OTTAVO POST
Simona Pisanti
AGGIORNAMENTO DI STATO
Raccolgo il testimone e vado.
Lo sguardo vola a Rossi che si sta strafogando di telefonate.
«Miguel, osserva Lello: non ti sembra molto turbato?»
Il suo «Dai, lui è particolare…» si sgretola tra le ingiurie del battibecco di due colleghe-soubrette, Paparelli in cattedra per Religione e l’altra per il Sostegno, insegnamento di cui dovrebbero beneficiare entrambe. E alla svelta pure.
«Un boicottaggio ad hoc quello tuo e di Annibale» dico.
«Cosa si deve fare per vedere come se la sbrigano le due signore! Ricorda: bisogna lanciare la pietra e ritirare la mano. Il versamento di bile non deve essere solo tuo… Che dicevi di Lello?»
Mi presta solo orecchi, ma non occhi Landròn. Il suo sguardo s’è incagliato nell’imbarazzante didietro di Lisetta Paparelli, che ancheggia da mannequin di gomme microscopiche con spacco fino alla coulotte (quando la indossa sul microtanga, altrimenti il valenciennes si perde tra le natiche e la visione non ha prezzo, sostiene Borzacchini). Lisetta va verso Diluvio, impegnato con Coriandolo dalla testa da primadonna buttata all'indietro e dalla risata da buffonista che è puro stress sentirla. Rimane al palo la bella! Ci pensa Guastadisegni a consolarla. Le schiaffeggia il culetto e dice:
«Diluvio è un pirla, risolvi con me».
Non ascolto oltre, perché la bagarre si fa da squilibrati tanto che con Miguel decidiamo di sgranchirci gambe e cervello. Giusto il tempo di una sigaretta.
«Beato lui el gestor, che avrà? un marro avvoltolato lungo e grasso al posto del pisello? Tutti addosso gli stanno, maschi e femmine.»
Evito di commentare la caduta di stile. Ritorno su Lello.
«È tutto sbracalato, lui che è sempre figo.»
«Aquì no se puede quedar un altro figo. A chi ti riferisci?»
«A Lello, no? Da mezz’ora cerco di parlartene, diamine!»
«Chica non ti scaldare anche tu, che le lingue di fuoco attaccano. Finiamolo questo Agnello, va’!»
«Avrà problemi con Marina… Ora che ci penso, lei, durante una gita a Capri, mi confidò di non essere sicura di volerlo sposare. Non disse di più, ma in base a ciò che avevo costatato tentai di rassicurarla.»
«Cioè?»
«Ascolta e trai le conclusioni: “Immagino che tu sia preoccupata” le dissi, “ma il vostro matrimonio non dovrebbe riservare sorprese; tu e Lello avete una convivenza collaudata, a prescindere dal giardino segreto che coltivi. Certi confronti, a volte, fanno bene al rapporto.” Mi guardò sconcertata, tentò di interrompermi, ma subito aggiunsi: “Non ti giudico: la vita ci deve calzare a pennello, ognuno ha un proprio modo di arrivare alla meta”.
Sai che mi rispose lei, Miguel? “Allora non c’è bisogno che mi spieghi. Pensavo che la spregiudicatezza fosse un mio tratto distintivo. Non farne parola con Lello, capito?”»
«Tu gliene hai parlato?»
«Come avrei potuto? In genere comprendo la gente, quindi non la giudico. Tu, che sei abile a fiutare nelle dicerie, sapevi della tresca di Marina col farmacista?»
Amici, apro una parentesi, e mi rivolgo solo a te Lello, che uno stinco di santo non lo sei mai stato. Più di una fuitina te la sei fatta; pensavi non sapessi anche questo? Immagino che mi stia dando della falsa amica e che vorresti scegliere chi stritolare prima, me o Marina.
Secondo te, oggi, sarebbe stato il caso di parlarti di questa dannatissima storia? Mi accarezzavi i capelli in un modo così californiano che nemmeno Benni in Californian Crawl è stato tanto abile. Secondo te, avrei dovuto giocare male la mia partita?
