Mordi & fuggi. 16 racconti per evadere dalla taranta
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Mordi & fuggi. 16 racconti per evadere dalla taranta

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Mordi & fuggi. 16 racconti per evadere dalla taranta

Informazioni su questo libro

Il mito della taranta dato in pasto alla penna di 16 giovani scrittori e di un antropologo. Racconti dissacranti, psichedelici, acidi, ironici, divertenti che parlano di una tradizione vera, viva.A oltre sessanta anni dagli studi antropologici di Ernesto De Martino sul tarantismo, il mito legato al morso della taranta è attuale più che mai, tanto da spingere ogni anno nel Salento decine di migliaia di persone da tutto il mondo.16 scrittori (giovani e molto noti) raccontano la magia che ancora oggi si respira in questa terra durante le sere ipnotizzate dal suono del tamburello, al ritmo incessante della pizzica.Introduzione di Marino Niola. Racconti di: Cosimo Argentina, Andrea Bajani, Giovanna Bandini, Giosuè Calaciura, Antonella Cilento, Carlo D'Amicis, Teresa De Sio, Omar Di Monopoli, Elisabetta Liguori, Carlo Lucarelli, Gianluca Morozzi, Antonio Pascale, Aurelio Picca, Laura Pugno, Livio Romano, Grazia Verasani.

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Informazioni

Editore
Manni
Anno
2016
eBook ISBN
9788862667456
ELISABETTA LIGUORI

Il problema

Quando Elina aprì la porta di casa, s’affacciò affannata, mosse le labbra senza dir nulla, piegando di poco la testa a destra, Miro capì quanto fosse stato assurdo da parte sua pensare che lei avrebbe potuto aver paura. Elina non aveva mai temuto gli sconosciuti (e in qualche maniera Miro tale era diventato per lei), per lo meno così sembrava a lui, adesso, nella cura del ricordo. Perché mai avrebbe dovuto provare sgomento proprio oggi, solo per una visita giunta con ventidue anni di ritardo? Forse lo aveva sempre aspettato, forse no, ma senza alcuna paura.
La donna, infatti, vedendolo, sbottò in uno sguardo abbacinato, come per le imposte verdi di una finestra spalancate all’improvviso dal vento, e compensò in un istante la normale ansia dell’incontro con il suo solito stupore infantile. In fondo, neppure quello sguardo vasto fu una vera sorpresa per Miro. D’imprevisto, al contrario, ci fu solo che non gli sembrò un po’ tocca come sempre, dacché Elina si limitò ad agitare gli occhi, sorpresi eppur noti, senza aggiungere una delle sue solite frasi strane. Nello stupore muto di lei, Miro poté sentire limpidamente tutto il silenzio contenuto in quel solo pomeriggio, quasi fosse materia e, dopo tutti quegli anni, comprese che era veramente finita. Miro aveva fatto oltre mille chilometri per sentirsi offrire giusto quel silenzio, come forma d’indennizzo, e furono sufficienti pochi secondi per capire che ne era comunque valsa la pena.
Le disse, ciao, forse disturbo, non so, dimmi tu se, caso mai, e mentre lo diceva, la testa scarmigliata di un bambino s’intravide tra le lunghe gambe di Elina e, dietro quella, uno scroscio come di cubi di plastica che rotolano in terra. Elina, conservando saldo sulla faccia quell’iniziale silenzio lucente, sorrise e gli fece cenno di entrare. Semplicemente cessò di stringere la maniglia tra le dita e allargò le braccia.
