La rinascita del pesce palla
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La rinascita del pesce palla

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La rinascita del pesce palla

Informazioni su questo libro

Un weekend sgangherato, erotico, spiantato, terribilmente comico.Milo, detto Billo, ultracinquantenne scrittore precario, all'alba di un caldo venerdì d'inizio estate riceve l'ennesimo rifiuto al suo trentottesimo romanzo.Deciso a farla finita, come un attonito pesce palla sprofonda nel nulla del pomeriggio romano con l'unica aspirazione di prendere congedo dalla vita prima che sia lunedì.Inizia così un viaggio che lo porta a ripercorrere la sua esistenza e le strade di una Roma indifferente quanto bella, con incontri imprevisti ed esperienze mai provate.E proprio quando sta per attuare il suo piano, spinto da una sensualità eccitata al massimo grado, trova il bandolo della vita.Vito Bruno ci trascina in un forsennato tour de force narrativo e tra vecchie puttane, amici dall'ego smisurato e bambini amati come figli, ci strappa una risata che ora suona amara, ora feroce, ora dolce e spaventata.

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Informazioni

Editore
Manni
Anno
2014
eBook ISBN
9788862665599

VENERDÌ 14 GIUGNO

ORE 14:01

Tra un po’ inizierà il fine settimana più disperato della mia vita. Il più vuoto e solitario. Il più liquido. Sarà come immergersi a mille metri di profondità senza bombole d’ossigeno. In apnea. Ci schiatto stavolta. Di sicuro. O finalmente mi si formeranno le branchie. Inizierò a metabolizzare disperazione anziché aria. Un essere mutante, metà carne metà pesce. Al 100%, disperazione.
A mezzo secolo tondo tondo – 51 anni a essere precisi, e qualche mese, undici e mezzo per i pignoli – posso dirlo forte: nel mio campo non c’è partita, sono un fallito coi controcoglioni, un professionista. Ne ho tutti i titoli. Altro che quei fighetti dei miei colleghi che pubblicano con le case editrici più grasse e danarose, che scrivono sui giornaloni, che vincono premi su premi e pure qualche comoda cattedra universitaria e poi, citando Kafka e Schopenhauer, fanno le faccette afflitte e strologano di fallimento e disperazione. Che cazzo ne sanno loro del fallimento. Che cazzo ne sanno della disperazione. Venissero a lezione da me. Gli faccio un culo così. Non ho rivali sull’argomento, io, e senza scomodare Cioran, Kierkegaard o la condizione umana. No, fallito in proprio.
Per dire: tra ieri sera e stamattina un uno due micidiale: prima Tea, da me detta Dea, e poi i ragazzi. Le mie ultime speranze, gli ultimi due editori disponibili sulla mia mailing list. Dopo di loro non c’è più niente. Solo buio. La profondità dell’oceano. Il silenzio. Il pesce palla della disperazione.
Dea l’ho tenuta per ultima – i ragazzi all’inizio non li avevo neanche presi in considerazione. La chiamo Dea da sempre, e cioè da quando l’ho conosciuta – per modo di dire, conosciuta: non l’ho mai incontrata, solo una voce al telefono e qualche filmato su YouTube. È l’unica che mi abbia capito. Con lei per la prima e ultima volta nella mia vita sono stato a un passo dalla meta. Era tutto pronto, copertina e il resto – il mio nome in grassetto in alto e ancora più sopra l’elegante logo esoterico dell’editore. Pure il titolo era pronto: Cielo e cielo. Era stata Dea, a duplicare il mio cielo originario, che al singolare le sembrava un po’ limitato. Con quella trovata geniale il libro aveva acquisito ampiezze celestiali, la mia storia dimensioni che neanch’io conoscevo, echi gemellari. Mancava solo la firma del contratto, una formalità a sentire lei. Ma il gran capo, per chissà quale imperscrutabile impuntatura ha detto no. Così. All’ultimo minuto. Senza una spiegazione. Quando l’ho saputo mi si è stampato sul viso quel rictus che non ho perso più, tra il riso e il pianto. Quella notte, cadendo da un’altezza vertiginosa, praticamente dal cielo, anzi, da un cielo con la superfetazione di un doppiofondo a me, confesso, ancora sconosciuto, ho fatto la prima immersione al largo del gorgo nero e quando ne sono uscito la mattina dopo puzzavo come una fogna. Perché non so dire e altri ricordi non ho. Ma per quanto bestiale e improvviso era stato il colpo, avevo ancora il