Canne non ne pratico, nemmeno alcool avrei potuto offrirti per farti reggere la notizia, e il crawl nella vasca mi riesce difficile. Mi rimaneva un dissoluto nell’acqua, da bere tutto quanto… Su, Lello! Convieni che non è stato tanto male?
Della circostanza, a cui ho accennato, vi diremo poi Lello ed io insieme. Immagino che acconsentirà e, se non dovesse accadere, lo farò da sola.
Torno a raccontare.
Miguel sospira come chi sa tutto di un mondo che da sempre va così. Mi lascia parlare. «Se Rossi avesse saputo? Sembra sconvolto. Di sicuro non ha dormito.»
«T’interessa proprio ’sto Rossi!»
«Dai, smettila. Ha fatto cambiare vita dalla sera alla mattina all’ingrata! Magari non sguazzano nell’oro, perché un professore che non abbia di suo non può permettersi lussi, ma almeno portano avanti un’esistenza senza botti.»
«Pure la dichiarazione dei redditi...»
«Dai, è un amico! Ascolta: Marina di recente mi ha anche detto che il suo bastardozzo trascorre i pomeriggi tra computer, esperimenti casalinghi a rischio di esplosione, letture in cui lei non può essere coinvolta perché non ci capisce un’acca, allora gli ha dato l’ultimatum: “O ti cerchi un lavoro extra, perché coi libri non si mangia, e nemmeno con gli hobby, o ti lascio”. Ritengo che la signorina debba chiarirsi le idee, riflettere su ciò che getta alle ortiche. Sa bene che, sposando un professore di scuola, non potrebbe condurre una vita agiata, a meno che non abbia di suo. E per dirla tutta, penso che dovrebbe darsi da fare pure lei nel tirare avanti la baracca. Non credo che Rossi voglia relegarla tra le nebbie domestiche. Potrebbe lavorare, invece di incamerare altrove.»
«Chica, basta col tormentone. È appena uscito di scena Margaro che t’accolli il problema di un altro. Non è possibile! Ritorna al nostro spento presente. Manco la brace pulsa più al buio. Buio che non auguro a nessuno. Cazzo.»
«Ti perdono l’infiorescenza. A volte penso che sarebbe più facile vivere di stenti, che di scuola. Questo collegio non è un monumento al buongusto ma ci tocca, per cui butta la sigaretta ed entra prima tu. Scusami, a volte me ne vado per la tangente. Occorre che mi si riacciuffi. Starò zitta. Ti seguo.»
«Altro che Rossi! Guardali, Mezzafesa e Cantalamessa!»
I due colleghi sono in piedi, si scambiano le pagine di un giornale che si sono diviso; leggono per ribattere, dati alla mano, alle corbellerie che Diluvio va sostenendo a proposito di qualcosa che non riesco a sentire tant’è la confusione. Rimbomba a un certo punto la voce di una RSU:
«Colleghi, vi è chiaro ora? Le decisioni del dirigente, riguardo all’assegnazione dei docenti alle classi, stridono con quanto proposto in precedenza dal collegio dei docenti». Incalza Ughetto: «Dirigente, lo sappiamo che è sua prerogativa l’assegnazione delle cattedre, ma se vuole finalmente imparare qualcosa è utile che ascolti. Deve convincersi, e se lo faccia dire, che la capacità d’ascoltare non è vantaggiosa soltanto per noi che siamo dall’altra parte della barricata. Anche per lei lo sarebbe. Se non ci presta attenzione, potrà mai conoscerci a fondo? Se non ci dà retta, potrà scoprire se siamo degli incompetenti? Se “funzioniamo” meglio in un consiglio di classe piuttosto che in un altro? Occorre armonizzare le personalità che entreranno in gioco nel lavoro di squadra, preside! Dia ascolto ai suggerimenti dei genitori dei ragazzi, se non vuole considerare i nostri. Meglio ancora: tenga presente i criteri indicati nell’art. 39 del Contratto, ossia la continuità didattica, l’anzianità di servizio e, in ultimo, le scelte individuali considerando, in caso di concorrenza, la graduatoria di istituto. Ovviamente è fatta salva la sua competenza di assegnare i docenti alle classi ai sensi degli artt. 7,10, 396 del D. Lgs. 297/94, art.6 comma2 lett. d) ed e) del C.C».