Era ancora sorprendentemente magra e lunga, rimasta così come l’aveva lasciata l’ultimo giorno di sole ottuso – ottuso il tempo quanto ottuso il sole – ventidue anni prima, davanti alle scale che portavano in sagrestia, nella parrocchia di San Giovanni, laddove partivano gli autobus. Ancora lei cavalcava scomposta in avanti, tenendo le spalle giù, cascanti, come se non reggessero il peso della testa e fossero costrette a subire inerti l’isterismo dei fianchi. Elina si muoveva ancora esattamente come faceva quando aveva appena vent’anni e gli aveva detto: ma tu come farai a volermi bene lo stesso, dopo? Il sabato pomeriggio era lì che ci si vedeva, contro il sole, poco discosti dalla circonvallazione che s’infiammava d’auto dopo le diciassette, con riverberi accecanti sopra gli occhiali a specchio; seduti su piccole vasche di cemento esagonale piene di terra in croste e cicche, con i giacconi appena comprati ai saldi, tra siepi ribelli che il sagrestano potava solo a primavera. Di fronte: il Carletto bar per il caffè. Si andava in giro se non c’era da studiare e poi la sera, sempre là, si sceglieva una pizzeria. Ma poiché si era in tanti, forse una trentina, forse di più in prossimità di Natale o Pasqua, non ci si decideva mai. Miro e Elina erano una coppia regolare, come un piano di marmo, destinata a durare per struttura. Da divenire, da usare. Ma Elina da anni aveva preso ad allungarsi in maniera anomala: un collo da levriero le era venuto su da un anno all’altro, mentre le spalle le si abbassavano e le scapole si univano con un triangolo sulla schiena. Miro, più grande di lei di sette anni, ne prendeva le misure con rigore e prudenza. Del resto lui era basso. Così restava. La guardava dal basso come si guarda un edificio in costruzione che cresce col cemento, di piano in piano. Lui era un uomo tendenzialmente basso, ma che, rispetto alle circostanze della sua vita, conservava un approccio alto, scientifico e vigile. Aveva un progetto personale vago ma stabile, studi universitari confusi ma fermi, il cui senso Elina modificava di poco ogni giorno. A lei, invece, i progetti non interessavano: non riusciva a fissare lo sguardo verso un punto lontano, aveva fretta e una specie rara di tremito stagionale che le impediva di star ferma sulle cose. Miro sapeva. Miro accettava. Miro vigilava. Solitamente si fermava a guardare con scrupolo inerte il mento di lei vibrare verso l’alto e poi sbattere sul suo stesso sterno più volte, e più volte, con colpi secchi e sputi irregolari di saliva. Questa osservazione prolungata gli consentiva di capire giusto quel tanto di utile a mettere la musica idonea nello stereo in macchina, al fine di calmarla. Aveva degli scatti strani e violenti, della lingua e del corpo, da documentario in bianco e nero, Elina sua, che lui controllava con la musica. Ogni tanto, non sempre. Scatti che non capiva, ma riconosceva. La musica serviva ad entrambi per sovrastare il suono che facevano le loro ossa che cozzavano le une contro le altre. Perché Miro la cercava, la toccava mentre lei si dibatteva; la frenava strattonandola; a volte la portava verso di sé e stringeva fortissimo, ancorandole le braccia al busto, tirandole il maglione con le dita chiuse a pugno. Poi le parlava più vicino all’orecchio. Lei, agitata e distratta, fuori di sé, annaspava nei suoi stessi occhi a vasca, colmi di liquido verde, senza rispondere. Per questa ragione lui era costretto a chiamarla spesso, e a ritirarla dentro il suo abbraccio: Elina, Elina, che fai? Gli rimanevano nelle mani frammenti della lana colorata di quei maglioni quando lei fuggiva via, barcollando altrove. Elina, Elina, che fai? Lei collezionava bustine di zucchero di marca diversa. Elina, Elina che fai? Metti da parte lo zucchero nei cassetti, anche se poi ci vengono le formiche? Lo zucchero le serviva quando si sentiva male, così, all’improvviso, per strada, ovunque. Accadeva che le cedevano le ginocchia di botto ed era costretta a lanciarsi sull’asfalto, facendo il rumore di una noce che si spacca e poi, abbandonata lì, in terra, guardava verso l’alto con il mento che le tremava di disperazione, e si bagnava tra le gambe pur tenendole intrecciate dallo stesso spasmo. Uno spettacolo pietoso e inspiegabile per chiunque. Per questo si riempiva le tasche di zucchero: le avevano detto che era solo un fatto di pressione bassa. Solo questo, nonostante le analisi mediche. Elina, Elina, che fai? Acqua e zucchero.
La verità era che Elina aveva sempre avuto un problema, un grosso problema: s’innamorava di continuo e lo viveva male.