fisico per incassare senza soverchi problemi – rictus a parte – e infinito tempo davanti. Avevo appena 25 anni, cazzo. E soprattutto avevo la lettera di Dea, che mi è arrivata qualche giorno dopo – usava le poste allora, altro che l’asettico internet di oggi, carta pregiata con tanto di inchiostro e svolazzi così personali e femminili e trasudanti odori, umori e personalità che al ricordo ancora mi viene duro –, lettera che ho piegato in quattro e messo nel portafoglio. Diceva: “Mi dispiace tanto, io l’avrei pubblicato, lo sai quanto ci tenevo e ci tengo al tuo romanzo”. Era passata al tu per la prima volta e quella delicatezza m’ha fatto piangere. Di gioia. Quando mi hanno rubato il portafoglio ho pianto di nuovo, e non più di gioia ma per quanto son coglione: il cimelio più prezioso della mia promettente carriera – che tale è rimasta, promessa, una potenza che non s’è mai trasformata in atto – nelle mani profane di qualche borsaiolo. Sui soldi sorvoliamo pietosamente – 7 euro e 12 centesimi più due biglietti d’autobus di cui uno usato, anche se alla denuncia ai Carabinieri ho millantato 150 euro e 12 centesimi, così, senz’altro scopo che celare la vergogna della mia miseria. Da allora ogni tanto le mando qualche dattiloscritto, non tutti quelli che ho prodotto altrimenti, povera, l’avrei sepolta viva, e lei ogni volta mi ha risposto, con più o meno sollecitudine, dicendomi sempre la stessa cosa: bene, bravo, ma sai, il gran capo… per farmi intendere che lì, da lei, nonostante la sua immutata stima nei miei confronti, non era aria. Io mi premuravo e mettevo le mani avanti: mica lo mando all’editore ’sto romanzo, per l’amor di Dio, non sum dignus, ma all’amica, e mi beavo di quell’amica, a cui lei non ha mai obiettato, mai, anche se non abbiamo mai preso neanche un caffè insieme, anche se passavano mesi, anni senza sentirci perché io, per paura d’importunarla, centellinavo i contatti e poi all’improvviso oplà, un semplice biglietto di Natale e lei, oplà, rispondeva sempre, come se ci fossimo sentiti la sera prima, come se fossi qualcuno e non quello che ero – e sono – nessuno. E lei invece lassù, appollaiata nell’olimpo della casa editrice più fica dell’universo mondo.
L’ultimo libro l’ho mandato dopo averci pensato tanto, non era solo l’ultimo in ordine cronologico, ma l’ultimo che avrei scritto se fosse finito come gli altri. Basta. Quand’è troppo è troppo. Questa volta no, non mi sarei fatto prendere dalla fregola che segue ogni volta che sprofondo nel baratro dell’afflizione, ogni volta che mi stampano sulla faccia un no a fuoco vivo come i negrieri un ferro sulla carne sfrigolante degli schiavi. Questa volta neanche sarei sopravvissuto, sarei morto lì fulminato, e non sarebbe sopravvissuta nemmeno la vergogna: sempre al mio fianco la carogna, fedele nei secoli peggio di un carabiniere. No, nessun impeto vitalistico che m’avrebbe inchiodato alla scrivania, quella frenesia che scatta davanti al cadavere del manoscritto appena rifiutato come davanti al cadavere di un congiunto, quel bisogno smodato di sentirsi vivi che ti porta a fare sesso con ancora addosso i vestiti del lutto, quello slancio tutto nervi e fisiologia che ti scaraventa a corpo morto in un’altra dimensione, in un’altra epica, verso il miraggio di un futuro vergine, migliore, tutto da scoprire. Allora finalmente hai tutto chiaro: ma sì, ecco cosa devo fare, ecco qual erano gli errori, i difetti, le mancanze, le incongruenze dell’altro libro, dell’altra storia, dell’altra vita – questa, la prossima, quella che sta prendendo corpo adesso, proprio adesso, in questo momento irripetibile e strabiliante che mi accende gli occhi, che mi scatena la febbre, che mi spinge il cuore a battere oltre i limiti di ogni umano contagiri sarà… un successo. Parolina magica che innescava una reazione nucleare a catena che liberava energia a iosa: una buona parte si perdeva, come ogni altra cosa in natura, una parte si conservava e serviva per scrivere tutto d’un fiato un altro romanzo, e finché avevo da scrivere, la vita, buona o brutta che fosse, era assicurata. Come Sherazade, ho allungato il brodo senza sostanza e sapore dei miei giorni con le parole: lei inventando storie fantastiche, io… Vabbè. Almeno fino all’ultimo libro.
