gruppetto di persone restie ad andarsene.
Attardarsi. È il verbo che meglio s’attagliava a quel minuscolo supermercato di quartiere, in cui nulla era accattivante e in cui anche le golosità perdevano l’allure seduttiva che hanno nei grossi supermercati.
Si aveva l’impressione che un nugolo di clienti abituali vi ronzasse dentro ogni giorno, come se faticasse a trovare l’uscita. Gente che non aveva fretta, ma case vuote. E se ne scappava, disperdendo il tempo un po’ ovunque.
Una fuga con lentezza.
C’era sempre qualcuno che non poteva fare a meno di giustificare il proprio acquisto.
«Anche oggi sono tutti a pranzo da me» commentava, tra il fatuo e il rassegnato, la signora che tutti chiamavano Lilli, scostando i capelli che le piangevano, snervati e unti, sul viso.
Adelmo, insediato alla cassa, col berretto di lana calato sulla fronte, batteva l’importo delle solite bottiglie di Martini e vino rosso. Fingendo di credere, come tutti, alla fiaba della grande famiglia che Lilli non aveva.
Del resto, pensava Marta, ognuno ha i propri alimenti di conforto, come per lei le cipolline in agrodolce e i budini alla vaniglia.
Una presenza immancabile era quella del signor De Angeli, che raccontava aneddoti che riteneva boccacceschi, ma che non avrebbero fatto arrossire nemmeno una suora. La domenica mattina veniva a ciondolare in negozio, lasciando la moglie a rimestare tragedie televisive davanti ai vapori della consueta polenta. E si rendeva utile riempiendo le buste alla cassa e aprendo la porta alle signore, con ammicchi sornioni. E poi Robertino che, a dispetto del nome, aveva più di sessant’anni e viveva con la madre inferma e una badante rumena.
C’era la signorina Beltrami, che si dimostrava sempre aggiornata sui fatti di cronaca, e Duilio, ch’era nato in tempo di guerra e da lì guardava il presente, senza vederlo.
Tra le solite facce, ogni tanto comparivano, inaspettati, una studentessa tatuata, un ragazzino brufoloso di piercing. A distinguerli dagli altri la fretta, soprattutto.
Era quella, più che altro, ad irritare Adelmo, che ci teneva a quegli spiccioli di conversazione che dispensava a tutti.
Con meticolosa precisione, sgranava resto e luoghi comuni. La lentezza con cui contava e ricontava i centesimi, dilungandosi e inframmezzando perle di saggezza, le suscitava sempre il dubbio che queste ultime, in realtà, fossero per lui la moneta più preziosa. Era un modo, anche quello, di attardarsi?
«È bellissima l’Australia», assicurava, come diceva «È buonissimo» d’un ragù in scatola che probabilmente non aveva mai assaggiato.
Quotidianamente informato sulle previsioni meteorologiche, non si era mai allontanato dalla città, dal quartiere, dal suo negozio. Come un capitano di vascello che allerta il suo equipaggio, avvertiva:
«Ah… non c’è da fidarsi… tra poco vien giù che si salvi chi può…» e teneva sempre una scorta di ombrelli sfilacciati per gli improvvidi clienti.
«Sabato e domenica sole tutto il giorno» rassicurava: «L’ideale per un gelatino al lago o per una gitarella su nella valle di…»
Da quel che si sapeva, Adelmo non s’era mai spinto oltre la periferia, dove giganteggiavano i centri commerciali. E Marta si domandava che idea avesse, in realtà, dei monti che circondavano la cittadina, di quel lago di cui parlava con familiarità, del mondo…
Il suo minimarket aveva l’aspetto di ciò che si estingue piano, ma inesorabilmente. Sembrava sempre sul punto d’essere arrivato al traguardo, eppure continuava ad essere una certezza.