Ogni volta ragazzi diversi. Una volta al mese, almeno dieci volte all’anno. Era statistica confermata, questa: una sorta di rigurgito violento che in fiotti faceva ritornare in superficie tutta la sua stregante solitudine d’adolescente. Lo zucchero non c’entrava con certe nevrosi. Elina, Elina che fai? Il parroco una volta era venuto fuori dalla sua tana dalle pareti d’ostia sottile, urlando. Diceva che tutti quei giovinastri fuori dalla parrocchia facevano una gran fracasso, giorno e notte; diceva che si sentivano urla e strepiti che manco all’inferno, che non stava bene, che stavamo diventando brutta gente. E ce l’aveva soprattutto con i genitori – che non ci badavano abbastanza ai loro figli – più che con le urla disperate di Elina che poco riusciva a distinguere dalle altre intorno. Di alcuni di loro non ricordava più bene neppure le facce. Forse neppure la faccia da bianco conflitto di Elina. Col clergyman stropicciato e un odore intenso di fritto addosso, il prete aveva chiesto di far pulizia subito; di andarsene altrove a far caciara. Diceva che era vergognoso star-sene così, davanti a Dio. L’aveva detto un giorno, proprio mentre la faccia bianca di Elina si trasformava in un edema, molto più livida del solito. Ne era conseguito che lei era stata, per i giorni a seguire, con le mani sempre serrate tra le cosce, stringendo e pizzicandosi il pube a sangue. D’intesa con Miro, aveva pure cambiato zona per qualche mese. Solo per qualche mese. Poi era ritornata, tra il borbottio degli altri.
Miro credeva d’aver compreso a pieno quell’assurda situazione per pura intelligenza, credendosi per questo migliore persino del parroco o del padre di Elina, il professore, che suggeriva categorico alla sua unica figlia di essere diventata pazza, e lo faceva con un tono di voce modulare, sufficiente a scuoterla fino alla radice, ma non così alto da agitare il resto del condominio. Miro si era abituato a vederla raffreddata per mesi per la vergogna, di continuo lacrimosa, con gli occhi cerchiati, camminare tra lo stupore collettivo. Ne era nata una specie di audace tolleranza: lui seguiva le tracce di questo percorso d’amore fatale, certo del suo ruolo, come fosse egli stesso una pista di granelli di zucchero. Elina era sincera: finché durava l’ubriacatura raccontava ogni cosa a Miro; mi piace quello lì, questa volta è certo: ci muoio per lui. Le passava e poi ricominciava. Si stracciava di pianti sul pavimento della sua stanza, riempiendosi le ginocchia di lividi fino a farle diventare di un ridicolo pervinca. Un paio di giorni così. Poi smetteva. Guariva, poi di nuovo s’ammalava. Lui ascoltava: studiava psicologia, e quindi poteva ben essere all’altezza della situazione, seppure fuori corso da anni ormai. E se era in ritardo sul piano studi, non era certo per cretineria, ma piuttosto per indecisione. Per una serie di casualità incerte. A volte Elina, dopo la crisi, chiedeva scusa e piangeva come una prefica che avesse perso il morto; per giorni se ne stava lontana da lui, rapita da pensieri cosmici, con gli occhi pingui di acqua melmosa, obbediente e contrita, con le lunghe gambe avvoltolate intorno al busto; a volte continuando a vomitare piccoli residui di cibo verde negli esagoni di cemento tra le siepi, sempre davanti a tutti. Per liberarsi. Miro, nonostante lei facesse resistenza, l’abbracciava lo stesso, ne aspirava tutta l’acidità dalla bocca, dal collo, dai vestiti, mentre lei terrorizzata spiegava i suoi sintomi nel dettaglio come si fa con il medico di fiducia, tirando su il solito moccio dal naso, ad ogni respiro.
Niente di grave: in fondo, era solo amore. Le stava sedimentando tra le gambe, ma era solo amore. Non c’era da avere paura. Al massimo giusto un po’ di disgusto. In qualche posto remoto della testa di lei residuava l’idea che quel furore fosse davvero connesso all’amore. Pensava, sperava, fossero innamoramenti senza faccia, che non potessero far danno. Innocente chimica ormonale. Niente da studiare. L’oggetto del suo strazio amoroso non veniva messo neppure al corrente: tutto si consumava in un delirio solitario, in una circostanza scenografica scomposta, ma liberatoria.
Si disperava però. Era chiaro a tutti che lei si disperava, soprattutto perché un amore così ischemico e diverso non l’avrebbe mai portata né ad un matrimonio, né a nient’altro. Lo diceva anche suo padre.
