Giò Stajano, giornalista
A volte accade che la portata di alcuni gesti superi le intenzioni con cui erano concepiti: non credo che Giò Stajano, mentre decideva di vivere la propria omosessualità alla luce del sole, sapesse quello che avrebbe rappresentato per il movimento lgbt in Italia. Certo è che senza Giò la storia dell’omosessualità nel nostro Paese sarebbe stata diversa.
Quando inizia la sua vicenda, negli anni Cinquanta, un uomo gay era semplicemente “pervertito”, o meglio “invertito”: invertiva i dettami della natura, le regole della società e quelle della famiglia. (Una lesbica, beh, non era quasi neanche contemplata). Giò Stajano, tuttavia, riuscì a ritagliarsi un spazio di visibilità proprio in quanto omosessuale.
Tra provocazioni ed eccessi, con coraggio e fantasia, quel giovane salentino dalle grandi ambizioni arrivò a squarciare il velo di imperante bigottismo dietro cui si trincerava la società borghese.
Negli anni Cinquanta, e nel ventennio successivo, Giò contribuì enormemente a rendere manifesta e dunque “accettabile” l’omosessualità, offrendo un’immagine anche “esotica” e provocatoria ma che in ogni caso aprì una falla nel silenzio e portò allo scoperto un tema – e delle persone in carne e ossa – fino ad allora senza diritto di cittadinanza. (E qui “diritto di cittadinanza” va inteso metaforicamente, come diritto all’esistenza; perché per i diritti giuridici bisognerà aspettare ancora molto, e nonostante importanti recenti conquiste non possiamo considerare il cammino concluso).
Giò non aveva consapevolezza della rivoluzione dei costumi che avrebbe avviato, cercava soltanto di vivere il proprio orientamento sessuale nella maniera più libera e naturale possibile.
Ma grazie alla sua intelligenza e alla sua ironia riuscì a condurre un’esistenza alla luce del sole e a diventare anche un personaggio alla moda, che anzi la moda la inventava e la dettava.
Nato nel dicembre del 1931 in un paesino del Salento da una famiglia bene e di solide tradizioni conservatrici, nipote del gerarca fascista Achille Starace, a poco più di vent’anni Giò Stajano divenne protagonista della Dolce vita romana, il periodo storico e soprattutto fenomeno di costume consacrato dall’omonimo film di Federico Fellini.
In quei salotti romani e nei locali di via Veneto Giò fu interprete di primo piano. Colto ed elegante, con i suoi capelli (spesso) ossigenati e i tratti delicati, Giò rubava la scena ai divi del cinema: dettava regole di stile, inventava tendenze, come quella del maglioncino a collo alto che oggi conosciamo come “dolcevita”; e si imponeva ai flash dei paparazzi con le sue trovate, piccole o grandi: come andare a passeggio con una gallina al guinzaglio, battere a macchina i suoi articoli sul tetto di un palazzo o inscenare un suicido per amore.
Scriveva la giornalista Milena Milani, tra le penne più celebri di quegli anni: “Giò era sempre presente al posto giusto, nel momento giusto. Certe volte indossava calzoni plissettati, di un tessuto di velo in tinta pastello, e camicie anch’esse trasparenti, aperte sul petto, dove metteva le sue famose collane e pendagli. Portava cinture dorate con borchie, che nessuno osava e usava. Giò inventava la moda”.
Se in quel periodo apparire su un giornale cominciava ad essere una gara, Giò non aveva rivali, perché puntava sull’“amoralità” in un’Italia profondamente bigotta.
Nel 1959 Giò Stajano pubblicò Roma capovolta, un romanzo in cui raccontava il mondo dell’omosessualità nella Capitale senza alcun infingimento, salvo avere l’accortezza di non utilizzare i nomi delle persone realmente esistenti di cui parlava. Il libro suscitò uno scandalo enorme: dopo due mesi dall’uscita venne sequestrato, bruciato in piazza, e Giò fu condannato per offesa alla pubblica morale.
Questo gli diede una grande notorietà, tanto sulla stampa che nei cinegiornali: d’altronde era il primo omosessuale in Italia a dichiararsi pubblicamente.
Dal momento del sequestro, Roma capovolta divenne tanto introvabile quanto ricercato, e il suo autore l’ospite più ambito di salotti e feste.