«Mi dica allora: qual è il problema? Lo sta dicendo lei, perditempo, che è di mia competenza l’assegnazione. Riguardo all’ascolto, che dice professore? Se dovessi accontentare – questo significa per voi “ascoltare” – i genitori che minacciano di portare via il figlio di qui, se va con ics docente piuttosto che con zeta, non potrei formare le classi. Magari è una capra il docente tanto richiesto, e devo reggere il gioco. Sa quante capre cercano erbetta qui?»
Interviene Mezzafesa: «Preside, accantoni l’idea antidiluviana di creare una cattedra con insegnamento che si svolga separatamente nel biennio e nel triennio; strutturi quelle di Lettere e di Matematica in verticale, anche in previsione della riconduzione delle stesse a 18 ore; si garantirebbe la continuità didattica…»
«Professori, perché vi ostinate a parlare di qualcosa in cui non potete metter lingua? L’assegnazione è un atto di gestione di mia esclusiva competenza nell’ambito del potere di direzione, coordinamento e valorizzazione delle risorse umane. Acciderba!»
«Preside, il suo agire deve essere coniugato con la procedura di cui parlavo prima…» si scalda di più Cantalamessa, «e lasci stare l’erba che solo quella ci manca qui, sia per caprette belle sia per cervelli andati.»
«Professore, la smetta: che cosa le ho appena detto? Non mi rompa più i marroni. Posso discostarmene.»
«Certo, ma può farlo solo in casi eccezionali e motivatamente; le leggo la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 145/95.»
«Professore, un motivo in più perché lei non metta lingua!»
«Dirigente, abbassi le voce e lasci stare i marroni. Le ricordo anche la sentenza 2778 del 3.12.2004 del Tribunale di Agrigento: se il capo non applica i criteri fissati dal consiglio di istituto e non tiene conto del parere espresso dal collegio, il suo atto di assegnazione alle classi è nullo. Dirigente, lei è vincolato alla delibera del consiglio.»
«Cantalamessa, non metta più lingua!»
«Preside, la smetta co’ ’sta lingua! Vada a mettere la sua dove sa…»
«Lei è sospeso! Vada fuori!»
«Ma la pianti! Me ne vado. E lei Coriandolo, che era fine e quadrato, rinsavisca, altrimentila la papperà a quattro ganasce.»
«Professore! Ne terrò conto… ohibò… seguirà lettera riservata… ohibò…»
«E che casso di riservata sarebbe? Oh… ohibò, sono seccatissimo… si lecchi, si abbracci il servetto, vada al…»
«Lei è diventato pazzo… paazzooo!»
«È tutto merito suo. O mi vuol dire che chi critica l’operato del dio è condannato al manicomio?»
«Fuoriiiiii!!!»
«Obbediscooooo!»
(Madò, amici, è toccato a me raccontarla. Che goduria! Avevate la visuale libera quando Coriandolo gli ha parlato nell’orecchio? C’è scappato il bacio all’arzillo mezz’anziano, tant’è che s’è subito riavuto dal malessere e ha continuato.)
«Professori, cercate di comportarvi a modo, altrimenti smarriamo il piacere della scuola. Agli interessati comunico che sono già pronte le nomine per le cattedre vacanti. Passate dalla segreteria e ritiratele. Si proceda con l’altro punto all’ordine del giorno. Coriandolo, lo enunci.»
«Eh sì, Cori – per dirlo breve – sì che può metterla la lingua!» dice Miguel.
«Ancooora! La smettete tutti con questa lingua?» interrompe la Gezabele. Secondo me con una dose di invidia, perché anche lei per Diluvio se ne andava in brodo di giuggiole. Ora non so, spero che sia rinsavita, almeno da quel punto di vista. Non starei con chi quasi si sbudella un altro, con l’aggiunta di qualche lavoretto speciale. Lei, con quei bei balconcini di pizzo mozzafiato…
Mi sono persa. Un po’ tutti ci siamo persi.
