
- 160 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Era primavera d'amaranto
Informazioni su questo libro
L'occhio attento di una bambina, poi tormentata adolescente, registra contraddizioni, debolezze e difficoltà di una famiglia veneta tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento.Dalle campagne alle nuove periferie, dalle valli da pesca in abbandono ai territori fulcro dell'industrializzazione del Nord-Est, la storia familiare si dipana da un trasloco all'altro in una società che si trasforma spasmodicamente.Muovendosi sulpalcoscenico esistenziale dei parenti, l'ultima di sei figlisi fa testimone delle loro illusioni e battaglie mentre cerca di liberarsi dalla forza gravitazionale degli affetti.
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Informazioni
LA CASA SENZA GIARDINO
Arrivammo nella nuova abitazione a fine dicembre o inizio gennaio, era calda, c’era il termosifone in ogni stanza, finalmente il freddo in casa sarebbe stato solo un ricordo, ma nel timore di una possibile carestia o che tutto fosse una lusinga, dura minga, in un ripostiglio vennero conservati i voluminosi scaldaletto e una stufa.
Il posto scelto da nostro padre non era un paese, non era un villaggio, non era un borgo, era una località in terra bonificata, con campi squadrati delimitati da fossati, poche case sparpagliate nella landa; c’era ancor meno vita rispetto al luogo lasciato. A un centinaio di metri, scorreva il Livenza, un fiume più grande di quello che conoscevamo e senza traffico di barconi, il trasporto acqueo ormai soppiantato da camion e furgoni. La casa era a ridosso della strada provinciale asfaltata, almeno andando a scuola non mi sarei infangata le scarpe. Ristorante Bar Eden berciava l’insegna verticale e coloratissima: nella scelta di quel nome allora molto in voga il richiamo al paradiso era stato determinante. Si sentiva ancora l’odore di malta e pittura, il profumo fresco di casa nuova. Milady, che più coltivava l’ambizione famigliare, accarezzava i muri e mi diceva ti rendi conto? Queste mura sono nostre!, io non mi rendevo conto, priva di un minimo senso del possesso, inoltre mi veniva in mente l’usuraio col collo di volpe e guardavo le pareti senza provare esaltazione. Avevamo una cameretta per noi due, le piccole, fino ad allora avevamo dormito nello stesso grande letto con Coda di Paglia. Le tre grandi ora avevano la loro stanza, anche Cinico godeva finalmente della sua indipendenza e non dormiva più in camera con i genitori.
Davanti alla casa c’era l’area riservata al parcheggio di moto e auto dei clienti del bar, sul retro uno spazio destinato all’orto, la madre rinunciò al giardino prevedendo che la mole di lavoro non le avrebbe lasciato tregua per badare a rose dalie e iris, il suo sogno si era sfaldato, la rassegnazione già trapelava dal suo sguardo.
A delimitare il nostro territorio dalla parte dei campi c’era una rete metallica, dal lato che dava su un terreno incolto fu piantata una siepe di ligustro escludendo la prima idea di porre degli oleandri a barriera, si diceva fossero forieri di morte, non si sapeva della loro tossicità , la superstizione fortunatamente copriva le falle dell’ignoranza: magari ne avrei mangiato i fiori, per una curiosità indotta dai profumi avevo già assaggiato viole e garofani cinesi. Si discusse anche se piantare o meno il rosmarino per via di un’altra credenza: le femmine di famiglia non si sarebbero sposate se il padre l’avesse messo a dimora, cosa che comunque fece, gli arrosti per il ristorante richiedevano indiscutibilmente quell’ingrediente. A demarcare l’orto fu collocato un filare di peri, alberi innocui su cui non gravavano dicerie di sfortuna, ma non vidi mai maturare i frutti, ne assaggiavo qualcuno quando erano piccoli e aspri poi diventavano stortignaccoli e bacati e si lasciavano in pasto agli uccelli. Il padre in autunno acquistava per tutta la stagione cassette di mele succulente in un’azienda agricola vicina. Mele e uva la frutta preferita da tutti. Il filare di peri stava a dimostrare l’incoerenza di famiglia.