Per Giò iniziarono ad arrivare moltissime offerte di lavoro: dalle comparsate in locali in ogni parte del Paese, alle collaborazioni con giornali e settimanali che spesso l’avevano visto protagonista sulle pagine di cronaca rosa.
Quando nel 1960 scoppiò lo scandalo dei Balletti verdi, un’inchiesta della Procura di Brescia che coinvolse l’ambiente altolocato della città e diventò celebre in tutta Italia coinvolgendo duecento persone tra cui anche nomi noti dello spettacolo, Giò fu convocato dai magistrati per essere ascoltato come “esperto dei vizi umani”. Mentre il “Giornale di Brescia” parlava di “dilagante circuito del vizio”, “convegni immorali” e “trattenimenti di genere irriferibile”, Giò si presentò in tribunale tra i flash dei fotografi, acclamato come una star, e sedutosi in aula prese a sferruzzare a maglia: sapeva bene cosa gli avrebbe fatto guadagnare le pagine dei rotocalchi.
Negli anni Sessanta riuscì poi a ritagliarsi spazi artistici più definiti e importanti, prima nella pittura insieme a Novella Parigini, protagonista della Dolce vita romana; poi nel cinema dove fece molti ruoli da comparsa, come quello in Totò Peppino e la dolce vita e poi, negli anni Settanta, in In nome del popolo italiano di Dino Risi e Il comune senso del pudore di Alberto Sordi. Mentre la sua apparizione nella pellicola simbolo di quel periodo, La dolce vita di Fellini del ’60, non la vedremo mai: recitava nel ruolo di Pierone, un ragazzo effeminato con gli occhiali da secchione e il maglione dolcevita che passa le dritte al giornalista Marcello, “quelli là hanno bevuto un Valpolicella”. Ma Fellini voleva un personaggio tutto mossette e moine, stereotipo di un gay, e questo non piaceva a Giò, che finì tagliato. Si racconta che fu proprio un bagno notturno nella fontana di Piazza di Spagna di Giò e Novella Parigini, con imbeccata pagata ai paparazzi per finire sui giornali, a ispirare Fellini per la celeberrima scena con Anita Ekberg.
Ma fu soprattutto in campo giornalistico che Giò operò una vera e propria rivoluzione per il mondo omosessuale. I contatti e le frequentazioni, lo stare sempre in giro per locali con le antenne dritte a captare flirt e vizi, e il saperlo raccontare con ironia e sagacia fecero sì che Giò diventasse una penna molto ricercata per le pagine di cronache mondane e di pettegolezzi dei vari settimanali come “Stop”, “Lo specchio” e “Momento sera”.
Moltissime testate, anche tra quelle più impegnate come “l’Espresso” e “l’Europeo”, avevano infatti delle rubriche che riportavano notizie (autentiche o inventate) ambientate nei caffè di via Veneto e nei salotti bene della Capitale, protagonisti i personaggi del jet-set e del mondo dello spettacolo.
All’inizio Giò si firmava con degli pseudonimi: per “Stop” era Giorgio Steni, per “Reporter” l’Enfant gaté; per altre riviste si limitava a fare l’informatore senza comparire: su “Momento sera” le notizie che raccoglieva finivano nella rubrica “La Capitale”, su “Lo Specchio” nella pagina intitolata “Cronaca bizantina” coordinata dal barone Enrico de Boccard, che firmava con lo pseudonimo di Duca Minimo.
Ogni gossip veniva pagato, a seconda della sua esclusività e della notorietà del personaggio, dalle dieci alle ventimila lire, che in quegli anni erano una cifra ragguardevole. Così ogni tanto Giò, se era a corto di notizie, dovendo mantenere anche un tenore di vita piuttosto alto, non disdegnava di inventarle. Tuttavia si preoccupava che non lo esponessero al rischio di denunce e querele e non risultassero dannose per l’interessato.
Vi era una collaborazione stretta con i paparazzi, e si passavano a vicenda le informazioni.
C’era un vero e proprio tariffario in base ai nomi dei personaggi coinvolti: un Colonna o un Odescalchi, che fra i nobili romani erano quelli a condurre una vita più appartata, poteva fruttare dalle quindici alle ventimila lire. Un Torlonia sulle diecimila. Coloro che invece apparivano spesso, o che erano poco conosciuti dal grande pubblico, valevano nel borsino non più di cinquemila lire l’uno.