Coriandolo, occhiali da sole sulla fronte, tenta di leggere una sequela di dati noti a tutti, mentre si tocca il “capitale”. Pensa che glielo stiano bestemmiando?
Poi Scelsi, quello del bel nodo alla cravatta, ricomincia alla grande: contesta gli schiavi beati (con tornaconto immediato), che appoggiano il dirigente nelle decisioni scellerate, per le quali tra due anni un quarto di noi sarà perdente posto. I sedotti e fregati scaricano un applauso intermittente. Il vicario agita la martinella per indurre la platea al silenzio: l’allegra sonata si fa strada a malapena e nell’aria, all’improvviso satura di toni sommessi, si diffonde l’insulto di Cantalamessa, appostato dietro la colonna:
«Scusi lei dalla fresca nomina, impieghi l’allegra sonata al mattino, per dirigere il traffico degli allievi ritardatari e, al posto del deretano, che va sbandierando a destra e a manca in calzoni sempre più striminziti, usi la paletta di stop per i colleghi a cui sarà permesso anche quest’anno – mi gioco le palle, perché quelle ce l’ho pure io e sono gagliarde – di arrivare in ritardo. Non ho dubbi: non ci tratterà tutti allo stesso modo. Ha fatto una bella scalata, lei. Se scalata si può definire. Certo, per lei la tappa finale è il paradiso terrestre. Con una carretta di mele e un becco sempre in ammollo, e non voglio dire dove».
Una cappa silenziosa cala sul collegio.
Diluvio Aristide, ne son certa, non vorrebbe intervenire per sapere dove Ughetto andrà a parare, ma esplode:
«Ancora qui lei! Non si permetta di dar voce ad altre sconce elucubrazioni mentali in questo contesto! Freni i suoi desideri repressi...»
«Dirigente, in quanto a desideri, e tutti soddisfatti, ha da raccontare più lei. Lo faccia se vuole, l’ascolterò, ma in privato. Qui sopravvive qualche signora.»
«Basta» interviene Culobello «questa è una faccenda di cui Cantalamessa dovrà rispondere a me, e per vie legali. Non può tenere inchiodati alle sedie professionisti con simili argomentazioni. Ora seguiamo l’ordine del giorno.»
Dico a Miguel: «Guarda Felice che si accarezza il popò: il solito tic consolatorio. Pare che il gesto denoti mancanza di fiducia nelle sue possibilità. Però potrà cavarsela, gli occorre solo del tempo perché impari...»
«Ssst! Diluvio riprende le redini. Eccolo Margaro, siede di fronte a lui. Li vedi?»
«No, ho davanti quell’armadio a tre ante di Milena.»
«È in prima fila, spero mantenga la testa a posto. Ho fatto appena in tempo a coglierne l’espressione disperata. Ora s’è calato un paio di occhiali scuri che nemmeno con le orbite sfondate inforcherei. Non fare il collo di giraffa, che non ti si addice. Spostati verso di me che lo vedi. Non ti mangio mica.»
Diluvio controlla che Coriandolo prenda appunti addomesticati, non serve memorizzare certi interventi. Occorre invece scrivere e sottolineare:
“La scuola costituisce una comunità per il cui funzionamento non è decisiva tanto la modalità di organizzazione del lavoro, quanto la qualità e il numero dei rapporti tra le persone”.
Guastadisegni grida: «Proprio lei lo afferma, dirigente, che conosce esclusivamente rapporti a senso unico!» Poi, rivolgendosi a noi: «Cari colleghi, sembra comica la mia affermazione se la si cala nella nostra realtà scolastica, così come si è stratificata negli anni, nonostante Margaro abbia fatto qualsiasi tentativo per riassestarla. Non ha mai dubitato, lui, che l’istituzione fosse a rischio; tuttavia, da quando l’autonomia è legge, si fatica ancora di più a destreggiarsi in situazioni complesse. Infatti l’interpretazione che ne sta dando il nostro dirigente è ambigua e astuta, risente del tocco privo di scrupoli della squadretta che lo affianca. Di molti atti non si conosce il seguito, o li vediamo immediatamente conclusi… Ho detto troppo, me ne vado, prima che mi si sbatta fuori».