Nonostante l’evidente infertilità, di certi innamoramenti, comunque, restava splendida la teatralità, a metterci sopra la musica a volume altissimo. Il tizio di turno l’amava, o lei credeva l’amasse, di conseguenza lei lo amava con trasporto centuplicato, moribondo. Sono malata? Miro rispondeva di sì, poiché onestamente non riusciva proprio a capire perché, per trovarsi un uomo o chi per lui, fosse necessario straziarsi gli arti a quella maniera. La musica era fondamentale d’accordo, ma lui non capiva lo stesso. Fingeva antropologica comprensione, continuando a fare soltanto quello che sapeva fare meglio: esserci. Tutto lì.
Miro per anni si era chiesto se ci fosse una cura. Non si era mai laureato, quindi non s’era potuta trovare alcuna soluzione per nessuno, né una piena assoluzione. Niente scienza, nessuna fantasia. Un peccato. Poco dopo si era messo a lavorare in banca, al posto che era stato di suo padre. Si era quindi impegnato diversamente, per necessità e svago, sentendosi in qualche modo spinto dal panico ad omettere il necessario soccorso. E dopo quel passo, si era fatto subito troppo tardi. Così sembrava ad entrambi. Elina era stata la prima a rinunciare, del resto, quando l’età aveva cominciato a non consentirle più diagnosi legate ai problemi dell’adolescenza. Era partita, infine, ventidue anni prima. Elina, Elina che fai? Era partita davvero quella volta. Era lei stessa il sintomo che s’aggravava, da eliminare. Ai suoi aveva detto che era solo una vacanza, mentre a Miro aveva giurato che non sarebbe ritornata più. Aveva parlato di un grande amore. Facile per lei che non parlava d’altro, ma per mesi non s’era saputo comunque nulla di concreto, come se la scuffia quella volta fosse entrata in metastasi e se ne conservasse un doveroso riserbo. Non era più una donna comprensibile. Sembrava che battendo le ginocchia contro la pietra, più volte e più volte, troppe volte, avesse perso totalmente il ritmo e fosse diventata un’alterazione da nascondere. Straparlava, mentre se ne stava seduta in terra con le gambe larghe come Toro Seduto. Non si poteva sentire, né guardare. Il suo dolore stava in bella mostra nel mezzo delle sue cosce tornite. Raccontava di un uomo coi baffi che dipingeva quadri astratti, e che studiava a Bologna. Ne parlava come si fosse trattato del killer protagonista di un noir. Se ne sapeva poco, troppo poco per rimediare, e i genitori di Elina erano i più reticenti. Una malattia rumorosa, la sua, che costringeva il resto del pianeta al silenzio.
Il giorno della partenza, Elina aveva sfoderato gli occhi verdi di muffa delle grandi occasioni, uno sguardo ormai senza più senno, con le pupille che facevano capriole all’indietro, fino a convincere davvero, quanti l’ascoltavano ancora, che la sua femminile idea d’Amore fosse senza rimedio. Miro le aveva fatto una fotografia, lì accanto al pullman che l’avrebbe portata lontano, con la lattina di Pepsi in mano, la canotta gialla e la faccia governata dalla sua sola bocca rossa. Voleva fotografare quella distanza febbricitante tra il vero e il desiderio, mentre la musica cambiava. Mandarla, magari in futuro, nelle mani di un qualche esperto, un qualcuno che avesse già studiato, se non allora, in passato, casi simili a quello di Elina.
Ammesso che esistesse davvero un esperto del genere.
Da allora non l’aveva vista mai più, né cercata, per una specie di orgoglio accresciuto dall’incompetenza, dal caos e dall’ansia contabile degli anni a seguire. Il signor Mazzotti, padre di lei, che insegnava ragioneria nel vecchio commerciale vicino alla villa comunale, si era messo in pensione anticipata per motivi di salute; ne era certo perché glielo aveva detto il panettiere che era amico di un suo cugino in seconda. La madre, invece, pare avesse avuto un ictus, che le aveva diviso in due sezioni irregolari la faccia e il braccio destro. Tutti malati in famiglia, da far paura davvero, si era convinto Miro, col tempo. Anche se si diceva che avessero fatto sedute e sedute di riabilitazione in un centro specializzato e che la madre avesse preso ad usare il girello per andare a fare la spesa sotto casa. Malati comunque, era certo Miro. La genetica era un’idea buona per tutto, anche senza una laurea. Così Miro si era fermato, impigrito, aveva interrotto lo studio del caso di Elina, l’attesa e la ricerca. Accade spesso che quello che è sembrato per mesi assolutamente vitale, si trasformi in breve in un pericolo, e, dopo, in una dimenticanza percepita solo ogni tanto come un prurito sotto la nuca. Dopo tutta quell’eternità di tempo cedevole, l’aveva ritrovata per caso ritornando in città. Non ci veniva da secoli: l’aveva vista per strada e riconosciuta per via di quella sua camminata ubriaca. Lei abitava in periferia. L’indirizzo glielo aveva procurato un vecchio compagno di scuola. In fondo Miro era venuto soltanto per chiederle se era guarita. Una cortesia lecita, persino utile ad entrambi.