D’estate Robertino, De Angeli, la Lilli vi stazionavano a lungo, cercando ricovero dalla canicola, perché dalle celle dei prodotti freschi spirava una corrente gelida. Nelle giornate autunnali, intristite da lunghe piogge (che puntualmente Adelmo aveva preannunciato) o quando alle cinque scendeva il buio, la luce al neon del minimarket riscaldava la via deserta.
Faceva compagnia, a suo modo.
E la serranda che mitragliava il silenzio nell’ora di chiusura era come un rintocco, risonante dell’idea della giornata compiuta, del lavoro concluso e della pausa meritata. Anche per Marta, il cui lavoro era svincolato da orari.
La finestra del suo studio affacciava sulla strada. A volte, distoglieva lo sguardo dallo schermo del computer, dall’articolo appena abbozzato e scorgeva la sagoma di Adelmo, incoronato dalla falda del berretto, seduto sul suo trono a macchia di leopardo: finta pelle lacerata e gommapiuma ingiallita.
Marta non avrebbe mai immaginato che Adelmo potesse abdicare, lasciando il suo piccolo regno al neon.
Lo fece da un giorno all’altro, anche se De Angeli sosteneva che l’offerta gli era già stata fatta più volte.
Gli portarono i contanti in negozio, dopo l’ora di chiusura. Si diceva facessero così.
E dopo una settimana, al posto di Adelmo, c’era una ragazza cinese.
Non era cambiato molto. Se non per il fatto che, all’occorrenza, Marta poteva trovarvi anche bottigliette di sakè e salsa di soia per le sue cene etniche.
Il minimarket, del resto, era rimasto una certezza. La sua algida luce riscaldava la strada buia.
Girava voce che servisse anche di notte, con la serranda abbassata. Che qualcuno dormisse su una branda nel retro e che bastasse bussare.
Le ragazze alla cassa erano gentili, ma dicevano l’essenziale in una lingua che non era la loro.
Raramente Marta incrociava i vecchi clienti. Entravano, si aggiravano un po’ spaesati, compravano il necessario ed uscivano.
Non c’era più motivo di attardarsi.
E, nell’uscire, indagavano il cielo, incerti se avrebbe piovuto.
Moglie vicaria
Ogni volta che guardava Camillo, Aldo si meravigliava di quanto assomigliasse a sua moglie.
La prima volta che quel pensiero l’aveva sfiorato gli era parso irriverente. E aveva cercato di allontanarlo. Inutilmente, visto che Camillo, ormai, l’aveva sempre sotto gli occhi.
Certo, non l’avrebbe confidato a nessuno, ma alla fine s’era dovuto arrendere e da lì in avanti aveva preso ad osservarlo con attenzione, sorprendendosi del fatto che prima, quando Ivana era in vita, non s’era mai accorto di questa somiglianza.
Camillo era il cane di sua moglie. O il suo “bambino”, come lo chiamava lei. Da quando era arrivato in casa, avevano sempre vissuto in simbiosi. Un mondo a parte nel loro universo domestico. Era Ivana ad occuparsene, a viziarlo. E lui la adorava.
Quando la moglie era morta d’infarto, sei mesi prima, aveva immaginato che il cane se lo sarebbe preso una delle figlie. Era, per lui, la soluzione più ovvia. E preferibile.
Ma la considerazione che “Camillo avrebbe fatto compagnia al babbo” le aveva indotte a lasciarglielo.
Che idea balzana, si era detto, ripromettendosi di convincerle, prima o poi, che sarebbe stato meglio con loro, così abituate ad allevare cani e gatti.
Perché, oltretutto, che ne sapeva lui di come ci si comporta con un cane?
Il dubbio, tra l’altro, le figlie dovevano averlo, visto che ogni volta che lo chiamavano la prima domanda era: «E Camillo?»
«Dal canile mi dicono che si è ambientato» rispondeva Aldo.
«Dai… papà, non scherzare».
Ma una sera, mentre seguiva un documentario seduto sul divano, ad un certo punto Aldo si era voltato e aveva posato lo sguardo sulla sagoma accanto a sé. Il cane lo stava guardando.
Ed era lì che se n’e...