Arriva un fuoco serrato di interventi, alcuni indignati, tra cui quello di Culobello, che con una rabbia cupa, fredda, chiude: «Basta, stupidi! Non parlate che fate danno». E avanza verso il centro dell’aula ancheggiando vistosamente. Mai notata prima una simile forzatura nel suo incedere già di per sé artificioso.
«Procediamo coi lavori, mi sembra più saggio. Finiamola con gli schiamazzi» dice. Si ferma di fronte a Giuseppe, che mantiene il silenzio di una sfinge. Vuole umiliarlo o sfidarlo?
Scelsi si alza, afferra il microfono e, rivolto enoi, dice:
«Colleghi, qui vige il motto divide et impera. Ogni vicenda ha l’impronta del divo Aristide. Grazie a lui ci odiamo appassionatamente, ma c’è anche chi, avendo sgamato il suo modo di agire, non si lascia più manovrare».
«Come capperi si chiama lei? Beh, non ha importanza... ha capito ciò che le serve: qui comando io. Questo dovrebbe riempirla di ammirazione e di paura.»
Interviene Lo Brogiotto: «Dirigente, non possiede le conoscenze e le competenze di un manager di un’impresa educativa. Ormai è chiarissimo e, riguardo all’organizzazione delle risorse umane, merita zero spaccato. Quando nel 2000 le chiedemmo di far partire un corso di aggiornamento sulla legge dell’autonomia, disse che a ciascuno di noi uno studio autonomo sarebbe andato ad hoc, in realtà aveva già messo in cantiere un ciclo di undici incontri incentrati sulla psicologia dell’età evolutiva. Relazionava una sua vecchia comare. Ma anche questa è un’altra storia. Chissà se non la racconteremo io e Favareto Landrón, all’epoca vicepreside».
Diluvio, con tono pacato dice:
«Aquila non capit muscas! Mi sono divertito molto ad ascoltarla, ma andiamo per ordine. Prima sistemiamo Scelsi: non verbalizzeremo i suoi insulti all’istituzione».
«Anche quelli di Cantalamessa, di Gino» interviene Margaro.
«Stia zitto lei, non ha più voce in capitolo: errare humanum est, perseverare autem diabolicum. A Scelsi voglio bene. È noto che ultimamente ha avuto qualche problema di salute. Ai colleghi suggerirei di dimenticare la vergogna a cui abbiamo assistito. La superficialità con cui si fanno certe affermazioni offensive, e su persone che sono al di sopra di ogni sospetto ohibò… ohibò… scusatemi… perché mi vengono dette queste cose? Cantalamessa, rispondi! So che sei nascosto dietro la colonna. Tu fomenti le masse.»
L’assemblea è percorsa da un mormorio; partono un applauso, due tre quattro cinque, non di più, l’ultimo va scemando finché non viene coperto da una considerazione a voce alta:
«Impunitas semper ad deteriora invitat».
Mi giro. In piedi dietro di me, contro il muro soltanto intonacato che chi si appoggia manda in lavanderia l’abito, c’è un collega molto prestante e sicuramente fresco di laurea; lo guardo e provo un po’ di pena perché è capitato qui. Gli tendo la mano e lui, con un forte accento calabrese, mi dice: «Molto lieto, sono Gegè Frega».
«Prego?» gli dico, mentre penso: spero non di fatto, non ci mancano i frega frega qui. Poiché è sveglio, chiarisce che è albanese di Calabria. Ce l’ha qualcosa di strano, il ragazzo, e non solo il cognome.
Sarà alto un metro e novanta, bruno, con la mascella da campione di wrestling in un faccione muscoloso; mi colpiscono gli occh...