Quando ho iniziato a scriverlo, ’sto romanzo, sul cadavere del solito dattiloscritto morto, ho sentito che il fungo nucleare che s’era sprigionato dalla carta ancora calda di stampante s’era affievolito, non era più quello di prima – un fenomeno, dopo decine e decine di repliche, tutto sommato normale. Anche il sole, se è per questo, sta morendo, ha cinque miliardi di anni e di vita gliene resta solo uno. Il suo combustibile – l’elio, mi pare – si sta esaurendo e lui, il sole, prima s’incazzerà da morire, aumenterà all’inverosimile la sua già demente temperatura e negli spasimi atroci che seguiranno si allungherà nello spazio che lo circonda e con i suoi tentacoli atomici si papperà tutto quello che trova davanti, terra compresa, un boccone da niente. Poi si raggomitolerà su se stesso, si spegnerà e diventerà materia inerte e buia. Silenzio. Nulla. Ora a me questa storia mi fa venire i brividi. Il fatto che a un certo punto non ci sarà più un solo grammo di quello che ci circonda, che sparirà anche il ricordo dell’alba e del tramonto, della pioggia e della primavera, di Roma – Roma, dico – e tutto quello che l’uomo ha fatto in questo porco mondo, il fatto che non ci sarà più un solo essere umano a raccontare il bello e il brutto, beh, tutto questo mi deprime da morire. Dice: ma a te che cazzo te ne frega! Ammesso che campi un altro mezzo secolo, ed è già troppo, te fa ’na pippa il sole, a te, al massimo t’abbronza. Un miliardo d’anni è un’eternità, scemo. E poi che te ne fotte a te dell’umanità, che non c’hai neanche un figlio. Embè, che vuole dire? Mica uno si deve riprodurre per forza per amare la discendenza. E poi a me le storie che finiscono mi intristiscono tutte, anche quelle che durano un’infinità e non si capisce come va a finire. È il fatto in sé che non sopporto, e una volta, riflettendoci su questa cosa qua, che non amo la parola fine comunque la si declini, sono arrivato alla conclusione che, siccome non si scappa, tutto, cazzo, finisce, è lì la radice della mia radicale tristezza e di tutto quello che ne consegue: disincanto, smarrimento, disadattamento. Insomma, è colpa del sole se sono un fallito.
E comunque c’era un altro segnale a significarmi che questa volta era diverso, che l’evento non si riproduceva più alle stesse condizioni delle altre volte: quando ho buttato giù le prime righe del nuovo capolavoro concepito nel momento dell’estasi suprema che segue al tramestio furioso della lotta tra morte – vecchio romanzo – e vita – nuovo romanzo –, l’erezione che ho avuto è risultata alquanto fiacca, per non dire moscia. Stringi stringi ogni cosa si riconduce al cazzo – per noi maschi, certo, per le donne non so, ammesso che esistano scrittori femmine – così, tanto per non farmi nemici. Sì, quel turgido slancio che altre volte mi aveva veicolato verso territori nuovi e sconosciuti, che mi aveva permesso di saltare il fosso della depressione saltando di volata su un ponte levatoio bello largo e lungo – insomma – s’era rivelato un timido vorrei ma non posso. Colpa dell’età, mi sono detto, che inizia a imbiancarmi anche le tempie, e vuoi che non arrechi qualche oltraggio laggiù, dove le mie mani passano la maggior parte del loro tempo – escluso quello che dedico alla scrittura. Così ho iniziato a battere sui tasti del computer senza la solita verve, senza la solita concitazione, più che altro per senso del dovere e perché non volevo affrontare l’argomento incognito di cosa avrei fatto senza scrivere, quel tempo vuoto là fuori, gonfio come un oceano di notte che mi dava i brividi solo a sentirne la voce bassa e roca e che adesso, ahimè, mi tocca affrontare.