La sistemazione del cane Dick provocò discussioni a cui seguì la decisione disgustosa di tenerlo legato durante il giorno fino alla chiusura del bar: non era possibile che gironzolasse libero nella parte anteriore della casa con il rischio di spaventare i clienti. Abbaiava molto infatti, nessuno lo aveva addestrato. Alcuni contadini ebbero da ridire e minacciarono, anche se non direttamente, di ucciderlo: Dick abbaiava furiosamente e correva lungo la rete di recinzione quando di notte passavano nel campo dietro casa per fare non si sa che cosa, forse per controllare e oliare le armi lì sotterrate, erano ex partigiani. Dovemmo tenerlo legato anche la notte per sicurezza. Più che abbaiare, ora latrava, gagnolava come quando era cucciolo, ululava. Una pena guardarlo e sentirlo, si fece pericoloso se lasciato sciolto, diventò irritabile e inviso alla famiglia, ormai considerato un peso. Cercavo di giustificare la scelta dei genitori, il destino del cane era quello di fare la guardia alla catena, prova ne era Melampo in Pinocchio, sempre legato, Medoro invece era eccezione in quanto cane della fata Turchina. Continuai a giocare con Dick, ma con tanta tristezza capendo che era esasperato dal giogo.
Ci eravamo allontanati di pochi chilometri e il riferimento era sempre al borgo natio per via della pratica religiosa. La madrina mi aveva dato in uso una piccola bicicletta, non era nuova ma ne ero felicissima, mi sarebbe servita molto per questi spostamenti. Ogni sabato pomeriggio raggiungevo con Milady il vecchio paese per la confessione di peccati che inventavo lì per lì, sempre gli stessi, non potevo allargarmi alle bestemmie, una volta per variare dissi di aver commesso atti impuri ma non sapevo cosa fossero, dissi anche di aver frequentato cattive compagnie per aver sentito e ripetuto mentalmente pittoreschi epiteti rivolti a Dio, paragonato dai clienti del bar ad animali e cose d’ogni sorta, il più poetico, dio musica, mi aveva estasiata e mi sentivo in colpa. La nuova cappella, che era stata la mia aula, stava al di qua del ponte ormai immobile, non passavano più barche e la custode se n’era andata, chissà che fine aveva fatto la grande brugola che serviva ad aprirlo, noi non lo superavamo per arrivare alla vecchia dimora, non ne avevamo motivo, senza dire niente buttavamo lo sguardo di là dal fiume e tra gli alberi, per usare le parole di Hemingway più volte ospite a palazzo. Il barone aveva ancora la proprietà delle valli da pesca ma non ci veniva più per le battute venatorie, aveva lasciato il guardiano a controllare quanto restava dei suoi beni fino al casino di caccia in piena laguna. Nel nostro disagio aveva parte anche il fatto che la casa amata fosse abitata proprio dall’usuraio e dai suoi figli i quali rinfacciavano il prestito al papà e ne sollecitavano la restituzione. Io osservavo la casa con distacco, ci ero vissuta poco più di sei anni, non mi sforzavo neanche di ricordare, ma greve era l’avvilimento degli altri famigliari, pungente la loro nostalgia.
Per Pasqua il prete di turno, un anziano dispotico, volle organizzare una messa grandiosa con coro di bambini. Durante la Quaresima riunì l’infanzia sparpagliata nelle campagne ed entrò nella parte di maestro di cappella coi suoi cantorini, impresa ingrata con un gruppo eterogeneo non solo per età ma per la presenza massiccia di stonati, di voci ineducate al canto e di teste dure di comprendonio. Con regolarità Milady ed io raggiungevamo il coro e seguivamo le indicazioni del parroco che impauriva tutti con i suoi modi bruschi e il tono tenebroso. Sembrava fosse riuscito a ottenere un risultato decente ma non era mai soddisfatto e diventava sempre più irritabile e severo. All’ultima prova, un ragazzo lanciò una stecca ineguagliabile, lui lo prese per il collo e lo tirò su di peso urlando la sua ira. Il malcapitato prese un tale spavento che defecò all’istante ma nonostante la puzza aleggiasse nessuno si mise a ridere o lo prese in giro, nessuno fiatava. Resosi conto della gravità del suo atto, il prete cambiò registro e cercò di esternare tutta la dolcezza di cui era capace, assai poca e di convenienza, sufficiente però a rincuorare i bambini che per la prima volta lo vedevano sorridere e celiare. A Pasqua tutto andò bene. Quel giorno si sbracciò come un invasato a dirigere il coro, i cantorini timorosi rivolti a lui non lo delusero.