Nel mondo cinematografico, le massime quotazioni riguardavano sempre Fellini, Mastroianni, Visconti, e le coppie Ponti-Loren e Antonioni-Vitti, nonché tutti gli attori stranieri di passaggio per Cinecittà. Per un certo periodo erano ben pagate anche le notizie su Moravia e Pasolini, ma poi secondo Giò anch’essi, come Laura Betti e Novella Parigini, avevano cominciato a realizzare da sé più pettegolezzi di quanto non riuscisse a inventarne lui.
Il primo impiego vero nel mondo del giornalismo arrivò nel 1965, quando Giò entrò nella redazione del neonato settimanale “Big”.
L’editore Saro Balsamo aveva chiamato a dirigerlo Marcello Mancini, con cui Giò aveva lavorato allo “Specchio”, e Mancini volle Giò tra le sue firme. O meglio, siccome il pubblico cui si rivolgeva “Big” era di teen-ager, e il nome di Giò troppo scandaloso, gli chiese di continuare a utilizzare lo pseudonimo di Giorgio Steni.
La rivista si occupava soprattutto dei protagonisti della musica leggera italiana. Alcuni erano già famosi, come Morandi, Tenco, Dalida, Rita Pavone, Celentano o la Carrà. Altri emergenti, come Massimo Ranieri, Patty Pravo o Helmut Berger. E poi vi erano gli sconosciuti: Giò fu la prima a intervistare Franco Nero, mentre era sul set del film Django a Cinecittà.
“Big” ebbe subito un grande successo, vendeva mediamente 450.000 copie, e la redazione era un via vai di giornalisti, o aspiranti tali, che si occupavano di cinema, sport e musica.
Tra questi, Giò ricordava con affetto Sandro Ciotti, con cui andava spesso in trattoria; vi era Gianni Minà, che coordinava i giovani supporters di provincia e le loro notizie circa manifestazioni canore e concerti; Renzo Arbore e Gianni Boncompagni redigevano insieme la rubrica musicale “Bandiera gialla” e procuravano a Giò il materiale fotografico di film interpretati dai cantanti, che poi lui doveva mettere in pagina con le relative didascalie.
“Big” terminò le pubblicazioni nel 1967, perché Balsamo aveva intuito che gli interessi dei ragazzi si stavano rivolgendo altrove.
Così alla fine del ’66 aveva dato vita a un nuovo settimanale, non più destinato ai giovani ma agli adulti, “Men”, il primo in Italia “solo per uomini”.
Il 2 dicembre 1966 uscì il primo numero: in copertina c’era una donna che lacerava un enorme numero 1 di carta con una coscia, lasciando intuire le proprie nudità, nascoste dai brandelli dello strappo.
“Faceva chiaramente intendere che io non ero proprio il tipo di ‘uomo’ più adatto a scrivere su quelle pagine, per totale incompetenza ed entusiasmo in materia. Così, pur con garbo e dichiarazioni di rammarico, fui licenziato”, raccontava Giò.
La rivoluzione di “Men” non consisteva solo nella quantità di nudi, ma nel fatto che non voleva essere “discreta”, non voleva essere venduta sottobanco. Esistevano altre riviste con foto di donne nude a tutta pagina; ma vivevano quasi in clandestinità. L’uscita di “Men”, invece, fu annunciata da un insistente lancio pubblicitario, era un’operazione editoriale, e dunque morale, spregiudicata. “Io ho dato le tette alla Nazione”, diceva Balsamo con orgoglio. E in effetti fu proprio “Men” a pubblicare il primo servizio fotografico con una modella a seno nudo in Italia, nel luglio del 1967, cui sarebbero seguiti i primi nudi integrali femminili, dal 1968.
I primi quattro numeri vennero sequestrati dalla censura, ma quando arrivava l’ordine di sequestro, il giorno dell’uscita, la rivista in edicola era ormai già esaurita.
Uno dei giornalisti più attivi della redazione, Franco Valobra, disse: “Si tratta di rendere via via meno ‘caste’ le foto delle ragazze […] sempre tenendosi nei limiti del buon gusto e delle strette maglie comandate dai corruschi magistrati. […] In più, si combattono e si vincono due guerre fondamentali che oggi appariranno ridicole ma che allora erano reali. Prima la guerra del capezzolo (un seno nudo era accettato purché non si vedesse il capezzolo). La stessa cosa con il pelo pubico: il ventre femminile doveva essere assolutamente glabro”1.