Dopo essere entrato in casa, la vide zampettare verso il tavolo da pranzo e fargli segno di seguirla, sempre ingobbita da tutto quel silenzio. I bambini in casa erano due, non uno soltanto, senza grossa differenza di età l’uno dall’altro, e le giravano intorno nella stanza senza far rumore. Da seduta, lei lo guardò, pungendogli la faccia in modo così interrogativo, che Miro reagì spingendo gli occhi verso la punta delle ciabatte di lei: comuni ciabatte da donna, niente di strano, ciabatte già viste, le ciabatte di tutte. Lui, posto per pura intuizione in quella piccola casa mai vista, tra figli di altri, pur cercando di reagire, si sentì incapace di decidere se le novità rispetto al passato fossero da ricercarsi proprio in quello sguardo femminile aspro e silenzioso, o piuttosto nelle loro nuove facce d’adulto. Piano cominciarono a chiedere l’un l’altro delle rispettive vite. Piano si ripresero il tempo e tutto quello che era vecchio per l’uno, ma nuovo per l’altro. Una sedia di fronte all’altra per una cronaca sfilacciata. Ne fecero sintesi lunatiche, a cui ciascuno dette i colori che poteva; il resto lo fecero i bambini lanciando oggetti nell’aria, a filo sopra le loro teste. Dopo lui si mise più comodo sulla sedia di paglia e, abbassando il tono della voce, ché i bambini non sentissero, le chiese se fosse innamorata.
Lei rispose di sì: lo disse con lentezza, gonfiando le guance di un risolino stupido d’imbarazzo; nessun sintomo flogistico nel sussurro, solo lo sfogliarsi lento dei calendari. Questo lui vide quindi: quella casa, e la donna dentro, diventate in pochi minuti cose normali. Giuste nel tempo giusto. Fu felice in un secondo. Pensò: meno male per loro, meno male per lui. Pensò, in una nuova bolla di silenzio, formatasi tra una parola e l’altra di un dialogo breve tra estranei, che anche il loro, il più antico che gli fosse dato ricordare in quel momento, era stato amore. Non solo quelli strani, d’ammalata isterica, quelli di lei, da ricovero, ma anche il loro, il suo: il suo amore da studente. Si consolò. Pensò che lui non aveva mancato un appuntamento, come temeva di aver fatto, ma agevolato il tempo ad agire; immaginò un tram e la strada da ripulire per facilitare la corsa; immaginò il rumore quieto di quello stesso tram lungo binari sgombri. Gli sembrò bella la casa. Bella la donna. Rumorosi i suoi bambini.
Gli parve naturale pensare che ci fosse anche un marito. Da qualche parte un uomo. Si chiese che faccia fossero costretti a fare i mariti quando, tornati a casa, vi trovassero dentro altri uomini. Immaginò facce tutte diverse, di mogli e mariti.
Fu allora che tirò fuori dallo zaino il cd. Con un po’ di fretta in più e un po’ d’immaginazione in meno. In vent’anni aveva raccolto tutte le loro vecchie foto, riadattandole al digitale. Ne era orgoglioso. C’era il San Martino dell’85; le pasquette al mare nei primissimi anni 80, quando ancora lei non era malata per niente; i vecchi collant con le stelline e lo spolverino rosso; c’erano case forse ora demolite e abbracci sfocati. C’era la volta che lei, al mare dai suoi, aveva preso a provare una civettuola vergogna per certi discorsi sul sesso: sulla foto si vedeva un suo cappello nero con visiera e sotto quella sua faccia piatta, che non voleva reagire e, nello sforzo di controllarsi, diventava simile ad una figura geometrica piena di angoli e linee rette. Il primo sintomo. Un ricordo preciso per entrambi, ma con significati diversi.
Le porse il cd come fosse cristallo e le spiegò con cura di cosa si trattava. Dentro c’era tutto il loro tempo, ordinato in ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Estri smarriti di Marino Niola
  3. MORDI & FUGGI