Proprio nel periodo successivo al trasloco giornali e radio riportarono una notizia di per sé ridicola, ma per lo stato emozionale di famiglia fu seguita con attenzione. Un presunto profeta di Milano, tale Emman il Consolatore, aveva ricevuto una soffiata da Dio: il 14 luglio 1960 sarebbe arrivata la fine del mondo. Era anche un anno bisestile. Pur sapendo che si trattava di una baggianata, a tavola questo era l’argomento preferito. I mesi passavano e il giorno ineluttabile si avvicinava, radio e giornali dicevano la loro, noi la nostra. La Domenica del Corriere aveva dedicato all’argomento una copertina che mostrava Emman e i suoi adepti nell’unico posto al mondo che secondo le confidenze divine al santone sarebbe rimasto integro, sullo sfondo le maestose alpi valdostane e in cielo i giganteschi cavalieri dell’Apocalisse. Fosse veramente accaduto, a nostro padre non sarebbe stato possibile pagare il debito all’usuraio, ma neppure coronare il sogno di una attività avviata e gestita dallo stuolo dei figlioli. Arrivò il 14 luglio e non successe niente, si aspettò qualche altro giorno per sicurezza, poi non si pensò più al Giudizio Universale. Restava un tarlo, a cui però avevamo fatto il callo, la spada di Damocle dei Segreti di Fatima.
Il padre era sempre preoccupato, preso da dubbi sulla scelta operata, sia per il tipo di attività , sia per il luogo isolato e la malfidenza della gente. Ebbe una prima delusione quando proprio Mani d’Oro, chiamata anche l’Ingenua, in un momento in cui era sola al banco del bar vide entrare un uomo torbido che aprì il cappotto esibendo il sesso eretto fuori dalla patta: era subito scappato e lei non aveva neanche urlato, aveva solo appoggiato due dita sulle labbra mormorando un candido iiih come quando guardava una farfalla o scopriva un bruco nel cavolfiore. Il bar non era un posto adeguato per delle ragazze, questo chiodo fisso tormentava il papà , non poteva restare a guardia in ogni momento per tenere a bada le volgarità degli avventori. Decise che quando lui non c’era dovevano stare in due al banco e se occorreva aiuto la mamma era reperibile in cucina dove il pesce le dava un gran daffare.
Due volte alla settimana passava Barbaro, un pescivendolo con il cassone dell’Ape pieno di merce fresca, aveva un buco in gola e parlava con grande sforzo e una voce appena comprensibile, una mostruosità : ogni volta stavo a sentirlo senza guardarlo ma pensando, nesso analogico, alla donna con la coda; la mamma intanto comprava canestrelli, polpi, seppie, calamari per gli stuzzichini da banco; per eventuali clienti al ristorante prendeva invece sogliole, sarde, cefali e il vitello di mare, squaloide un po’ insapore e buono solo se impanato alla milanese. Avevamo il frigorifero, grande novità , ma siccome non c’era molta affluenza e il pesce presto deteriorava, mangiavamo noi quanto non andava consumato al ristorante. Oltre al frigorifero in cucina c’era quello del bar e, d’estate, il freezer dei gelati Boreal, non i famosi Eldorado, anche il caffè Ruffo non era reclamizzato in televisione, si trattava di marche locali scelte per risparmiare.