E però, man mano che le pagine si succedevano nella pancia del computer; mano che aumentavano le versioni, le varianti, quel complicatissimo sistema di stesure e contro stesure messo a punto per non perdere una sola stilla delle mie meningi, una sola sfumatura del mio talento, per depistare le incursioni degli hacker pronti a trafugare il best-seller di domani – finendo sempre per imputtanarmi e perdere, porco cane, le pagine più ispirate e cristalline – sarà per questo che il bestseller non è mai successo?; insomma, man mano che mi avvicinavo alla parola fine, nonostante l’incupimento che ogni fine mi cagiona, mi sentivo rinfrancato. Questa volta ci siamo, mi dicevo. Lo so che me lo sono detto almeno altre 37 volte, che ogni volta sono sicuro d’aver svoltato, ma questa volta non mi posso sbagliare, è quella giusta, non mi sto prendendo per il culo, non c’è una sola cellula di me, anche a farle i raggi X, che dubiti. A volte mi maledicevo d’averlo scritto io quel libro, di non avere la fortuna che avevano gli altri, tutti gli esseri della terra che non sono io, che potevano provare sorpresa, stupore, meraviglia davanti a quelle pagine vergini che si offrivano loro nella più sfolgorante nudità mentre io le conoscevo a memoria e portavo impressi nella carne il dolore, la pena, il furore con cui le avevo create e seviziate, una per una. Sì, rispetto alle altre volte, c’era inequivocabilmente una forza nuova nel mio romanzo, una tensione in più, un surplus di verità riconducibile non alla tecnica o allo stile, insomma, alla forma – quella, non per dire, è impeccabile, sempre – ma a una sorta di imperativo etico meta-letterario: mi stavo mettendo in gioco in prima persona. Non che negli altri romanzi il mio io sia assente, anzi. Si potrebbe dire che i 37 dattiloscritti impilati a casa accanto al televisore sono altrettante letture di me, altrettante autobiografie romanzate, nonostante abbia preso le mie cautele per camuffarmi frequentando e disseminandomi nei generi più diversi. La mia vasta ancorché inedita bibliografia spazia dalla fantascienza al mistery, dal thriller al fantasy, dal romanzo storico al pamphlet filosofico, dal romanzo gotico a quello storico, dal noir al giallo al rosa e giù giù per ogni sfumatura dell’arcobaleno. In tutti questi romanzi, a vedere bene ci sono io, ma un io spezzettato, a volte parodistico e destrutturato, senza l’integrità di una cifra intera e a tutto tondo. In questo no. In questo, per farla corta e parlare come magno, c’era – c’è tutta la mia disperazione. Nuda e cruda. Senza alcun velo. Dea mi avrebbe visto per la prima volta come sono, nella mia più trepida e tangibile essenza e senza alcun filtro deformante. Anche il mio nome ho dato al personaggio, per creare quel corto circuito tra pagina e vita che avrebbe mandato in tilt qualunque lettore un po’ navigato, e figuriamoci Dea, che ha letto tutto – a parte me, ovviamente – e mi conosce come nessun altro essere umano al mondo, e questo senza avermi mai, dico mai, incontrato di persona. Ma per certi rapporti cosa può aggiungere una banale e scontata presenza corporea? La mia, poi.