Oltre alle foto erotiche, vi erano inchieste di attualità anche scottanti, sul costume, sul sesso: servizi sul divorzio, sulle droghe leggere, sull’Eni, su scandali finanziari, sulla repressione sessuale e la fecondazione in provetta, sugli anticoncezionali e la coppia aperta.
Poi vi erano molti articoli sul cinema, con servizi sulle attrici, interviste e anticipazioni su film in uscita, le rubriche di posta (a tema sessuale-sentimentale e indirizzate al direttore e alla redazione), servizi di moda, automobilismo, psicologia, recensioni (libri, dischi, cinema, teatro, televisione), racconti, libri a puntate e fumetti.
Ma già nell’ultimo anno dei Sessanta le vendite di “Men” iniziarono a calare, soprattutto a causa della concorrenza, così Balsamo pensò di alzare l’asticella verso l’hot e la cronaca piccante: nacque la rubrica “Sexy Mirror”, che raccoglieva notizie (con relative foto) sui costumi sessuali e sulle novità in materia di eros da varie parti del mondo; “Il giornale dei cuori solitari”, una rubrica di annunci personali con richieste e offerte di prestazioni sessuali di varia natura; e una rubrica di fotografie amatoriali di donne ritratte dai legittimi mariti.
“L’inserimento di questo tipo di materiali segnava decisamente un punto di svolta importante, costituendo una tappa nel graduale passaggio ‘evolutivo’ dalla produzione di riviste di attualità sessuale (con ancora qualche pretesa di ordine culturale), a quella di periodici pornografici tout court, che sarebbero prosperati durante la seconda metà degli anni Settanta. All’interno dei cosiddetti ‘giornaletti porno’, materiali di questo tipo rappresentavano uno dei principali elementi di richiamo, insieme alla componente fotografica, nettamente preponderante; riviste come ‘Men’, al contrario, erano ancora contraddistinte da una notevole quantità di ‘parola scritta’, pretestuosa, forse, ma pure significativamente presente”2.
Sono forse esplicativi di questa “pretestuosità”, del gioco tra tema “da guardare” e contenuto da leggere, alcuni titoli delle copertine: 1972: De Amicis era un erotomane? e New York – Pornolassativi per soli adulti; 1973: Contratto di servitù per sadomasochisti esigenti e Il sexy decalogo di san Silvestro. C’era da leggere, sì, non solo da osservare le foto; ma gli argomenti erano certo osé.
In questa nuova politica editoriale, Balsamo pensò che avrebbe potuto aprire le pagine di “Men” all’argomento dell’omosessualità. E su questo tema, c’era una sola autorità indiscussa.
Giò tornò in redazione con grande entusiasmo, e con grande entusiasmo fu accolto dai colleghi.
Anche se in quel momento la situazione della testata era complicata da vicende giudiziarie: Balsamo si era dovuto rifugiare all’estero, perseguitato da un mandato di cattura per oltraggio alla pubblica morale, e aveva lasciato la gestione dei propri affari alla moglie Adelina Tattilo, la quale, poco pratica di giornalismo ed editoria, si era messa nelle mani di Mancini e lo aveva nominato direttore editoriale.
Il primo impegno di Giò nella nuova programmazione del giornale, impostata da Mancini e dal caporedattore Pier Francesco Pingitore, fu un’inchiesta, molto pubblicizzata, che doveva tracciare una mappa dell’omosessualità in Italia.
Giò doveva segnalare i luoghi di ritrovo più prestigiosi e alla moda nel mondo gay, raccontandone le abitudini, il dress code, le peculiarità, e possibilmente i nomi di chi li frequentava.
Da luglio a settembre Giò girò l’Italia: ogni settimana visitava una località turistica alla moda, iniziando dalle spiagge del litorale romano, continuando verso l’Argentario, Viareggio e la riviera ligure, Taormina e la Puglia, poi Ancona, Rimini, Riccione, Venezia, Firenze, per finire con Milano.
Il 21 luglio del 1969 Giò era a Taormina, e il suo racconto dello sbarco sulla luna fatto dal punto di osservazione di un locale gay, con relative foto, fu un successo incredibile: il giornale moltiplicò le vendite e tutti i night iniziarono a corteggiare Giò per averlo come ...