Nostra madre, sempre restia agli entusiasmi, dimostrava una certa euforia per la lavatrice, la più grande invenzione a sua detta, lavare le lenzuola di una famiglia numerosa era una faccenda impietosa e l’elettrodomestico lo portava a termine soltanto schiacciando un pulsante, tutto ciò aveva del miracoloso. Il lavoro per lei era comunque pesante fra pulire il pesce, cucinare, tenere pulita tutta la casa compresi i locali pubblici, abituata alle fatiche non si lamentava, nel pomeriggio trovava il tempo per rilassarsi sfogliando il quotidiano locale e le sue riviste preferite, il Messaggero di Sant’Antonio e Famiglia Cristiana. Le ragazze la aiutavano ma erano anche impegnate al banco e a far di maglia con le macchine, avevano trovato una ditta per cui saltuariamente lavoravano in nero. Buttafuoco gestiva il negozio di alimentari collegato al bar, non aveva mai clienti, i pochi contadini dei dintorni andavano a fare la spesa alla cooperativa di consumo di un paese vicino, lei allora, brontolando, dava una mano al bar o nel laboratorio di maglieria mentre la merce in bottega scadeva. Cinico, pur se giovanissimo e ancora studente, badava ai tabacchi per cui avevamo ottenuto il patentino e se la spassava a fumare le prime sigarette: andava in cantina a farlo e approfittava per assaggiare anche questa o quella bibita; a scuola andava malissimo e nostro padre ne era addolorato. Non poté farci nulla e il cruccio gli rimase, alla prima bocciatura alle scuole superiori il ragazzo non volle più saperne degli studi. Unico maschio, godeva di una certa autonomia e per l’utilità delle piccole commissioni in paese gli fu comprato un Laverdino dando in cambio la Vespa, così scorrazzava a destra e a manca in tutta libertà . Milady frequentava le scuole medie che non erano vicine, ci andava in bicicletta tutti i santi giorni e con tutti i tempi, fosse pioggia vento o neve. Amava gli studi ed era brava in tutte le materie, soprattutto in disegno, ma anche lei era fonte di preoccupazione per i genitori. La strada per raggiungere la scuola era l’argine del Livenza, a lato del quale l’ampia golena era luogo risaputo di stupri impuniti. Ogni giorno i genitori guardavano al fiume con apprensione finché non vedevano comparire la figlia. La loro preoccupazione aumentò quando la videro tornare seguita a passo d’uomo da una Renault Dauphine, le chiesero cosa volesse quell’uomo e lei rispose evasiva. La mamma teneva il muso, il padre incalzava con domande su domande, Cinico ghignava e la stuzzicava. Per alcuni giorni la scena si ripeté, finché con grande sollievo di tutti l’auto al seguito scomparve, non è dato sapere se fu lei a mandare via l’importuno, il carattere per farlo ce l’aveva, di sicuro era rimasta compiaciuta da questo primo spasimante adulto e ostinato.
Si attendeva l’estate e il traffico dei turisti con curiosità e ottimismo, la madre lasciò i suoi bronci e decise di seguire il solco del cuor contento il ciel l’aiuta convinta fosse l’ora di stimolare i risvolti clementi dell’esistenza. Per supplire alla mancanza di un giardino, sul bordo del marciapiede piantò tante portulache di vari colori che rendevano più accogliente l’insieme della facciata del bar, io aspettavo seccassero per raccogliere i piccoli semi. Abbandonando Faccetta nera riprese a intonare le canzoni popolari che aveva imparato da ragazza alle sagre di paese o dagli ambulanti di passaggio, in tempi in cui gli eventi erano rari l’orecchio assimilava in fretta e lei ne sapeva molte, i testi non erano perfetti per grammatica e sintassi ma le melodie erano dolci, narravano di amori tragici, di donne traviate e poi redente, Cosetta Cosetta volendo fuggire nell’onda del mare la vidi sparire. Chiedevo continuamente di risentirle e cercavo di memorizzare. Lei si abbandonava a raccontare dei tempi in cui era ragazza e stava in compagnia di una cugina molto amata; si scrivevano ancora cartoline e quando veniva a trovarci si capivano al volo, ridevano come ragazzine, la voce gutturale di Lola non aveva pause, una sordomuta così loquace e spiritosa si ascoltava a bocca aperta. Mi chiedevo se da giovane avesse anche provato a cantare con la mamma. Ogni volta rammentavano i tempi in cui allevavano in casa bachi da seta, parlavano di uova da vezzeggiare fino alla schiusura, si riferivano a larve e bozzoli come parlassero di persone, con affetto e rispetto, infatti li chiamavano cavalieri, poi come madri degeneri vendevano le gallette prima di avere assistito all’ultimo stadio della metamorfosi, mai una farfalla che si fosse levata in volo. Per fortuna era finita la convenienza di quell’attività , pensavo, preferivo di gran lunga veder razzolare le galline con la loro piuma morbidina e il chioccio ovattato, se si escludono gli acuti, rispetto larve ingorde di gelso da nutrire senza tregua come infanti capricciosi.