Quando sullo schermo ho cliccato il tasto “invia messaggio” con la scarna e autoironica lettera d’accompagno al romanzo, mi tremavano le mani: questa volta mi stavo giocando davvero tutto, a 50 e passa anni ne andava di mezzo il senso di una vita. In gioco non c’era più solo – solo? – un romanzo, una pubblicazione, un nome stampato su un pezzo di carta; in gioco c’era la vita, punto, senza alcuna aggettivazione – sensata, sensuale, sensitiva che fosse –; c’era – e per la prima volta – l’ipotesi di un diniego di ogni domani. In un attimo mi sono passati davanti agli occhi tutti gli altri libri che ho scritto – agli scrittori scorre questo, mica la vita come per gli altri esseri umani –, a partire dalla favola che ho dettato a mia madre a 5 anni e mezzo, l’unico libro alla fine stampato – dalla mamma, in 100 copie distribuite ad amici e parenti –, e l’eccelsa qualità della mia ultima creatura che un nanosecondo prima di premere il comando “invia messaggio” era inequivocabilmente acclarata per sempre, mi è sembrata irrimediabilmente brutta. Di più: orribile. Impubblicabile. Per evitare di tagliarmi le mani, ho dovuto fare quello che fanno tutti gli uomini del mondo quando non sanno come resistere a un desiderio furibondo che li possiede – nel caso, telefonare a Dea –, e cioè masturbarmi, furiosamente, più volte. Solo lei, Dea, poteva rassicurami. Solo lei, Dea, poteva emettere un giudizio che per me avrebbe avuto il sigillo incontrovertibile di un’ordalia divina. Da allora ho iniziato ad aspettare la sua risposta, attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, notte dopo notte, respiro dopo respiro. Per otto mesi ho passato gran parte del mio tempo davanti al computer premendo incessantemente il comando “invia e ricevi” della posta elettronica e ottenendo in risposta un profluvio d’offerte d’ogni tipo, dal viagra alle chat erotiche, dalle adozioni a distanza all’allungamento del pene, dagli abbonamenti Sky al poker telematico, ma mai, mai quella che aspettavo. A volte, quando sullo schermo s’accendeva la scritta “hai 1 messaggio non letto” mi guardavo bene dall’aprirlo, lo lasciavo lì, con il suo carico di possibilità inespresse, facevo rapidi calcoli matematici e mi batteva il cuore all’impazzata al solo pensiero che quello giusto per realizzarsi doveva farne fuori solo 999,999. A volte raggruppavo più messaggi per aumentare il calcolo delle probabilità, m’armavo di coraggio, trattenevo il fiato e giù, un tuffo senza rete nella rete telematica caotica e sfrantumata. Niente: l’offerta di un dentista croato che voleva vendermi un elaborato ponte dentale allusivamente postmoderno o una stilista emergente che voleva regalarmi – a 80 euro al pezzo – un perizoma leopardato non più grande di un cerotto per brufoli – con tutto l’armamentario che madre natura m’ha messo a disposizione. Pazienza. Ripetevo il rituale dieci, quindici, cinquanta volte al giorno, e per resistere all’impulso di telefonare che tornava prepotentemente a tormentarmi mi masturbavo a manetta, come un tardo adolescente segaiolo nonostante le prime avvisaglie di un incipiente malumore prostatico – e vorrei vedere!
Così, piano piano, mi sono prosciugato, anima e corpo, ho intaccato l’equilibrio tra l’una e l’altro e sia dell’una che dell’altro, ma niente, sempre lì, inchiodato davanti al computer. Un inferno. A confronto l’ergastolo è una passeggiata. E proprio come certi fratelli di galera, dopo i primi mesi di silenzio, ho iniziato a parlare con l’oggetto dei miei desideri, conversazioni immaginarie che avevano finali opposti a seconda del giorno, dell’umore, dei segni che coglievo attorno a me: dalla pioggia di fango – capita spesso a Roma e parrà strano ma non è una metafora –, al volo jazzato degli uccelli, alle multe per divieto di sosta del mio vespone arrugginito. Ma quello che oggi mi sembrava appurato e conclamato per l’eternità domani non lo era più, gli incubi si succedevano agli incubi e per mettere un po’ di ordine in una materia così volatile sono arrivato a produrre schemi, formule, tabelle riassuntive che normalmente finivano per aggiungere caos al caos. Finché un giorno ho buttato tutto nel cestino e mi sono focalizzato su tre ipotesi basiche per giustificare il silenzio di Dea: a) non ha ancora letto; b) ha letto e le fa schifo; c) è arrivata a metà e si è persa per strada. Ho stampato il foglio A4, l’ho appeso sul muro sopra al tavolino, davanti al mio computer, appena sotto la foto di Mirko – il mio ragazzo – con la maglietta rossa scattata a villa Pamphili. L’ho fissato per tre giorni, il foglio A4, in uno stato di soporosa ipnosi. Aveva qualcosa di magico e sapienziale quel riassunto così stringato di un materiale così incandescente, qualcosa di inespresso quella palese impronta trinitaria che mi lasciava sempre un po’ turbato. Sì, nonostante la perfetta simmetria ternaria – che all’ipotesi c) lasciava allusivamente aperta più di una porta – c’era qualcosa che non tornava. E solo all’alba del quarto giorno ho capito qual era il vulnus di un elaborato in apparenza così rotondo: mancava ogni riferimento all’eventualità che il mio romanzo le fosse piaciuto. Quando ho chiarito a me stesso il senso della scoperta, mi si sono spezzate le braccia. A tal punto ho interiorizzato il rifiuto da non contemplare neanche per sbaglio l’ipotesi che il lavoro di una vita, il mio romanzo più personale e ambizioso, quello in cui avevo sviscerato me stesso con un rigore maniacale e un’intransigenza ai limiti della crudeltà, potesse avere non dico un plauso ma una dimessa, rapida, fuggevole carezza. E che cazzo!