I pochi parenti da parte materna, oltre a Lola e alla nonna, erano persone semplici e affettuose, si percepiva che ci volevano molto bene. Da parte paterna c’era gente supponente e poco calorosa, i rapporti con loro erano più difficili, il nonno veniva a chiedere soldi ritenendo fosse dovere del figlio maggiore, nostro padre, rimpolpare la sua pensione. I più gentili, oltre a una zia di nome Lidia, erano i cugini del papà , contadini da cui si andava molto volentieri, abitavano in un paese il cui nome evocava vendemmie e libagioni, Torre di Mosto, nella casa avita culla della stirpe, così narrava il mito di famiglia, antenati mercenari al soldo della Serenissima che avevano ricevuto la regalia di quelle terre dopo la battaglia di Lepanto. Il vino di Eliseo e Albano era un nettare da nozze di Cana.
Tra le preoccupazioni di nostro padre c’era il pensiero del giudizio dei suoi fratelli e sorelle, oltre che del padre. L’idea di un possibile fallimento cominciava a devastarlo, cercava di tenere a bada i tormenti con l’aiuto delle tavolette Roter e nutriva comunque qualche speranza andando verso la prima estate all’Eden. Come per creare un legame con la vita precedente costruì un piccolo pollaio e comprò delle galline checchette, il gallo aveva una voce sorprendente e in grado di svegliarci nonostante fosse nano. Costruì anche uno stabbiolo per un maiale affabile che chiamammo Annibale e a cui ci affezionammo, sembrava felice in confronto a Dick, mangiava a grugno sorridente, quando fu il momento nessuno di noi considerò i suoi salumi, furono consumati dai clienti al bar tra gli stuzzichini e i panini, al ristorante tra gli antipasti.
Avevo pochi rimpianti sia per la vecchia casa che per la scuola precedente. In prima elementare avevo avuto una maestra brava ma nervosa, una volta mi rifilò una sberla sulla nuca per aver macchiato il quaderno, gestire pennini e inchiostro a sei anni era condanna belluina. Molto dolce fu la maestra del trimestre iniziale della seconda, per Natale regalò a ogni alunno un libro, il mio era molto grosso e s’intitolava Barbierino, era il primo libro tutto per me, un tesoro. Nella nuova scuola mi ritrovai in una pluriclasse con una decina di bambini dai sei ai tredici anni, non mancavano i ripetenti allora. Prima di iniziare le lezioni la maestra fermava gli alunni in uno spogliatoio all’ingresso, faceva togliere le scarpe e infilare le pantofole per non portare il fango nel resto dei locali scolastici; per me la strada era asfaltata e il ciglio erboso, ma altri bambini arrivavano attraverso i sentieri tra i campi con le scarpe inzaccherate. Il primo giorno la madre di una compagna mi disse che la maestra era matta, la faccenda delle pantofole aveva contrariato quasi tutte le famiglie, avevano affrontato una spesa in più e i bambini al momento del cambio dovevano esibire calzini lisi, rammendati o coi buchi. Per me si rivelò la migliore insegnante che potesse capitarmi nonostante la sua idiosincrasia per la matematica che mi lasciò in eredità per il resto della carriera scolastica.
Amava molto le scienze ma anche la storia: si soffermò per un mese sui primordi dell’umanità che, spiegava, poteva considerarsi tale a partire dal culto dei morti, concetto non facile, così immaginavo gli ominidi davanti a caverne o tumuli funerari mormorare i loro ora pro eo.
A partire dalla terza elementare cominciai ad aiutare i bambini in difficoltà , soprattutto Teodolinda con cui attuai un tirocinio pedagogico di tutto rispetto anche se il suo apprendimento non migliorò di una virgola. Durante l’intervallo i bambini più grandi mi prendevano in giro senza ragione, ripetevano cose che avevano sentito in famiglia, dicevano che mai sarebbero venuti a fare la spesa da noi. Un ragazzino asserì che mio padre era sporco di farina, con riferimento allo smacco del mulino. Quando lo raccontai a Milady, lei disse che avrei dovuto rispondere che suo padre invece era sporco di letame e puzzava, aveva sempre le battute pronte e penso avesse liquidato così, con una frase tagliente, il pappagallo della Dauphine. Ma a me non venivano parole offensive, me ne restavo muta a subire. La maestra mi aiutò a non dare peso alle provocazioni e sdrammatizzò quando sulle pareti del bagno scrissero insulti abbinati al mio nome. L’accanimento infatti scemò e quando i più grandi finirono il ciclo elementare non ebbi più problemi. Con le belle giornate, la maestra passava a prendermi dopo pranzo e si andava a camminare lungo l’argine del Livenza, passeggiate per me benefiche perché uscivo dall’ambiente famigliare e praticavo un po’ meglio l’italiano, in casa si parlava il dialetto, la televisione si ascoltava e non era interattiva. Ci fermavamo nella golena o negli orti delle case coloniche abbandonate e cercavamo insetti, la dorifora delle patate, i rari cervi volanti e soprattutto le farfalle di cui lei possedeva una collezione esotica. La signorina Battistella arricchì anche le mie conoscenze botaniche, osservavamo erbe selvatiche e fiori, bobbolini e acetosella, imparai a chiamare i margheritoni con il nome grecheggiante di leucantemi.
Le sorelle grandi non avvistavano alcun principe azzurro, forse per colpa del rosmarino, il bar ancora non forniva loro materia prima per emozioni sentimentali. Avevano ammiratori ma erano tutti di passaggio al bar e non degni di considerazione. Il papà stava in guardia e dava consigli, suddivideva il genere maschile in quattro categorie: gli scalzacani, i fanfaroni, i filibustieri e i galantuomini, questi ultimi erano gli unici papabili per le figlie ma non se ne vedeva l’ombra. A volte le portava al cinema a Caorle. Per mesi parlarono del film Rocco e i suoi fratelli, Alain Delon e Renato Salvatori unità di misura nelle aspettative e nei giudizi verso gli approcci maschili.
Un giorno arrivò notizia che a Portogruaro si sarebbe esibito Achille Togliani, cantante al crepuscolo per l’arrivo dei primi urlatori, però loro lo giudicavano affascinante e convinsero il papà ad accompagnarle alla serata canora. Nel periodo precedente l’evento fu tutto un parlarne, un discutere su cosa indossare, cercarono di adattare abiti vecchi e Mani d’Oro fece miracoli. Venne il giorno tanto atteso, già la Topolino era davanti al bar con il pieno di benzina nel serbatoio. Il freddo era tagliente e infatti dal tardo pomeriggio cominciò a nevicare e nevicò così tanto che la strada diventò impraticabile. Il padre si rifiutò di rischiare quattro vite di famiglia per quel tale della Signorinella pallida. La delusione delle ragazze fu plumbea, ma dovettero rassegnarsi. Una circostanza così non si sarebbe più presentata, avevano pe...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- LA CASA SUL FIUME
- LA CASA SENZA GIARDINO
- LA CASA DEI CIPRESSI
- LA CASA DEL PIOPPO
- IL TEMPO DEI FIORI AMARI
- EPILOGO