La notte è un unico, ininterrotto incubo. Man mano che passano le ore il delirio prende le forme più impreviste e verso l’alba mi ritrovo a blaterare frasi come: «Mi ha dimenticato», «Non mi vuole più», «Ha smesso di amarmi», «Mi ha tradito». Il linguaggio è tutto, per tutti, figuriamoci per uno scrittore. E cosa sta cercando di dirmi questa mia deriva da romanzetto rosa – rispettabilissima, per carità, la distinzione tra alto e basso in letteratura, lo sappiamo bene, è un concetto vecchio e obsoleto. Verosimilmente questo: che a me adesso del mio libro non me ne frega più un beneamato nulla. È Dea che m’importa, è per lei che sto farneticando. Senza la sua presenza, sia pure virtuale, la mia esistenza, non solo quella letteraria, ma anche l’altra, quella che la sottende, quella biologica con un cuore che batte e un polmone che respira – sia pure a vuoto – è dubbia. Eventuale. Non necessaria. L’idea di perderla mi terrorizza. L’idea che la prima e ultima persona che abbia creduto in me si sia data, mi sconvolge. Sì, Dea è tutto per me. Chi mi ha accompagnato per oltre un quarto di secolo? A chi mi sono confidato quando, appena adolescente – vabbè, 25 anni – ho scodellato il mio primo romanzo? A chi mi sono rivolto per cercare conforto, sostegno, lumi nella mia lunga strada? A lei, solo a lei. Tutte le altre presenze della mia vita sono state meteore, stitiche apparizioni svanite senza lasciare la minima traccia. Lei no, lei c’è stata sempre – oddio, quasi sempre, capitava che non la sentissi per due anni di fila, ma questo che vuol dire? E anche se non le ho mai stretto neppure la mano, anche se non l’ho mai guardata negli occhi, che importa? È l’intensità che conta in un rapporto, la profondità dei sentimenti. Il cuore. Sì, io Dea l’ho amata. Follemente. A pensarci bene è l’unica vera e duratura storia d’amore della mia vita. Una storia che adesso, a contemplarla trafitta dai primi raggi di sole che s’intrufolano dalla finestra, sembra esattamente quello che è: una storia di carta.
Con la scusa di inviarle una nuova stesura del romanzo – “Mi sono dedicato a quel lavoro ossessivo sul testo che tu conosci fin troppo bene. Certo, sono inezie, ma a volte, lo sai, sono i grammi che fanno pendere una bilancia” – provo a riprendere contatto. Insomma, batto un colpo per vedere se c’è ancora, se posso ancora contare su di lei, e facendo una rigorosa media matematica dei tempi che ha impiegato a rispondermi in questi 25 e passa anni, più i 7 mesi dell’ultimo silenzio e altre complicate variabili di cui non mette conto parlarne – avrà un fidanzato, un amante, una liaison lesbica? sarà in un periodo buono, depresso, fuori di testa, si sfonderà di canne o altre sostanze psicotrope?, eccetera – arrivo alla conclusione che la risposta non arriverà prima di due, tre mesi. E mi rassereno: sì, questi per me sono i tempi migliori, i tempi dell’attesa programmata, quel lungo intervallo in cui, dopo aver fatto quello che devo, sono sicuro che prima di una certa data non può succedere nulla, né di buono né di cattivo. E invece.
Ieri sera torno a casa tardi, acce...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dedica
  3. Epigrafe
  4. Venerdì 14 giugno
  5. Sabato 15 giugno
  6. Domenica 16 giugno